UNIECO in Liquidazione coatta amministrativa, istruzioni per l’uso

 Liquidazione coatta amministrativa, formazione dello stato passivo – Domande di ammissione al passivo, rivendicazione, restituzione e separazione, termini       

(segue) ………………..a particolari tipologie di imprese  (per l’interesse pubblico della loro natura o dell’attività che esercitano) quali a mero titolo esemplificativo: le banche, le assicurazioni, le società di intermediazione finanziaria (ecc.), le società fiduciarie e di revisione (art.1, 2 d.l. 233/1986) gli enti pubblici, gli imprese sociali, gli istituti autonomi di case popolari,  le società cooperative ecc…

Si tratta di una procedura concorsuale finalizzata alla liquidazione dei beni – per il soddisfacimento delle ragioni creditorie prima di determinare l’estinzione dell’impresa – mediante la quale la pubblica amministrazione interviene direttamente nella gestione della crisi d’impresa

Fatta questa breve premessa di carattere generale alla quale faranno seguito poi altri capitoli per consentire un’inquadratura di carattere  generale, gioverà intercalare la trattazione con il richiamo di pronunce giurisprudenziali che hanno affrontato aspetti controversi della disciplina giuridica in materia di LCA.

Sembra utile, in chiave pragmatica, prendere spunto da pronunce che contribuiscono a fare chiarezza in punto a ammissione al passivo dei crediti e a rivendicazione, restituzione e separazione su cose mobili possedute dall’impresa.

Tra le sentenze di legittimità  va menzionata una pronuncia non recentissima, ma pur sempre attuale, che ha il merito di avere risolto un dubbio che può assalire chi si  accinge ad affrontare gli adempimenti   riguardanti  la presentazione delle domande di ammissione al passivo. Pare utile puntualizzare che secondo il disposto dell’art. 207 Legge Fall. Entro quindici giorni dal ricevimento della comunicazione i creditori e le altre persone indicate dal comma precedente possono far pervenire al commissario mediante posta elettronica certificata le loro osservazioni o istanze”.

Il termine di 15 gg. previsto dalla norma potrebbe legittimare qualche legittima preoccupazione per i non addetti ai lavori o a chi si dovesse cimentare nel reperimento dei documenti da allegare alla domanda (che, come avremo modo di osservare, non è una semplice formalità e non va sottovalutata). Ebbene, può considerarsi principio ormai acquisito che detto termine (decorrente dal ricevimento della comunicazione mediante la quale il Commissario comunica le somme risultanti a credito di ciascuno secondo le scritture contabili e i documenti dell’impresa) non è perentorio.

Secondo la Corte di Cassazione, infatti: “Nella procedura di liquidazione coatta amministrativa, l’inosservanza dei termini previsti dagli artt. 207 e 208 della legge fall. Non comporta l’improponibilità delle domande di ammissione al passivo e di rivendicazione, restituzione e separazione di beni mobili, verificandosi la relativa preclusione esclusivamente a seguito del deposito in cancelleria dell’elenco dei creditori, il quale determina il passaggio dalla fase preliminare di accertamento del passivo, che si svolge davanti al commissario liquidatore ed ha natura amministrativa, alla seconda fase eventuale, avente carattere giurisdizionale, nel cui ambito trovano collocazione le opposizioni e le impugnazioni, nonché le insinuazioni tardive.” (Cassazione civile, sez. I, 12/02/2008,  n. 3380).

Testo della sentenza

  LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE                                           SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:                           Dott. PROTO     Vincenzo                         –  Presidente   –  Dott. PLENTEDA   Donato                           –  Consigliere  –  Dott. RORDORF   Renato                           –  Consigliere  –  Dott. CECCHERINI Aldo                             –  Consigliere  –  Dott. PANZANI   Luciano                     –  rel. Consigliere  –  ha pronunciato la seguente:                                                             sentenza                                        sul ricorso proposto da:                                             COMPAGNIA TIRRENA  DI  ASSICURAZIONI S.P.A. in  liquidazione  coatta amministrativa, in persona del commissario liquidatore                                                        – ricorrente – contro                                                               CASSA DI  PREVIDENZA AGENTI del Gruppo Tirrena in  liquidazione,  in persona del  liquidatore  Dott.               F.S avverso la  sentenza della Corte d’appello di  Roma  n.  799/05  del 21.2.2005;

Fatto SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La Cassa di Previdenza Agenti del Gruppo Tirrena proponeva opposizione allo stato passivo della Compagnia Tirrena s.p.a. in liquidazione coatta amministrativa chiedendo l’immediata restituzione di tutte le somme dei conti individuali che componevano il patrimonio della Cassa di Previdenza stessa, per l’importo di L. 13.279.305.000, oltre a L. 450.433.000. In suberdine domandava la restituzione almeno del 70% degli importi ora detti. Domandava inoltre gli interessi e la rivalutazione monetaria sulle somme in parola a far tempo dal 1.1.1992. In ulteriore subordine la Cassa chiedeva l’ammissione al passivo della liquidazione coatta in via privilegiata dei crediti relativi alle somme ora dette, ai sensi degli artt. 2753 – 2754 c.c., e/o art. 2751 bis c.c., n. 3, oltre interessi e rivalutazione.

Osservava in sintesi la Cassa che sino al 31.12.1991 essa aveva investito le attività rappresentate dai conti individuali degli agenti ad essa iscritti mediante deposito in conti correnti fruttiferi aperti presso la Compagnia Tirrena; che tale forma di investimento era cessata nel 1992 quando la compagnia era stata sottoposta ad amministrazione straordinaria; che essa aveva invano domandato la restituzione delle somme versate e che neppure la richiesta di conversione del 70% delle somme investite in titoli azionari della compagnia era stata accolta; che dal 1.1.1992 la Compagnia aveva anche cessato di versare alla Cassa la quota di contribuzione a proprio carico, quota che al 31.5.1993 ammontava a L. 450.433.000; che tale ultimo importo non era stato neppure inserito nello stato passivo della procedura di liquidazione coatta.

Ad avviso della Cassa il commissario liquidatore aveva illegittimamente ammesso le somme dovute al passivo della procedura di liquidazione coatta, anzichè provvedere alla loro restituzione, trattandosi di patrimonio distinto da quello della compagnia assoggettata a procedura concorsuale. E l’ammissione era avvenuta in via chirografaria, senza riconoscimento del privilegio invece dovuto.

Costituendosi in giudizio la liquidazione coatta eccepiva l’inammissibilità della domanda di rivendicazione trattandosi di credito relativo ad una somma di denaro confusasi nel patrimonio della compagnia e la decadenza della Cassa dall’azione di rivendicazione L. Fall., ex art. 207. Eccepiva ancora la non spettanza del privilegio.

Il Tribunale di Roma accoglieva l’opposizione, condannando la liquidazione coatta all’immediato pagamento della somma di L. 13.279.305.000, pari ad Euro 6.858,190,00, oltre agli interessi legali dal 1.1.1992 sino al soddisfo, somma da imputarsi sulle immediate disponibilità attive della gestione liquidatoria con priorità anche rispetto ai crediti di cui alla L. Fall., art. 116, ed occorrendo anche previa revocazione dei pagamenti già effettuati fino a concorrenza della somma dovuta. Il Tribunale ammetteva inoltre la Cassa al passivo della procedura di liquidazione coatta in privilegio ex art. 2751 bis c.c., n. 3, per L. 450.433.000, pari ad Euro 232.630,00.

La Corte d’appello di Roma con sentenza 21.2.2005, n. 799, rigettava l’appello principale della liquidazione coatta.

Osservava che questa Corte con la sentenza 10131/97 aveva affermato la rivendicabilità di somme di denaro nel caso di deposito in cui le cose fungibili depositate – tra cui anche il denaro – non fossero state individuate al momento della consegna, qualora il rivendicante fosse in grado di dimostrare che si era determinata una situazione idonea ad escludere che i beni rivendicati si fossero confusi nel patrimonio del fallito, nella specie della liquidazione coatta amministrativa.

Nel caso in esame dalla prova testimoniale era risultato che la Compagnia Tirrena accantonava le quote di contributo dovute alla Cassa, maggiorate degli interessi maturati di anno in anno, contabilizzandole separatamente, si che quella liquidità era altro rispetto al patrimonio della Compagnia. Tale situazione era ancor più netta a far tempo dal 31.12.1991, quando era venuto meno il riconoscimento degli interessi sulle somme versate dagli agenti. La giacenza delle somme presso la Compagnia non rappresentava un investimento attuato dalla Cassa, ma era conseguenza della funzione di supporto amministrativo-contabile svolto dall’impresa di assicurazioni in favore della Cassa ai sensi dell’art. 19 della Convenzione Nazionale delle Casse di Previdenza Agenti del 1953, resa efficace erga omnes in virtù del D.P.R. 18 marzo 1961, n. 387, in forza della L. n. 741 del 1959.

Se era vero che un teste aveva dichiarato che i fondi della Cassa erano finanza di cui la compagnia si serviva, non vi era prova che da ciò fosse derivata confusione delle somme nel patrimonio dell’impresa assicurativa e non risultava che ciò fosse avvenuto dopo il 31.12.1991. In ogni caso, ai sensi degli artt. 15 e 16 della Convenzione, la Compagnia doveva mettere le somme nell’immediata disponibilità della Cassa quando si verificassero gli eventi previsti dagli artt. 15 e 16 della Convenzione stessa (trasferimento dell’agente ad altra Cassa o definitiva cessazione dell’attività agenziale). Lo stesso teste aveva dichiarato che in bilancio la posta relativa alle somme di pertinenza della Cassa era perfettamente individuabile.

Le somme in questione pertanto, pur essendo presso la Compagnia, non erano nella sua disponibilità ed erano sempre ben determinabili nel loro ammontare.

La Corte d’appello riteneva inoltre che sulle somme in linea capitale fossero dovuti gli interessi non potendo trovare applicazione la L. Fall., art. 55, trattandosi di credito che non concorreva alla formazione del passivo concorsuale. Per questo stesso motivo il credito non soggiaceva al divieto di azioni ordinarie di condanna ed esecutive nei confronti della procedura.

Infine la Corte d’appello affermava che non vi era stata decadenza della Cassa dall’azione di rivendicazione delle somme, che non era stata chiesta per la prima volta, come sostenuto dall’appellante, con l’opposizione a stato passivo e quindi con un’inammissibile mutatio libelli. Il commissario liquidatore nella scheda allegata alla comunicazione di rigetto della domanda, aveva dato atto di ciò.

I contributi relativi al periodo dal 31.12.1991 al 30.5.1993 andavano ammessi al passivo in via privilegiata ex art. 2751 bis c.c., n. 3, trattandosi di quote di contribuzione dovute dal datore di lavoro, consistenti in quote di retribuzione dovute agli agenti, aventi finalità previdenziale e costituenti salario differito. Tali contributi rappresentavano una forma di trattamento di fine rapporto e quindi un’indennità dovuta per la cessazione del rapporto di lavoro, come previsto dalla norma citata.

Avverso la sentenza ricorre per cassazione la Compagnia Tirrena Assicurazioni in liquidazione coatta amministrativa articolando cinque motivi. Resiste con controricorso la Cassa di previdenza, che ha anche proposto ricorso incidentale condizionato con unico motivo.

La Compagnia ha replicato con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memorie.

Diritto MOTIVI DELLA DECISIONE

  1. Con il primo motivo del ricorso principale la Compagnia Tirrena Assicurazioni in liquidazione coatta deduce violazione degli artt. 1362, 1363 c.c. e segg., artt. 1762, 1782, 1813, 1834, 2741 c.c., degli artt. 115 e 116 c.p.c., nonchè della L. Fall., artt. 103, 207, 208, 209, difetto e contraddittorietà di motivazione.

Il richiamo alla sentenza 10131/97 di questa Corte sarebbe errato, perchè tale pronuncia avrebbe ammesso la rivendica di cose fungibili individuate soltanto nel genere, ove risultasse che il depositario non ne poteva disporre e che esse erano rimaste separate dal suo patrimonio, ma non avrebbe esteso tale principio al denaro.

Nel ritenere che le somme versate dalla Cassa fossero separate dal patrimonio della Compagnia la Corte Territoriale avrebbe mal motivato, non considerando che la pretesa separazione non era altro che la mera indicazione di una posta debitoria nel bilancio della società assicuratrice, senza che ad essa corrispondesse una specifica modalità di gestione idonea ad escludere la confusione. La Corte d’appello nel richiamare la deposizione del teste D., aveva riportato il passo della deposizione in cui questi dava atto che la Compagnia anche dal punto di vista contabile non distingueva tra i singoli conti intestati agli agenti. La mera indicazione della somma complessiva non era altro che l’indicazione del debito nei confronti della Cassa. Negli stessi termini si erano espressi i testi D’. e F..

Ancora la Corte territoriale avrebbe mal motivato nel ritenere che la Compagnia avesse il divieto di utilizzare le somme investite dalla Cassa, perchè non avrebbe accertato l’esistenza di un divieto legale o contrattuale in capo alla compagnia all’utilizzo delle somme ed anzi la stessa Corte d’appello aveva riconosciuto che la Tirrena Assicurazioni aveva utilizzato le somme in parola, come risultava evidente anche dal fatto che essa riconosceva un interesse alla Cassa sulle stesse.

Osserva inoltre la ricorrente principale che la Corte d’appello avrebbe travisato la natura dell’operazione posta in essere dalla Cassa, che non aveva ad oggetto, come ritenuto, le quote di contributo che la Compagnia era tenuta a versare alla Cassa in misura pari ad una percentuale delle provvigioni spettanti agli agenti, ma le somme che la Cassa investiva presso la Compagnia, come aveva dichiarato il teste D..

Le somme depositate presso la Compagnia erano vincolate e la Cassa non ne aveva la disponibilità, come risulterebbe sia dalla deposizione della teste F. sia dal verbale 23.4.1983 del Comitato Amministratore della Cassa degli Agenti e dal successivo verbale del 5.5.1984.

La Corte d’appello avrebbe errato nell’argomentare la disponibilità delle somme da parte della Cassa con riferimento alle somme dovute agli agenti ai sensi degli artt. 15 e 16 della Convenzione, perchè il vincolo riguardava le somme che non dovevano essere smobilitate a seguito del trasferimento degli agenti ad altra Cassa o della definitiva cessazione del rapporto di agenzia, somme il cui ammontare poteva essere facilmente calcolato con i metodi attuariali.

Nell’argomentare la disponibilità delle somme da parte della Cassa dall’art. 19 della Convenzione che attribuiva alla Compagnia il servizio amministrativo della gestione, oltre a porre a fondamento dei rapporti tra le parti un titolo giuridico non invocato dalle stesse, la Corte avrebbe errato, perchè la norma individuerebbe soltanto il soggetto tenuto al servizio amministrativo per la gestione, senza nulla dire in ordine al titolo in virtù del quale avviene la gestione stessa.

Scaduta l’ultima convenzione, dopo il 31 dicembre 1991 la Compagnia aveva continuato a detenere le somme non in virtù degli obblighi derivanti dal servizio amministrativo, ma perchè non era in grado di adempiere all’obbligazione di restituzione delle somme, come riferito dal teste D’..

  1. Con il secondo motivo la ricorrente liquidazione coatta deduce violazione dell’art. 2697 c.c., L. Fall., artt. 55, 103, 207, 208, 209, nonchè difetto e contraddittorietà della motivazione.

La Cassa non avrebbe mai rivendicato gli importi richiesti, se non in sede di opposizione a stato passivo e ciò risulterebbe dalla scheda del commissario liquidatore, da cui risulta che l’ammissione al passivo era stata disposta come da domanda.

La rivendica costituirebbe una mutatio libelli non consentita. La Corte non avrebbe considerato che a pag. 22 della comparsa di costituzione in appello la Cassa aveva dato atto di aver richiesto per la prima volta al commissario liquidatore la restituzione delle somme soltanto dopo il 14.2.1995 e quindi 21 mesi dopo l’apertura della liquidazione, con conseguente decadenza L. Fall., ex artt. 207 e 208.

Nel ritenere sufficiente il dato che la rivendicazione risultava dalla scheda del commissario liquidatore, la Corte romana non avrebbe considerato che la rivendica era comunque intervenuta oltre il termine di 15 giorni previsto dalla L. Fall., art. 207. Ed in difetto di comunicazione da parte del commissario, la domanda doveva essere proposta, ai sensi dell’art. 208, entro 60 giorni dalla pubblicazione sulla G.U. del provvedimento di liquidazione.

Era onere della Cassa provare il rispetto di uno dei due termini.

3 – Con il terzo motivo, la ricorrente principale deduce, in via subordinata violazione della L. Fall., artt. 103, 207 e 209 e del D.L. 30 gennaio 1979, n. 26, convertito in L. n. 95 del 1979, nonchè difetto di motivazione.

La condanna pronunciata dalla Corte d’appello alla restituzione delle somme violerebbe il divieto, sancito dalle norme testè citate, di pronunciare condanna al pagamento di somme di denaro nei confronti di una procedura concorsuale, massime nel procedimento di opposizione a stato passivo, ostandovi il divieto di formazione di titoli di esecuzione individuale.

Nell’invocare una pronuncia di questa Corte (Cass. 2362/97) che aveva ammesso tale azione nei confronti di una procedura di amministrazione straordinaria per crediti di lavoro prededucibili contratti dagli organi della procedura e sorti dopo la dichiarazione dello stato d’insolvenza, la Corte territoriale non avrebbe considerato che la fattispecie in esame era completamente diversa e che la giurisprudenza maggioritaria di Cassazione era in senso contrario, non essendo comunque concepibile un’esecuzione nei confronti di una procedura di esecuzione collettiva.

  1. Con il quarto motivo del ricorso principale la ricorrente liquidazione coatta deduce violazione dell’art. 1224 c.c. L. Fall., artt. 55, 103, 203, L. n. 95 del 1979, art. 1, u.c., nonchè difetto di motivazione.

Nel riconoscere gli interessi sulle somme rivendicate la Corte d’appello non avrebbe considerato che gli interessi erano sospesi ai sensi della L. Fall., art. 55, e della L. n. 95 del 1979, art. 1, dal giorno di apertura della procedura di amministrazione straordinaria e comunque dall’assoggettamento a liquidazione coatta.

Nel ritenere che gli interessi fossero dovuti perchè si trattava di somme sottratte al concorso dei creditori, la Corte territoriale non avrebbe considerato che la res da restituire era pur sempre una somma di denaro e che quindi l’esigenza di tutela dei creditori comportava la sospensione del corso degli interessi. Per l’ipotesi di diversa interpretazione, la ricorrente solleva questione di legittimità costituzionale della L. Fall., art. 55, nella parte in cui non prevede la sospensione del decorso degli interessi quando sia questione di restituzione di somme rivendicate, per disparità di trattamento con le ulteriori fattispecie disciplinate.

  1. Con il quinto motivo la ricorrente principale deduce violazione degli artt. 1362, 1363 c.c., art. 2751 bis c.c., n. 3, nonchè difetto di motivazione.

Nel riconoscere il privilegio sul credito relativo alla somma di Euro 232.630 relativa alla contribuzione omessa nel periodo dal 31.12.1991 al 27.5.1993 la Corte d’appello non avrebbe considerato che le prestazioni erogate dalla Cassa degli agenti e quindi le contribuzioni ad essa dovute sono diverse dalle indennità di fine rapporto cui è accordato il privilegio, posto che vengono riconosciute soltanto al termine della carriera lavorativa dell’agente e non già ad ogni cessazione del rapporto di agenzia. Si trattava inoltre di omessa contribuzione alla Cassa e non di indennità di fine rapporto. La norma di cui all’art. 2751 bis c.c., n. 3, è norma eccezionale, che non può essere oggetto di interpretazione estensiva al di là dei casi espressamente considerati.

  1. Con l’unico motivo del ricorso incidentale condizionato la Cassa di Previdenza deduce che, se non rivendicabile come patrimonio separato, il credito della Cassa stessa dovrebbe essere ammesso al passivo della liquidazione coatta in via privilegiata ai sensi dell’art. 2751 bis c.c., n. 3, e, in subordine, ai sensi degli artt. 2753 e 2754 c.c.. Formula pertanto domanda in tal senso.
  2. Va disposta la riunione dei ricorsi ai sensi dell’art. 335 c.p.c..

E’ preliminare l’esame del secondo motivo del ricorso principale, con cui la ricorrente ha dedotto l’inammissibilità della domanda di rivendica perchè tardiva, in quanto proposta per la prima volta in sede di opposizione a stato passivo con inammissibile mutatio libelli rispetto all’originaria domanda di insinuazione al passivo del credito poi oggetto di rivendica.

In proposito la Corte d’appello ha osservato che la domanda era già stata proposta al commissario liquidatore prima che questi formasse lo stato passivo della liquidazione coatta il 22.1.2001. Ha desunto tale circostanza da un passaggio della motivazione dell’ammissione del credito al passivo in via chirografaria contenuto nella scheda redatta dal commissario liquidatore, allegata alla comunicazione di ammissione diretta al creditore, in cui si da atto che la “Cassa Previdenza Agenti del gruppo Tirrena ..ebbe a versare la somma rivendicata nelle casse della compagnia a titolo di investimento”.

Osserva la Corte d’appello che il riferimento alla rivendicazione rende palese che tale domanda era già stata proposta.

Obietta ora la ricorrente che non era sufficiente per ritenere la domanda tempestivamente proposta verificare che essa fosse anteriore alla chiusura dello stato passivo, perchè dovevano essere stati alternativamente rispettati i termini all’uopo previsti dalla L. Fall., artt. 207 e 208.L’art. 207, prevede che a seguito della comunicazione da parte del commissario a ciascun creditore delle somme risultanti a credito secondo le scritture contabili e i documenti dell’impresa (comunicazione che va fatta anche a coloro che possono presentare domande di rivendicazione, restituzione, separazione), il creditore e gli altri legittimati possano far pervenire al commissario le loro osservazioni o istanze entro quindici giorni dal ricevimento della raccomandata. L’art. 208 stabilisce che coloro che non hanno ricevuto la comunicazione in parola, possono chiedere con raccomandata entro sessanta giorni dalla pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale del provvedimento di liquidazione, il riconoscimento dei propri crediti e la restituzione dei loro beni.

Va osservato che, come è stato più volte affermato dalla dottrina, il procedimento di accertamento del passivo nella fase preliminare che si svolge davanti al commissario liquidatore è contrassegnato dalla previsione di termini che hanno carattere ordinatorio, come si evince dal fatto che non è prevista alcuna sanzione per la loro inosservanza anche alla luce del disposto dell’art. 152 c.p.c., comma 2.

Nella procedura della liquidazione coatta amministrativa l’elenco dei creditori compilato dal commissario per la formazione dello stato passivo ha natura di atto amministrativo. Soltanto con il deposito in cancelleria si determinano una serie di preclusioni (l’elenco non può più essere variato nè revocato, i creditori non possono più proporre le domande di cui alla L. Fall., art. 208, i creditori ed i terzi non possono più presentare le osservazioni e le istanze di cui alla L. Fall., art. 207) ed inizia una seconda fase eventuale, a carattere giurisdizionale, nel cui ambito trovano collocazione le opposizioni e le impugnazioni di cui alla L. Fall., artt. 98 e 100 (L. Fall., art. 209, comma 2), oltre che le insinuazioni tardive (Cass. 15.9.2004, n. 18579).

Di conseguenza soltanto il deposito dello stato passivo in cancelleria impedisce al creditore ed al terzo rivendicante di proporre le domande rispettivamente di ammissione al passivo e di rivendicazione, restituzione e separazione dei beni mobili.

Correttamente pertanto la Corte d’appello ha ritenuto tempestiva la domanda di rivendicazione proposta dalla Cassa di Previdenza, una volta accertato in fatto che tale domanda era stata proposta prima del deposito dello stato passivo in cancelleria da parte del commissario liquidatore.

  1. Venendo ora all’esame del primo motivo del ricorso principale, con cui la ricorrente contesta le conclusioni cui è pervenuto il giudice d’appello in ordine alla separazione dal patrimonio della compagnia assicuratrice delle somme riferibili ai conti individuali degli agenti iscritti alla Cassa di previdenza, occorre muovere dai principi affermati in proposito dalla giurisprudenza di questa Corte, che ha avuto occasione di pronunciarsi principalmente con riferimento alla rivendicazione dei valori mobiliari affidati da un privato ad una fiduciaria, sia prima che successivamente all’entrata in vigore della L. n. 1 del 1991, materia poi ampiamente regolata dalla normativa successiva con riferimento alle SIM, alle società di gestione del risparmio e alle SICAV (D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, art. 57; D.Lgs. 1 settembre 1993, n. 385, artt. 86, 91).

Con riferimento ai soggetti incaricati di operazioni di investimento per conto terzi in strumenti finanziari il D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 22, stabilisce il principio della c.d. doppia separazione patrimoniale in quanto il patrimonio dell’intermediario (impresa di investimento, società di gestione del risparmio, società di gestione armonizzata, intermediario finanziario D.Lgs. n. 58 del 1998, ex art. 107, banca) va tenuto distinto da quello dei singoli clienti ed il patrimonio di ogni cliente va tenuto distinto da quello degli altri. La violazione del divieto è sanzionata penalmente (art. 168 T.U.).

Dalla disciplina dettata dal R.D.L. 12 marzo 1936, n. 375, art. 91, richiamato dal D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 57, si ricava che il principio della separazione trova piena attuazione anche in caso di procedura concorsuale. Nel caso in cui il principio di separazione sia stato rispettato dall’intermediario, i commissari liquidatori dovranno procedere alla restituzione a ciascun cliente degli strumenti finanziari di sua competenza. Nel caso invece che l’obbligo di separazione sia stato completamente violato e vi sia stata totale confusione tra i mezzi amministrati della clientela e quelli dell’intermediario finanziario, gli investitori non potranno che concorrere con gli altri creditori sul patrimonio indifferenziato, trasformandosi il diritto alla restituzione in via specifica nel credito dell’equivalente da far valere al passivo chirografario.

Più complesso è il caso che sia stato mantenuto distinto il patrimonio dell’intermediario da quello della clientela, ma non sia invece possibile distinguere, in tutto od in parte, tra il patrimonio di spettanza dei singoli clienti. Per questa ipotesi, ove la massa patrimoniale indistinta sia sufficiente a soddisfare in forma specifica i diritti vantati da tutti i clienti, i commissari dovranno procedere alle restituzioni. Ove invece gli strumenti finanziari non risultino sufficienti per l’effettuazione di tutte le restituzioni, i commissari procedono, ove possibile, alle restituzioni ai sensi del comma 1 in proporzione dei diritti per i quali ciascuno dei clienti è stato ammesso alla sezione separata dello stato passivo, ovvero alla liquidazione degli strumenti finanziari di pertinenza della clientela ed alla ripartizione del ricavato secondo la medesima proporzione (art. 91, comma 2, citato T.U. bancario).

Questa disciplina non può trovare applicazione al di fuori dei casi espressamente considerati. In passato la giurisprudenza di questa Corte (Case. 20.2.1984, n. 1200; Cass. 16 maggio 1990, n. 4262; 20 febbraio 1984, n. 2633; Cass. 18.10.2001, n. 12718) aveva in più occasioni affermato che le domande di rivendicazione, restituzione o separazione, previste dalla L. Fall., art. 103, sono ammissibili soltanto se la cosa è stata determinata nella sua specifica e precisa individualità e che, in caso contrario, è configurabile (solo) un diritto di credito (alla restituzione del tantundem) azionabile nei confronti della curatela del fallimento secondo le modalità e con gli effetti previsti dalla L. Fall., art. 93 e segg..

Ciò sulla premessa che, in linea di massima, le cose fungibili che non siano state individuate al momento della consegna, entrano nella disponibilità di chi le riceve, il quale acquista il diritto di servirsene e, appunto per questo, ne diventa proprietario, pur essendo tenuto a restituirne altrettante della stessa specie e qualità. Ciò deriva dalla disciplina dettata dall’art. 1782 c.c., il quale tuttavia precisa che il passaggio della proprietà dal depositante al depositario non costituisce una conseguenza indefettibile della fungibilità delle cose depositate, poichè tale effetto si realizza solo se al depositario è concessa (anche) la facoltà di servirsi di tali beni nel proprio interesse: in tal caso il deposito viene ad assolvere anche una funzione di credito nell’interesse del depositario e questo spiega perchè a tale contratto si applichino, in quanto compatibili, le norme sul mutuo (art. 1782 c.c., comma 2).

Pertanto quando sia questione di una somma di denaro, bene fungibile per eccellenza, deve ritenersi che in linea di principio colui che la riceve ne acquisti la proprietà per confusione, con la conseguenza che il depositante sarà titolare soltanto del diritto di credito alla restituzione del tantundem da far valere, nel caso di procedura concorsuale, secondo le regole del concorso con gli altri creditori.

Tuttavia Cass. 14.10.1997, n. 10031, ha affermato che anche per il periodo precedente all’entrata in vigore della citata L. n. 1 del 1991, al fiduciante va riconosciuto il diritto di far valere, nei confronti degli organi della eventuale procedura concorsuale “medio tempore” instauratasi nei confronti della società, il diritto alla restituzione dei beni in precedenza ad essa affidati, dovendo ritenersi, all’uopo, sufficiente la dimostrazione di una situazione idonea ad impedire che la cosa della quale si reclami la restituzione si sia confusa con il patrimonio del fallito, (“rectius”, del sottoposto a liquidazione coatta) per essere entrata a far parte dei beni di sua proprietà: pur occorrendo, perchè si realizzi una situazione siffatta, in linea di principio, che la “res” sia “determinata” nella sua specifica e precisa individualità (L. Fall., art. 103). Si è aggiunto che, per l’acquisto della proprietà da parte di chi riceve in deposito una quantità di denaro o di altre cose fungibili, è pur sempre necessario che, alla semplice detenzione, si aggiunga (quantomeno implicitamente) la facoltà di servirsi del bene, non essendo la sua natura fungibile sufficiente, di per sè sola, a determinare il prodursi di tale effetto, mentre le società fiduciarie, non potendo disporre o, comunque, utilizzare nel proprio interesse i beni loro affidati, risultano, in concreto, mere depositarle di beni costituenti una massa patrimoniale distinta, a tutti gli effetti, dal loro personale patrimonio e, come tale, sottratta alle azioni esecutive degli eventuali creditori. Ancora si è osservato che la eventuale commistione dei conti tra più fiducianti non è idonea, di per sè, ad impedire il riconoscimento della separatezza dei beni intestati alla società nell’interesse di tali soggetti, perchè detta commistione non coinvolge i rapporti tra fiducianti e fiduciaria, ma è limitata a quelli che intercorrono tra i singoli fiducianti nell’ambito di una massa patrimoniale composta da beni dei quali questi ultimi sono i proprietari “effettivi”.

Nel caso esaminato questa Corte argomentò la separatezza delle somme di denaro versate dai fiducianti alla fiduciaria perchè le investisse nel loro interesse, acquistando titoli ed altri valori mobiliari che rimanevano nella titolarità formale della società, ma effettiva dei fiducianti, dal complesso della disciplina di legge che, già prima dell’entrata in vigore della L. n. 1 del 1991, escludeva che tali società potessero liberamente disporre dei beni ricevuti in consegna. Tale disciplina regolava l’attività di tali società – qualificando, da un lato, i fiducianti quali “effettivi proprietari” dei beni affidati in amministrazione fiduciaria e avendo cura, dall’altro, di prescrivere che le disponibilità liquide e i valori mobiliari “dei fiducianti” dovessero essere depositati presso terzi “in conti rubricati come di amministrazione fiduciaria” – sì che tali beni costituivano una massa patrimoniale “distinta”, a tutti gli effetti dal patrimonio della fiduciaria e, come tale, sottratta alle azioni esecutive dei suoi creditori.

Con riferimento al regime giuridico introdotto dalla L. n. 1 del 1991, poi confermato dalla disciplina successivamente entrata in vigore, questa Corte ha affermato che tale legge ha stabilito il principio della cosiddetta doppia separazione patrimoniale (poi ripreso, come s’è detto dalla successiva disciplina in materia di intermediazione finanziaria), che implica separazione del patrimonio della società da quello gestito per conto e nell’interesse dei clienti, nonchè, all’interno di quest’ultimo, reciproca separazione dei beni e dei valori riferibili individualmente a ciascun cliente.

Tale principio è ispirato dallo scopo di garantire un’efficace tutela degli investitori, soprattutto nel caso di crisi dell’intermediario, realizzata mediante la sottrazione dei beni alla liquidazione concorsuale, permettendo all’investitore l’immediato e completo recupero di quelli riconducibili al proprio patrimonio.

Tuttavia, questa tutela è garantita appieno soltanto nel caso in cui il regime di separazione sia stato effettivamente rispettato, con la conseguenza che, qualora ciò non sia accaduto – sia in quanto la società abbia confuso, in tutto o in parte, il proprio patrimonio con quello dei clienti, sia in quanto abbia violato la regola della reciproca separazione dei patrimoni dei singoli clienti l’investitore è titolare esclusivamente di un diritto di credito nei confronti dell’intermediario, che concorre con gli altri crediti vantati dai terzi nei confronti di quest’ultimo, in virtù di una regola ricavabile anche dal D.Lgs. n. 415 del 1996, art. 34, comma 3 (poi sostituito dal D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 57, comma 3), e dal rinvio ivi contenuto al D.Lgs. n. 385 del 1993, art. 91 (Cass. 11.3.2005, n. 5383; Cass. 5.4.2006, n. 7878).

Nel caso in esame la Corte d’appello ha ritenuto che le somme in questione rimanessero separate dal patrimonio della compagnia assicuratrice perchè:

  1. a) tali somme erano contabilizzate separatamente e corrispondevano ad un’autonoma posta di bilancio;
  2. b) dopo il 31.12.1991, data a far tempo dalla quale essendo scaduta la Convenzione tra la compagnia e la Cassa di previdenza era venuto meno il diritto di quest’ultima di pretendere gli interessi sulle somme depositate, la giacenza del denaro presso la compagnia non costituiva una forma di investimento, come si sarebbe potuto argomentare dal fatto che veniva corrisposto un interesse, ma rappresentava attuazione della funzione di supporto amministrativo- contabile che la compagnia assicuratrice doveva svolgere per conto della Cassa ai sensi dell’art. 19 della Convenzione tra la compagnia stessa e la Cassa;
  3. c) se anche era emerso che il denaro in questione era finanza di cui la compagnia si serviva (così il teste D’., secondo la sentenza impugnata), non era stato provato che ne derivasse confusione dei patrimoni nè che, se confusione vi era stata, essa fosse stata autorizzata dalla Cassa;
  4. d) in ogni caso non era dato sapere se tale situazione si fosse realizzata anche dopo il 31.12.1991;
  5. e) in ogni caso la compagnia doveva tenere a disposizione della Cassa, ai sensi degli artt. 15 e 16 della Convenzione, le somme necessarie per far fronte ai rimborsi nei confronti degli agenti che cambiavano compagnia e quindi Cassa di previdenza o cessavano definitivamente il loro rapporto di agenzia.

E’ evidente la violazione di legge ed il vizio di motivazione in cui è incorsa la sentenza impugnata nel far applicazione dei principi sanciti dalla giurisprudenza di questa Corte.

Come s’è detto, in tanto può affermarsi che vi sia separazione tra il patrimonio del depositante e quello del depositario, pur in presenza di un deposito di cose fungibili, in quanto non ricorrano le condizioni previste dall’art. 1782 c.c., che danno luogo ad un deposito irregolare, con acquisto della proprietà dei beni da parte del depositario, tenuto alla restituzione del tantumdem eiusdem generis et qualitatis, secondo la disciplina del mutuo. Occorre a tal fine che si verifichino alcune condizioni. In primo luogo che il depositario non abbia facoltà di servirsi della cosa; in secondo luogo che non si sia comunque determinata confusione tra il patrimonio del depositario ed il denaro o i beni fungibili affidati dal depositante.

Il difetto di tali condizioni comporta che trovi applicazione la regola generale sancita dall’art. 1782 c.c., in forza della quale il depositario acquista la proprietà del bene fungibile ed il depositante acquista la titolarità del corrispondente diritto di credito, da far valere nelle forme dell’insinuazione al passivo.

La Corte d’appello ha affermato che la compagnia assicuratrice non aveva facoltà di servirsi delle somme versate dalla Cassa, ma nel contempo ha riconosciuto che le somme depositate dalla Cassa erano fruttifere e che un teste aveva dichiarato che si trattava di finanza che la compagnia utilizzava. Ciò implica all’evidenza confusione tra il patrimonio della compagnia e le somme depositate dalla Cassa, non risultando dalla sentenza impugnata che la compagnia fosse vincolata a forme di investimento “dedicate”, idonee cioè a mantenere le sorti del capitale della Cassa investito autonome dalle sorti del restante capitale della compagnia.

Nè evidentemente vale a dimostrare la sussistenza della separazione la mera circostanza che alle somme depositate corrispondesse un’autonoma posta nel bilancio della compagnia, perchè tale posta di per se stessa non indicava se tali somme fossero individuate e gestite come un patrimonio separato ovvero se si trattasse di un semplice credito della Cassa nei confronti della compagnia, che ovviamente doveva essere iscritto in bilancio.

La Corte d’appello ha aggiunto che dopo il 31.12.1991, essendo scaduta la Convenzione tra la compagnia e la Cassa, non erano più dovuti interessi ed ha ritenuto che di conseguenza il titolo in virtù del quale la compagnia gestiva le somme fosse l’obbligo derivante dalla Convenzione (art. 19) di esperire il servizio amministrativo-contabile per conto della Cassa. Nel pervenire a tale conclusione, peraltro, la Corte non sembra aver considerato che la gestione del servizio amministrativo – contabile per conto della Cassa non dimostra ancora che tale gestione avvenisse in regime di separazione patrimoniale rispetto al patrimonio della compagnia.

Va sottolineato a questo proposito che l’art. 19 della Convenzione (che la Corte può esaminare direttamente in base al principio iura novit curia, in quanto atto a contenuto normativo, reso efficace erga omnes con D.P.R. 18 marzo 1961, n. 387) si limita a stabilire che il servizio amministrativo per la gestione della Cassa viene svolto da personale dipendente dalla Compagnia, messo gratuitamente a disposizione della Cassa, aggiungendo che ogni altro onere fa carico agli iscritti alla Cassa. La norma non contiene alcuna disposizione da cui si possa ricavare l’esistenza di una separazione delle somme gestite dal patrimonio dell’impresa assicuratrice.

La Corte di merito non da conto della deposizione del teste D’., così come riportata dalla ricorrente a pag. 47 del ricorso. Il teste ha dichiarato di aver respinto le richieste di restituzione avanzate dalla Cassa, dopo il 31.12.1991 e quindi quando non erano più dovuti interessi, perchè un esborso di oltre venti miliardi avrebbe provocato un depauperamento troppo ingente.

La Corte d’appello non ha considerato che tale dichiarazione sembra implicare che vi fosse piena confusione tra il patrimonio della compagnia e le somme ad essa affidate dalla Cassa, tanto che la compagnia, essendo insorte le difficoltà che avrebbero dato luogo all’apertura della procedura concorsuale, non era in condizioni di restituire le somme perchè ciò avrebbe inciso in maniera rilevante sulla sua liquidità.

Infine anche il ricorso all’argomento che vi fosse separazione perchè la compagnia doveva comunque tenere a disposizione le somme necessarie per liquidare gli agenti ai sensi degli artt. 15 e 16 della Convenzione (passaggio di agenti ad altra Cassa di previdenza e cessazione definitiva dell’attività di agente) cela un evidente vizio logico. La circostanza che la compagnia dovesse garantirsi una certa liquidità per far fronte agli obblighi correnti nei confronti della Cassa, peraltro quantificabili con il ricorso al metodo attuariale come osserva la ricorrente principale, non dice ancora nulla sul regime giuridico delle somme depositate. Tale esigenza di liquidità, infatti, poteva anche derivare dall’esistenza di un diritto di credito della Cassa nei confronti della compagnia, in difetto di ogni separazione di patrimoni nè più nè meno di come accade ogni giorno nei rapporti tra banca e clienti. Come questa Corte ha già osservato (Cass. 11.3.2005, n. 5383; Cass. 5.4.2006, n. 7878), il diritto del depositante a rivendicare le cose fungibili depositate sussiste soltanto in quanto l’obbligo di separazione dei patrimoni sia stato rispettato. Tale principio, affermato espressamente dal legislatore con riferimento alla disciplina delle società fiduciarie e di investimento finanziario, è in realtà espressione di una regola di carattere più generale. Posto infatti che il patrimonio del debitore costituisce la garanzia dei suoi creditori secondo il fondamentale dettato dell’art. 2740 c.c., in tanto tale principio è derogabile in quanto i beni che si pretende di sottrarre alla garanzia dei creditori siano esattamente individuati o, ove si tratti di beni fungibili, come tali non specificamente individuabili, siano sottratti alla regola della confusione nel patrimonio del debitore in forza del divieto di disporne stabilito per legge o per convenzione in capo al debitore stesso, purchè tale regola sia stata in concreto rispettata.

Va sottolineato che la disciplina speciale dettata dapprima per le società fiduciarie e poi per gli intermediari finanziari, ha segnato un mutamento nell’atteggiamento tradizionale del legislatore diretto in passato a ripartire il danno derivante dall’insolvenza su una più vasta cerchia di soggetti, sì da limitarne l’incidenza unitaria. Il concorso, è stato osservato, è figura che esige da un lato una massa di creditori aventi diritti omogenei e, almeno tendenzialmente, paritetici; dall’altro lato, una massa patrimoniale costituente la garanzia generica e comune di quei crediti. La disciplina speciale crea invece delle masse separate, evitando che ai soggetti titolari di diritti su tali masse possano estendersi i tradizionali principi propri del concorso.

La giurisprudenza di questa Corte ha individuato i casi ed i limiti per cui le regole dettate dalla legislazione speciale possono essere estese ad altre ipotesi. Ove non ricorrano tali condizioni, non resta che applicare la regola generale del concorso, che esclude la rivendica di una somma di denaro, riconoscendo un mero diritto di credito, sottoposto a quella regola generale.

Il terzo ed il quarto motivo del ricorso principale, proposti in via subordinata, rimangono assorbiti.

  1. Con il quinto motivo del ricorso la ricorrente principale si duole che la Corte d’appello abbia ritenuto sussistente il diritto della Cassa ad essere ammessa al passivo per il credito relativo ai contributi maturati dal 1.1.1992 al 27.5.1993 in via privilegiata ai sensi dell’art. 2751 bis c.c., n. 3. La Corte d’appello ha ritenuto che tale credito corrisponda a quote di contribuzione previste a carico del datore di lavoro – compagnia assicuratrice, consistenti in una parte delle provvigioni dovute agli agenti, quote che hanno natura e finalità previdenziale e costituiscono salario differito.

Spetterebbe il privilegio di cui all’art. 2751 bis c.c., n. 3, perchè tali somme sarebbero destinate “ad alimentare presso la Cassa le disponibilità destinate ad erogare ai singoli agenti una forma integrativa del trattamento di fine rapporto”. Si tratterebbe quindi di indennità dovute per la cessazione del rapporto di lavoro cui fa riferimento la norma citata.

Obietta la ricorrente che i contributi in parola sono dovuti alla Cassa e non rappresentano quindi una prestazione retributiva differita dovuta agli agenti di assicurazione ed, inoltre, che le prestazioni dovute agli agenti dalla Cassa, ai sensi dell’art. 16 della Convenzione Nazionale del 24.6.1953, resa efficace erga omnes, sono dovute soltanto nel caso di definitiva cessazione dell’attività di agente e non in ogni caso di cessazione del rapporto di agenzia, sì che non possono essere equiparate alle indennità previste dall’art. 2751 bis c.c., n. 3, norma di stretta interpretazione.

Replica la controricorrente osservando che il credito trae la sua origine dal rapporto di agenzia e pertanto è irrilevante che le somme siano dovute ad una Cassa di previdenza, anzichè agli agenti direttamente. Non si tratterebbe di contributi relativi a prestazioni previdenziali erogate dalla Cassa, ma di prestazioni che hanno carattere retributivo.

Il motivo è fondato.

Va premesso che ai sensi dell’art. 2751 bis c.c., n. 3, è riconosciuto il privilegio generale mobiliare sulle provvigioni derivanti dal rapporto di agenzia, dovute per l’ultimo anno di prestazione, e sulle indennità dovute per la cessazione del rapporto medesimo. Con tale ultima espressione il legislatore ha chiaramente inteso far riferimento all’indennità di cessazione del rapporto dovuta dal preponente all’agente stabilita dall’art. 1751 c.c., applicabile agli agenti di assicurazione in virtù del disposto dell’art. 1753 c.c., in quanto non derogato dalla disciplina collettiva e dagli usi, nei limiti della compatibilità con la natura dell’attività assicurativa.

Alla luce di tale disciplina può essere oggetto di discussione ( ma la questione non è rilevante ai fini del decidere) se il privilegio spetti soltanto sulle indennità di fine rapporto dovute in base alla disciplina di legge o anche sulle indennità stabilite dagli accordi economici collettivi.

Nel caso in esame, peraltro, non è questione delle somme dovute dalla preponente compagnia di assicurazioni agli agenti, ma di contributi che debbono essere versati in virtù della Convenzione nazionale del 24.6.1953, resa efficace erga omnes con D.P.R. 18 marzo 1961, n. 387, dalla compagnia alla Cassa di Previdenza degli agenti.

A fronte di tali contributi si forma un capitale destinato ad alimentare un’assicurazione sulla vita ovvero un contratto di capitalizzazione ovvero ancora all’incremento del conto individuale intestato all’agente che, alla definitiva cessazione dell’attività agenziale, sarà corrisposto all’agente dalla Cassa (cfr. art. 11 e segg. della Convenzione, nel testo approvato con D.P.R. n. 387 del 1961, pubblicato sul supplemento ordinario G.U. n. 128 del 25.5.1961, come già detto direttamente conoscibile da questa Corte trattandosi di atto normativo cui si applica il principio iura novit curia).

Va aggiunto che ai sensi dell’art. 16 della Convenzione “nel caso di scioglimento del contratto di agenzia con abbandono dell’attività agenziale” vengono consegnati all’agente la polizza di assicurazione o il contratto di assicurazione nonchè l’importo della liquidazione del conto individuale”.

E’ dunque evidente che altro è il credito dell’agente nei confronti della Cassa di Previdenza alla cessazione definitiva del rapporto di agenzia, altro è il credito per i contributi dovuti alla Cassa da parte dell’impresa di assicurazioni ai sensi dell’art. 6 della Convenzione, commisurato all’ammontare delle provvigioni maturate nell’anno in favore dell’agente, contribuzione cui si aggiunge quella a carico dell’agente ai sensi del successivo art. 8 della Convenzione.

Tale credito sorge in capo alla Cassa per effetto della disciplina dettata dalla Convenzione nei confronti dell’impresa assicuratrice ed è del tutto differente dall’indennità di fine rapporto prevista dall’art. 1751 c.c., e dalle forme sostitutive previste dalla contrattazione collettiva. Queste ultime indennità sorgono infatti in capo all’agente nei confronti del preponente e presuppongono la cessazione del contratto di agenzia tra preponente ed agente; il credito contributivo invece sorge in capo alla Cassa di Previdenza nei confronti dell’impresa di assicurazione per effetto del maturare delle provvigioni in favore dell’agente ed è destinato ad alimentare le varie forme di previdenza (in senso lato) previste dalla Convenzione a favore dell’agente in una con la contribuzione a carico dell’agente.

Tanto basta per affermare che non spetta il privilegio previsto dall’art. 2751 bis c.c., n. 3, che si riferisce alle indennità di fine rapporto spettanti agli agenti e non può essere esteso, anche in ragione del principio di stretta interpretazione delle norme in materia di privilegio, ad un credito che ha natura diversa e sorge nei confronti di un soggetto che non è l’agente. Altra e diversa questione, che non deve essere ora affrontata, è se tale credito possa essere assistito da altra forma di privilegio ed in particolare da quello previsto dall’art. 2754 c.c..

  1. Resta da esaminare il motivo di ricorso incidentale con cui la Cassa di Previdenza per l’ipotesi di accoglimento del ricorso principale, ripropone i motivi dell’appello incidentale con cui aveva domandato il riconoscimento del privilegio per il credito relativo alle somme rivendicate, credito ammesso invece al passivo della procedura di liquidazione coatta da parte del commissario liquidatore in via chirografaria.

Tale motivo è inammissibile.

Va infatti richiamato il principio più volte affermato da questa Corte, secondo il quale è inammissibile, per difetto di interesse, il ricorso incidentale, della parte vittoriosa in secondo grado per le questioni, domande o eccezioni, rilevanti per la decisione, da essa prospettate e non decise, neppure implicitamente, in quanto assorbite da quelle accolte (Cass. 23.5.2006, n. 12153; Cass. 16.5.2006, n. 11371; Cass. 18.5.2005, n. 10420; Cass. 18.10.2006, n. 22346). Tali questioni debbono essere riproposte al giudice di rinvio.

In conclusione in accoglimento del primo e del quinto motivo di ricorso la sentenza impugnata va cassata con rinvio alla Corte d’appello di Roma in diversa composizione, che pronuncerà anche sulle spese del giudizio di Cassazione.

PQM P.Q.M.

La. Corte riunisce i ricorsi; accoglie il primo ed il quinto motivo del ricorso principale, rigetta il secondo, assorbiti gli altri;

dichiara inammissibile il ricorso incidentale; cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’appello di Roma in diversa composizione, anche per le spese.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 13 dicembre 2007.

Depositato in Cancelleria il 12 febbraio 2008