FURTO IN CASSETTA DI SICUREZZA
Cassazione, sez. I, 4 giugno 2012, n. 8945
A proposito di un furto di oggetti depositati in una cassetta di sicurezza, la Suprema Corte, con la annotata sentenza, ha affermato che generalmente si tratta di una circostanza di fatto che non è di comune dominio, stante la ovvia necessità di mantenere la riservatezza che orienta la scelta di questo servizio offerto dalle banche.
Ha ribadito, quindi, il seguente principio già affermato con la precedente sentenza n. 27068 del 2008: “in presenza di una circostanziata denuncia alla polizia giudiziaria della natura, della qualità e del valore dei singoli oggetti trafugati, delle deposizioni testimoniali relative al fatto che gli oggetti erano custoditi in banca, ed in mancanza di ogni prova od indizio contrario, il mancato ricorso alle presunzioni di cui agli art. 2727 e 2729 cod. civ., al fine di ritenere raggiunta la prova del danno, è da ritenere illegittimo, ove non venga adeguatamente motivato, trattandosi di danni dei quali è estremamente difficile, se non impossibile, fornire la prova storica”.
Invero i giudici di primo e secondo grado erano giunti alla conclusione che la denuncia di furto ( di gioielli custoditi in una cassetta di sicurezza presso un istituto di credito) costituisce un mero atto di parte e le deposizioni testimoniali, per la loro genericità, devono ritenersi inidonee ad assolvere l’onere della prova relativo all’esistenza e all’entità del danno patrimoniale lamentato,
Riformando la sentenza d’appello gli ermellini hanno affermato la necessità di una valutazione globale del quadro indiziario, quando non sia vietato dalla legge il ricorso alle presunzioni, ritenendo illegittima la valutazione separata dei singoli elementi di fatto e viziata da errore di diritto la decisione in cui il giudice si sia limitato a negare valore indiziario agli elementi acquisiti in giudizio senza accertare se essi, quand’anche singolarmente sforniti di valenza probatoria, non fossero in grado di acquisirla ove valutati nella loro sintesi, nel senso che ognuno avrebbe potuto rafforzare e trarre vigore dall’altro in un rapporto di vicendevole completamento. In tal modo i giudici di ultima istanza hanno confermato un orientamento peraltro consolidato della giurisprudenza di legittimità (sent. 19894 del 2005, 26022 del 2011).
Svolgimento del processo
A..M. proponeva domanda di risarcimento dei danni nei confronti della s.p.a. Banca di Roma per l’importo di 300.000 milioni di lire deducendo di essersi recata il giorno 3/4/2000 presso la propria Banca ove era titolare di una personale cassetta di sicurezza e di aver constatato che (circa un anno prima (5/5/99); ignoti avevano rapinato l’agenzia svaligiando varie cassette, tra le quali la sua, contenente gioielli e preziosi del valore corrispondente a quello richiesto in via risarcitoria. L’attrice denunciava inoltre la mancata tempestiva comunicazione dell’avvenuta rapina sostenendo che da tale omessa informazione era derivato un ulteriore pregiudizio patrimoniale nonché il danno all’immagine ed all’onorabilità dovuto al deposito in giudizio, da parte dell’istituto bancario, del verbale di sequestro della cassetta in questione da parte della D.I.A. di Salerno. L’istituto di credito, chiedendo il rigetto della domanda, giustificava l’omessa comunicazione proprio sulla base dell’intervenuto sequestro penale. In primo grado venivano escussi testi e disposta CTU sul valore dei beni il cui furto era stato denunciato dalla titolare della cassetta.
Il giudice di primo grado rigettava la domanda ritenendo sussistente la responsabilità della banca per inidoneità dei locali ma non provata la domanda risarcitoria sulla base delle prove documentali (la denuncia penale) e le prove testimoniali (degli stretti familiari che avevano accompagnato la parte presso la banca a ritirare o depositare nella cassetta di sicurezza) espletate. Sull’appello principale proposto dalla M. ed incidentale proposto dalla Banca, la sentenza di secondo grado, per quel che ancora interessa, confermava la responsabilità dell’istituto derivante da difetto di custodia derivante dall’accertata inidoneità dei locali ove si trovavano le cadette di sicurezza nonché la nullità della clausola limitativa della responsabilità dell’istituto bancario ma in ordine alla prova del pregiudizio patrimoniale dedotto dalla parte appellante riteneva, analogamente al giudice del precedente grado, che non fosse stata dimostrata l’effettiva esistenza, al momento del furto, dei gioielli di cui si lamentava la mancanza. In particolare il giudice di secondo grado riteneva corretta la valutazione delle prove eseguita dal primo giudice, osservando che la denuncia costituiva un mero atto di parte e le deposizioni testimoniali, per la loro genericità, dovevano ritenersi inidonee ad assolvere l’onere della prova relativo all’esistenza e all’entità del danno patrimoniale lamentato, dal momento che i testi (marito e figlio dell’appellante) si erano limitati a dichiarare genericamente che gli oggetti indicati nella denuncia erano contenuti nella cassetta di sicurezza e che erano a conoscenza della circostanza perché accompagnavano sempre la titolare presso la banca quando aveva bisogno, per prelievi o depositi, di utilizzare la cassetta medesima. Queste dichiarazioni non erano, pertanto, reputate sufficienti a far presumere l’esistenza dei gioielli indicati dall’attrice nella cassetta al momento della rapina. Neanche il verbale dell’11/2/94 della D.I.A. secondo cui il contenuto della cassetta consisteva in alcuni oggetti preziosi (bracciali, orecchini, gioielli) poteva di per sé ritenersi idoneo a dimostrare che all’atto della rapina vi fossero gli oggetti preziosi indicati nella denuncia, riferendosi tale verbale ad un diverso momento temporale. La Corte d’appello, infine, rigettava anche le altre domande risarcitorie relative alle conseguenze patrimoniali dell’omessa tempestiva comunicazione dell’intervenuta rapina nonché la dedotta lesione dell’immagine, atteso che l’istituto, con le indicazioni e il deposito censurato, aveva esercitato il proprio diritto di difesa.
Avverso tale pronuncia ha proposto ricorso per cassazione. Assunta M. con undici motivi. L’istituto bancario ha resistito con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memorie ex art. 378 cod. proc. civ..
Motivi della decisione
Deve essere preliminarmente affrontata in ordine logico la dedotta inammissibilità del ricorso per tardività della notifica, sollevata nel controricorso. Al riguardo, deve rilevarsi che il termine ultimo per la notificazione del ricorso scadeva il 2 novembre 2010. Dal giorno precedente a tale scadenza si producevano gli effetti della fusione per incorporazione della Unicredit Banca di Roma S.P.A. (incorporata), alla quale era stato notificato il ricorso, unitamente al legale costituito nei precedenti gradi, nella Unicredit S.P.A. (incorporante). Illustrava la parte controricorrente che il ricorso era stato notificato a mezzo del servizio postale, con atto consegnato all’Ufficiale Giudiziario il 2/11/2010 e trasmesso all’ufficio postale competente il 3/11/2010, rispettivamente a: Unicredit Banca di Roma S.P.A (cessata il 31/10/2010); Banca di Roma S.P.A. (denominazione cessata nel gennaio 2008); Unicredit Banca S.P.A. (del tutto estranea al giudizio); avv. Nicola Proto Pisani, cui veniva conferita procura speciale alle liti anche per il presente grado. Nessun atto veniva notificato a Unicredit S.P.A. Gli atti notificati venivano consegnati ai destinatari il 6 novembre 2010. Era, pertanto, contestata la tempestività della notifica e la corretta individuazione del destinatario della medesima. Entrambi i profili d’invalidità della notificazione sono infondati. Quanto al primo profilo è sufficiente richiamare il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo il quale; per effetto delle sentenze della Corte Costituzionale n. 477 del 2002 e 28 del 2004, la notificazione a mezzo posta deve ritenersi tempestiva per il notificante al solo compimento delle formalità direttamente impostegli dalla legge. Tale principio si fonda sull’illegittimità costituzionale di un’interpretazione che addebiti al notificante l’esito intempestivo di un procedimento notificatorio sottratto ai suoi poteri quanto alle attività a lui non riferibili. Ne consegue che la notifica si perfeziona per il notificante al momento della consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario, nella specie tempestivamente eseguita il 2/11/2010, e non in quello, successivo, del deposito del piego raccomandato nell’ufficio postale, che costituisce attività estranea al notificante. (tra le altre Cass. 21409 del 2004; S.U. 13338 del 2010). Quanto al secondo profilo, l’art. 2504 bis., primo comma, cod. civ., nella formulazione attualmente vigente (introdotta dall’art. 23 del d.lgs. 28/12/2004 n. 310), stabilisce che le società incorporanti (o quella risultante dalla fusione) assumono i diritti e gli obblighi delle società incorporate, proseguendo nei loro rapporti, anche processuali, anteriori alla fusione. Poiché la nuova norma trova piena applicazione in ordine ad una fusione perfezionatasi nel 2010, deve ritenersi validamente notificato il ricorso per cassazione all’incorporata, determinandosi, in ordine al rapporto processuale, una successione a titolo particolare, disciplinata dall’art. 111 cod. proc. civ.. Peraltro, le S.U. della Corte di Cassazione, con la pronuncia n. 19059 del 2010 hanno stabilito che, anche con riferimento ad una fusione per incorporazione intervenuta prima dell’entrata in vigore del novellato art. 2504 bis cod. proc. civ., l’impugnazione è validamente notificata al procuratore della società estinta per incorporazione nel caso in cui la fusione sia intervenuta successivamente alla chiusura della discussione o alla scadenza del termine di deposito delle memorie di replica, se l’impugnante non abbia avuto notizia dell’evento modificatore della capacità giuridica della società mediante la notificazione di esso. Del pari infondata la dedotta inammissibilità dei motivi di ricorso perché formulati cumulativamente mediante duplice contestuale censura di violazione di legge e di vizio di motivazione. Al riguardo deve osservarsi che anche nella vigenza dell’art. 366 bis cod. proc. civ., che imponeva la formulazione del quesito di diritto, a pena d’inammissibilità, per i vizi diversi dal quello disciplinato dall’art. 360 n. 5 e per quest’ultimo una sintesi del motivo, si è ritenuta ammissibile la denuncia con unico motivo di entrambi i vizi (salvo il vincolo, non più vigente, della finale indicazione dei quesiti), non essendo rinvenibile alcuna prescrizione processuale specifica in ordine all’obbligo della formulazione separata (Cass. 976 del 2008; 7261 del 2009; S.U. 7770 del 2009) salvo che non venga prospettata la medesima questione sotto profili incompatibili e non siano, conseguentemente incomprensibili le ragioni di censura. Nella specie, tuttavia, nei motivi di ricorso la critica alla sentenza impugnata è espressa in modo chiaro e del tutto intellegibile senza che la indicazione cumulativa di vizi incida negativamente sul loro esame. Passando all’esame degli undici motivi di ricorso, nei primi quattro si denuncia la violazione degli art. 2727 e 2729 cod. civ. in relazione all’art. 360 n. 3 cod. proc. civ. e l’insufficiente motivazione della sentenza impugnata in ordine alla valutazione dei riscontri probatori acquisiti, in relazione all’art. 360 n. 5 cod. proc. civ.. Il ricorrente lamenta, in particolare, che la Corte d’appello abbia del tutto omesso una valutazione globale e coordinata del quadro indiziario, in spregio al metodo di valutazione delle prove indirette indicato nei citati art. 2727, primo comma e 2729, primo comma, cod. civ.. Inoltre, evidenzia che la motivazione relativa all’inidoneità dei singoli mezzi di prova, oltre ad essere impostata in modo atomistico senza correlazione alcuna tra i diversi elementi di fatto, è anche intrinsecamente insufficiente ed inadeguata con riferimento a ciascuno di essi.
I quattro motivi illustrati, da esaminarsi congiuntamente, sono fondati.
Deve preliminarmente osservarsi che il contenuto di una cassetta di sicurezza costituisce una circostanza di fatto generalmente non divulgata, attesa la prioritaria esigenza di riservatezza che caratterizza la scelta di questo servizio bancario. Ne consegue, come affermato in una recente pronuncia di questa Corte, relativa ad una fattispecie del tutto simile a quella dedotta nel presente giudizio (Cass. 27068 del 2008), la necessità di ricorrere alle deposizioni degli stretti familiari e a non sottovalutare od ignorare, se coerenti con l’insieme dei riscontri probatori, elementi di fatto quali la denuncia penale, solo perché di provenienza unilaterale, dovendosi sempre tenere conto, nell’esame e selezione del materiale probatorio, della peculiarità dei fatti da dimostrare. La valutazione dei singoli riscontri probatori, così come eseguita nella sentenza impugnata, non risulta, invece, tenere in alcuna considerazione la intrinseca riservatezza della materia. La denuncia penale viene qualificata come un mero atto di parte privo di valore probatorio oggettivo senza specificare se sia stata oggetto di esame una denuncia generica o, come risulta dagli atti, circostanziata in ordine al numero, la tipologia, la descrizione e il valore degli oggetti preziosi custoditi (Cass. 27068 del 2008), omettendo, peraltro, di considerare l’obbligo, penalmente sanzionato di offrire una rappresentazione veritiera dei fatti a carico del denunciante. Le deposizioni testimoniali dei familiari vengono ritenute insufficienti perché genericamente confermative del contenuto della cassetta di sicurezza così come indicato dalla ricorrente; ma tale valutazione risulta argomentata in modo illogico ed insufficiente perché non correlata all’articolazione del capitolo di prova, contenente lo specifico riferimento all’elencazione dettagliata degli oggetti preziosi desunto dalla denuncia penale, integrata nel contenuto del capitolo, e alla valutazione complessiva delle risposte che ne sono seguite. Entrambi i testimoni hanno, infatti confermato la circostanza formulata nel capitolo precisando le ragioni della conoscenza (erano gli unici ad accompagnare la ricorrente in banca in occasione dei depositi e dei prelievi) del contenuto della cassetta e fornendo specifiche indicazioni sulla provenienza, la descrizione e le caratteristiche di alcuni di essi in quanto derivanti da doni endofamiliari. (pag.23 ricorso e 25 e 26 del controricorso). Tali indicazioni non vengono menzionate nella valutazione d’insufficienza della prova. Peraltro, alla carenza della motivazione relativamente alla valutazione dei singoli mezzi di prova deve essere aggiunta la fondatezza della censura relativa alla mancata valutazione globale del quadro probatorio. La sentenza impugnata si è limitata ad un esame dei singoli riscontri, effettuato in modo atomistico, omettendo completamente di porre in correlazione gli elementi indiziari al fine di verificarne l’eventuale coerenza, precisione ed univocità. Come è stato affermato dalla già citata sentenza n. 27068 del 2008, “in presenza di una circostanziata denuncia alla polizia giudiziaria della natura, della qualità e del valore dei singoli oggetti trafugati (…), delle deposizioni testimoniali relative al fatto che gli oggetti erano custoditi in banca, ed in mancanza di ogni prova od indizio contrario (…), il mancato ricorso alle presunzioni di cui agli art. 2727 e 2729 cod. civ., al fine di ritenere raggiunta la prova del danno, è da ritenere illegittimo, ove non venga adeguatamente motivato, trattandosi di danni dei quali è estremamente difficile, se non impossibile, fornire la prova storica”. La necessità di una valutazione globale del quadro indiziario, quando non sia vietato dalla legge il ricorso alle presunzioni, e la conseguente illegittimità della valutazione separata dei singoli elementi di fatto costituiscono costante orientamento della giurisprudenza di legittimità.
Ha affermato la Corte che è viziata di errore di diritto la decisione in cui il giudice si sia limitato a negare valore indiziario agli elementi acquisiti in giudizio senza accertare se essi, quand’anche singolarmente sforniti di valenza probatoria, non fossero in grado di acquisirla ove valutati nella loro sintesi, nel senso che ognuno avrebbe potuto rafforzare e trarre vigore dall’altro in un rapporto di vicendevole completamento (sent. 19894 del 2005, 26022 del 2011). L’orientamento sopra illustrato è stato anche molto recentemente ribadito con l’affermazione di un principio che si attaglia perfettamente alla presente decisione : “la prova presuntiva esige che il giudice prenda in esame tutti i fatti noti emersi nel corso dell’istruzione, valutandoli tutti insieme gli uni per mezzo degli altri. È, pertanto, erroneo l’operato del giudice di merito il quale a cospetto di plurimi indizi li prenda in esame e li valuti singolarmente per poi giungere alla conclusione che nessuno di essi assurga alla dignità di prova” (Cass. 3703 del 2012). In conclusione, i primi quattro motivi di ricorso devono essere accolti con rinvio della causa alla Corte d’Appello di Napoli in diversa composizione perché, nella valutazione del complessivo quadro indiziario fornito dalle parti, mediante il ricorso alla prova presuntiva valuti se siano stati dimostrati in tutto od in parte i danni patrimoniali lamentati dalla parte ricorrente e se sia possibile procedere alla loro liquidazione equitativa.
Risultano assorbiti i motivi di ricorso dal quinto al decimo, in quanto relativi ad ulteriori profili di danno patrimoniale eziologicamente riconducibili all’accertamento relativo ai motivi accolti.
Deve invece essere rigettato l’undicesimo motivo di ricorso, relativo ad un’autonoma voce di danno, di natura non patrimoniale, derivante dalla dedotta lesione del diritto all’immagine e all’onorabilità della ricorrente. Il danno sarebbe stato determinato dall’istituto bancario per aver riferito in propri atti difensivi dell’esistenza di indagini penali a carico della cliente e del sequestro della cassetta di sicurezza da parte della D.I.A.. Il motivo è palesemente infondato perché; come esattamente affermato nella sentenza d’appello, le allegazioni censurate sono state formulate al fine di esercitare legittimamente il diritto di difesa in correlazione al contestato ritardo nel rinvenimento del contratto relativo alla cassetta di sicurezza.
P.Q.M.
Accoglie i primi quattro motivi di ricorso. Rigetta l’undicesimo motivo. Dichiara assorbiti gli altri. Cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia per un nuovo giudizio e per la pronuncia sulle spese del giudizio di Cassazione, alla Corte d’Appello di Napoli, in diversa composizione.