Per approfondire la recente riflessione sugli effetti prodotti dalla pandemia coronavirus sui contratti in corso, sembra utile circoscrivere ora la disamina degli effetti della situazione di emergenza all’ambito delle locazioni, ovviamente di natura commerciale (ivi comprese le attività artigianali e industriali).
La situazione, in continuo divenire per il susseguirsi dei Decreti presidenziali che comportano limitazioni e divieti sempre più rigidi, impone adeguamenti anche sul piano degli effetti che i provvedimenti possono spiegare sui rapporti contrattuali in corso.
In effetti molte attività commerciali/imprenditoriali sono da qualche tempo, o anche soltanto da ora, costrette all’inattività per un arco di tempo che può variare da alcune settimane a qualche mese in funzione dell’evoluzione degli eventi. Resta il problema degli oneri correnti: imposte, tasse, stipendi, rate dei finanziamenti e, tra gli altri, anche canoni e affitti. Le preoccupazioni crescono.
Il quesito che assilla conduttori e locatori, dunque, è se i primi possono sospendere il pagamento del canone di locazione o addirittura recedere dal rapporto.
Per un inquadramento sistematico è opportuno tenere ben presente che andiamo ad occuparci di contratti c.d. di durata in quanto caratterizzati dalla peculiarità della prestazione continuata o periodica.
Si tratta ora di vedere quali possono essere gli effetti di una causa di forza maggiore quale innegabilmente deve essere considerata la pandemia da coronavirus – dovuta a circostanze sopravvenute e imprevedibili – in assenza di espresse previsioni contrattuali.
Vanno considerati in premessa i seguenti punti fermi:
- il conduttore non può sospendere il pagamento del canone per nessuna ragione, salvo il caso in cui l’immobile sia materialmente inutilizzabile;
- l’impossibilità di svolgere l’attività non è imputabile ad alcuna delle parti stante l’emergenza straordinaria di tutela della salute;
- l’immobile resta nella pacifica disponibilità del conduttore, che può utilizzarlo, tuttavia non ne può godere a fini di svolgere l’attività.
Vediamo quindi cosa può accadere, nel presupposto naturalmente che sia interesse del conduttore continuare a mantenere la disponibilità dell’immobile, laddove cioè gli eventi siano considerati meramente temporanei e vi siano i presupposti per mantenere vivo il rapporto.
Tradurre i divieti disposti dai DPCM in termini di impossibilità di una prestazione tipica del locatore o del conduttore quantomeno nel contratto di locazione commerciale, potrebbe apparire problematico in quanto il conduttore continua ad avere la disponibilità dell’immobile. Diversamente accade per i contratti di affitto d’azienda, laddove l’impossibilità di esercitare certe attività incide direttamente, rendendola di fatto impossibile, sulla prestazione principale dell’affittante, consistente nella messa a disposizione di un complesso di beni e rapporti giuridici organizzati per lo svolgimento di un’attività d’impresa. In questi casi viene meno l’utilità funzionale che costituisce il cuore della prestazione contrattuale dell’affittante che diviene, in questo modo, pacificamente impossibile.
Nella locazione commerciale, per contro, i divieti non incidono sulla prestazione principale del locatore, ovvero la messa a disposizione di locali genericamente idonei all’uso che ne è consentito ai sensi del contratto. L’impedimento non ha alcuna attinenza all’immobile in cui si svolge l’attività, alle sue caratteristiche o alla sua idoneità all’uso pattuito. È difficile, però, negare che i divieti incidano direttamente o indirettamente sull’attività del conduttore, sebbene a prescindere dalla prestazione locatore.
Esclusa, dunque, la possibilità di rinvenire nella disciplina specifica della locazione la regola che consente di sospendere il pagamento del canone, è nella disciplina generale delle obbligazioni e contratti a cui occorre fare riferimento per dare una risposta. A questo proposito vengono in considerazione le norme di cui agli artt. 1256 e 1467 del codice civile, che disciplinano rispettivamente i casi di impossibilità sopravvenuta e di eccessiva onerosità sopravvenuta.
L’impossibilità sopravvenuta rappresenta una causa di legittima estinzione dell’obbligazione o, a seconda dei casi, di giustificazione del ritardo nell’adempimento. Naturalmente, l’impossibilità, per essere giuridicamente rilevante, deve essere riconducibile a un evento eccezionale imprevedibile, estraneo all’ambito di una azione del debitore e idoneo a provocare un impedimento obiettivo e insormontabile allo svolgimento della prestazione. Occorre pertanto distinguere.
Nei casi in cui per effetto dell’epidemia e a maggior ragione dei provvedimenti del governo al conduttore fosse impedito di esercitare l’attività, secondo anche i precedenti giurisprudenziali, appare legittima la sospensione del pagamento del canone di locazione. Soccorre in tema di epidemia un precedente giurisprudenziale rappresentato dalla pronuncia della Corte di Cassazione: “eventi sopravvenuti alla stipula del contratto, quali l’imperversare di un’epidemia nel luogo prescelto per le vacanze, incidendo negativamente sulla sicurezza del soggiorno e, quindi, sulla “finalità turistica” del viaggio, comportano l’estinzione del contratto per sopravvenuta irrealizzabilità della causa concreta dello stesso”. I giudici di legittimità, nella fattispecie, hanno ritenuto che il venir meno dell’interesse creditorio dovuto alla sopravvenuta irrealizzabilità della causa concreta del contratto, infatti, comporta l’estinzione di quest’ultimo anche nell’ipotesi in cui la prestazione dedotta in obbligazione sia astrattamente ancora eseguibile.
Tuttavia, non è affatto scontato che, sotto il profilo causale, la chiusura temporanea dell’attività (e a maggior ragione l’incidenza indiretta, per le attività non sospese, sulla sua redditività) renda radicalmente impossibile la prestazione principale del conduttore consistente nel pagamento del canone di locazione e delle spese accessorie. Occorre, infatti, puntualizzare che non è impossibile la prestazione che possa essere adempiuta con la normale diligenza e che, in sede di giudizio, potrebbe non essere ritenuta giustificazione sufficiente la mancanza (o, peggio ancora, la mera riduzione) di ricavi limitata (come speriamo) a qualche settimana. La giurisprudenza, soprattutto di merito, conforta questo indirizzo.
Sarà, quindi, più complesso invocare l’impossibilità sopravvenuta nel caso di attività sulle quali i DPCM incidano solo indirettamente, quali gli esercizi commerciali che rientrano nelle eccezioni alla sospensione generalizzata. In questi casi sarà più difficile affermare che sia venuta radicalmente meno la possibilità di fruire della prestazione del locatore e il conduttore dovrà attrezzarsi per fornire la prova rigorosa che l’applicazione delle disposizioni ha determinato l’impossibilità di fatto di poter fruire della prestazione del locatore.
Nondimeno, gli esercizi che siano rimasti aperti, così fruendo dell’immobile, sia pure in circostanze che hanno inciso pesantemente sulla redditività del suo utilizzo, potranno invocare una riduzione del canone invocando le difficoltà causate dai limiti di circolazione delle persone e dal calo della domanda. Dovranno però fornire prova della riduzione delle entrate.
Quanto agli uffici, è indubbio che, per un ampio numero di attività amministrative e professionali, il ricorso allo smart working li sta di fatto svuotando, rendendo alquanto limitato il beneficio della loro disponibilità in virtù del rapporto locativo. In questi casi un giudice potrebbe essere meno incline ad assecondare le ragioni di quegli operatori che siano comunque riusciti ad assicurare la propria operatività tramite lo smart working. Pare più giustificata una domanda di riduzione dei canoni proporzionata al mancato godimento piuttosto che una sospensione “tout court” del loro pagamento.
V’è poi da prendere in esame il caso della eccesiva onerosità sopravvenuta, che comporta una grave alterazione tra il valore delle prestazioni corrispettive con conseguenze persistenti e non soltanto passeggere. In questo caso, stante la causa di forza maggiore determinata dalla pandemia, è possibile invocare la risoluzione del contratto ex art. 1467 cc (fatto salvo l’onere della prova dello squilibrio tra le prestazioni che compete al conduttore e la facoltà del conduttore di evitare la risoluzione offrendo un’equa modificazione delle condizioni contrattuali), o esercitare il recesso per gravi motivi ex art. 27, u.c., della L. 392/1978.
In conclusione, stante l’eccezionalità della situazione, pare produttivo suggerire sempre al conduttore – dopo avere compiuto una specifica analisi della situazione contrattuale e in presenza dei presupposti dianzi illustrati – di formalizzare al proprietario, mediante lettera raccomandata, una richiesta di sospensione del canone di locazione per tutta la durata dell’emergenza sanitaria. Il locatore, infatti, in difetto del pagamento dei canoni, sarebbe legittimato ad agire per recuperarli e anche a promuovere il procedimento di sfratto per morosità. La tempestiva formalizzazione al locatore, con le adeguate motivazioni, di sopravvenuta impossibilità di adempiere agli obblighi contrattuali per cause di forza maggiore favorirebbe il dialogo tra le parti e la possibilità di una soluzione negoziale che contempli una sospensione o una riduzione del canone.
Del pari, come anticipato, in caso di eccessiva onerosità sopravvenuta è sempre possibile evitare la risoluzione del contratto, offrendo un’equa modificazione delle condizioni.
Certo è che la fondatezza in diritto di richieste di sospensione o riduzione del canone o addirittura di rinegoziazione dei contratti, dipenderà molto dalla durata della crisi e dalla portata dei suoi effetti sull’andamento dell’economia, e, caso per caso, sugli affari dei singoli operatori. Come osservato, la ragionevolezza del ricorso alle disposizioni che consentono di giustificare tali pretese si fonda su un giudizio di insostenibilità delle condizioni economiche del contratto per effetto dell’impatto significativo, strutturale e perdurante delle circostanze invocate.