Eredità e polizze vita: qual è il rapporto? La giurisprudenza della Cassazione. (Cass. Civ., n. 29583 del 22 ottobre 2021)

 

La Corte di Cassazione è intervenuta per dirimere una complessa vicenda successoria, che aveva dato luogo ad una controversia tra gli eredi del contraente di una polizza vita. In particolare la disputa  concerneva i premi relativi ai contratti di assicurazione sulla vita a favore di un erede, che i ricorrenti pretermessi intendevano assoggettare a  collazione.
Nella fattispecie una polizza assicurativa di tipo index “mista” caso vita e morte, era stata stipulata dal defunto padre sulla vita del figlio (assicurato di polizza) e avente  il contraente quale beneficiario caso vita ( e dunque nel caso di sopravvivenza di entrambi alla scadenza del contratto), e  gli eredi dell’assicurato (figlio) quali beneficiari caso morte (nel caso di decesso dell’assicurato stesso).
Va detto che la polizza prevedeva quale ulteriore condizione che in caso di premorienza del contraente padre rispetto all’assicurato figlio, prima della scadenza del contratto, l’assicurato avrebbe preso posto del contraente deceduto.
E’ accaduto che  il padre è premorto al figlio e quest’ultimo è subentrato, in forza della summenzionata prescrizione, nella posizione di contraente di polizza continuando ad esserne anche assicurato.
La Corte ha riaffermato un principio ormai ricorrente nella giurisprudenza di legittimità, statuendo, in estrema sintesi, che al momento della morte del contraente, il figlio è tenuto al conferimento del premio per il “caso di vita”, nell’ipotesi, di fatto verificatasi, di premorienza del contraente rispetto all’assicurato. Allo stesso obbligo di conferimento è tenuto  anche per quanto concerne i premi  per il “caso di morte”, in forza dell’art. 741 del codice civile, pur essendo egli l’assicurato e non il beneficiario dei vantaggi della polizza, destinati agli eredi di lui, ossia del medesimo assicurato.
In entrambi i casi si viene a configurare una donazione indiretta.
Mette conto di osservare che l’obbligo di collazione, cioè del conferimento della donazione fatta dal defunto nei confronti di un legittimario per il calcolo della massa ereditaria, riguarda la minore somma tra l’ammontare dei premi pagati e il capitale, non potendo la collazione avere per oggetto che il vantaggio conseguito dal discendente.

Se poi l’evento, condizionante il diritto all’indennizzo, non si sia ancora verificato all’apertura della successione, il discendente è intanto tenuto al conferimento del premio, salva la necessità, in favore del discendente stesso o dei suoi eredi, di procedere a un nuovo conteggio qualora l’indennità si rilevi in seguito inferiore.

La Corte ha  quindi espresso il seguente principio di diritto: “L’obbligo di collazione previsto dall’art. 741 c.c. relativamente a ciò che il defunto ha speso a favore dei suoi discendenti, per soddisfare, tra l’altro, premi relativi a contratti sulla vita a loro favore, riguarda tanto l’ipotesi dell’assicurazione stipulata dal discendente sulla propria vita, “sub specie” di pagamento del debito altrui, quanto quella di assicurazione sulla vita del discendente (o del “de cuius”), che rientra nello schema della donazione indiretta, quale contratto a favore di terzo. Peraltro, giacché il capitale assicurato può rivelarsi, di fatto, inferiore ai premi – che costituiscono, in linea di principio, l’oggetto del conferimento ex art. 2923, comma 2, c.c. – l’obbligo di collazione va precisato nel senso che, indipendentemente dalla natura cd. tradizionale o finanziaria della polizza, il conseguente conferimento riguarda la minore somma tra l’ammontare dei premi pagati ed il capitale, non potendo la collazione avere ad oggetto che il vantaggio conseguito dal beneficiario (o dai suoi discendenti), sul quale grava l’onere della relativa prova.”

Testo integrale della sentenza

Cassazione civile sez. II – 22/10/2021, n. 29583

Intestazione

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

FATTI DI CAUSA

  1. La presente causa riguarda la successione legittima di B.A., deceduto il (OMISSIS), lasciando i figli S., Sa., G., R. e i discendenti del figlio premorto A.: B.F.A. e B.R.F.. In corso di causa è deceduta B.T., lasciando eredi I.R., I.M., I.E.R., I.U..

Per quanto interessa in questa sede, il Tribunale di Catania, adito da Ba.Sa., G. e R., con sentenza non definitiva, riconosceva, con riferimento a una polizza vita stipulata dal de cuius con la Fideuram, nella quale le attrici avevano ravvisato una donazione del genitore in favore di B.S., che non ricorrevano i presupposti della collazione invocata dalle attrici, in difetto delle condizioni richieste per poter ravvisare nella fattispecie una liberalità del genitore in favore del figlio.

Il Tribunale rigettava inoltre la domanda ulteriore della attrici, che avevano richiesto il conferimento di una gestione patrimoniale, intestata al defunto e al figlio S.. Anche in questo caso il primo giudice riteneva che non ci fossero i presupposti della collazione, non essendoci prova che l’intestazione congiunta costituisse una donazione.

Il Tribunale rigettava ancora la domanda, proposta dalle attrici, di annullamento per incapacità naturale del genitore della vendita di quote della B. s.r.l., intercorsa fra il de cuius e il figlio S.; rigettava altresì la domanda volta a fare accertare la simulazione del medesimo contratto, rilevando che non ricorrevano, nella specie, le condizioni per riconoscere alle legittimarie attrici la qualità di terzo ai fini della prova della simulazione e, in ogni caso, in difetto della deduzione di elementi presuntivi idonei nel termine concesso per le deduzioni istruttorie.

Il primo giudice, in accoglimento della domanda riconvenzionale di B.S., riconosceva che le attrici e B.T. erano tenuti al conferimento della somma di Lire 100.000.000 ricevuta in donazione del de cuius.

  1. La Corte d’appello di Catania, adita con appello principale dalle originarie attrici e in procedimento separato, poi riunito, dagli eredi di B.T., nonché con appello incidentale da B.S., ha riformato in parte la sentenza.

2.1. In relazione al contratto del 2 aprile 2001, con il quale il de cuius aveva venduto al figlio S. le quote di sua proprietà della B. s.r.l., la Corte d’appello ha innanzitutto rigettato la domanda, con la quale le attrici Ba.Sa., B.G. e B.R. avevano chiesto disporsi l’annullamento del contratto per incapacità naturale del disponente. Essa ha osservato in proposito che gli elementi addotti al fine della prova della incapacità, consistenti nelle dichiarazioni testimoniali della persona di servizio del de cuius, non erano idonei a tal fine, emergendo da tali dichiarazioni emergevano solo disturbi e malesseri tipici dell’età avanzata.

2.2. La Corte d’appello ha poi esaminato la domanda di simulazione, proposta dalle attrice con riferimento al medesimo atto. In relazione a tale domanda la corte di merito ha negato che le attrici potessero fruire delle agevolazioni probatorie accordate al legittimario che agisce per fare accertare la simulazione di atti, apparentemente onerosi, compiuti dal defunto. Essa ha osservato che le attrici non avevano agito in qualità di legittimari con l’azione di riduzione, ma avevano agito quali eredi legittimi al fine della ricostruzione del patrimonio in funzione della collazione della donazione dissimulata. In verità, ha proseguito la Corte d’appello, le stesse attrici avevano chiesto, in via subordinata, la riduzione della donazione dissimulata sotto l’apparenza della vendita; tuttavia, la domanda, in quanto non accompagnata dalla richiesta di volere conseguire la quota di riserva, non poteva ritenersi idoneo esercizio dell’azione di riduzione, avuto riguardo agli stringenti oneri di deduzione imposti a colui che proponga la relativa domanda, secondo consolidati principi della giurisprudenza di legittimità.

La Corte d’appello ha proseguito nell’analisi, ponendo in luce che le appellanti non avevano impugnato la statuizione della sentenza di primo graddella parte in cui il Tribunale aveva rimarcato che le attrici non avevano indicato, entro i termini fissati per le preclusioni istruttorie, alcune/elemento presuntivo volto a dimostrare la pretesa simulazione. In proposito la Corte d’appello, richiamando le, previsione di cui all’art. 342 c.p.c., ha rilevato che le appellanti si erano inammissibilmente limitate a riproporre la tesi sostenuta in primo grado, senza sottoporre a una effettiva revisione critica la decisione impugnata. Solo nel grado le appellanti avevano indicato gli elementi presuntivi volti a comprovare l’esistenza di donazioni indirette.

2.3. La corte d’appello, in accoglimento della ragione di censura proposta dalle originarie attrici, ha riconosciuto che B.A. era tenuto al conferimento del premio versato dal defunto relativo alla polizza stipulata da de cuius. In proposito essa ha osservato che si trattava di polizza indicizzata a premio unico, che era stata stipulata da de cuius sulla vita del figlio B.S.; che la polizza aveva quali beneficiari, per il “caso vita”, il contraente e, per il “caso morte”, gli eredi testamentari o legittimi dell’assicurato B.S.; che il meccanismo della polizza prevedeva, per l’ipotesi che l’assicurato fosse ancora in vita al decesso del contraente, il subentro dell’assicurato nella posizione del medesimo contraente, con preclusione di poter variare i beneficiari caso vita e caso morte.

Così identificato il meccanismo di polizza, la Corte d’appello ha ravvisato in essa una liberalità realizzata dal defunto in favore de6iglio, subentrato al contraente e restando pertanto beneficiario in “caso vita”. E’ vero – ha proseguito la Corte d’appello – che lo strumento prescelto del defunto corrispondeva a un interesse finanziario e non per sé stesso a un fine di liberalità; tuttavia, “tenuto conto dell’età dell’originario contraente e della tipologia dello strumento prescelto con scadenza a lungo termine, della possibilità di far subentrare nel contratto la persona scelta come contraente, rende evidente il fine di liberalità perseguito dal defunto”. In quanto alla possibilità, già ventilata dal primo giudice, che il premio pagato avrebbe potuto non coincidere con il premio, la Corte d’appello ha riconosciuto, visto che la Compagnia non aveva dato una risposta esauriente sul contenuto della polizza “per ragioni di tutela della privacy del nuovo contraente, che l’onere di provare il minore beneficio era a carico dell’assicurato, “trattandosi dell’unico soggetto che avrebbe potuto dimostrare l’effettivo valore dell’importo ricevuto (in misura maggiore o minore dell’importo versato dal de cuius)”.

La Corte di merito, in esito a tale ricostruzione, ha imposto a B.S. l’obbligo di conferire in collazione il premio versato dal de cuius, pari a Euro 800.000,00.

2.4. E’ stato invece rigettato il motivo d’appello, con il quale le attrici originarie avevano censurato la decisione di primo grado nella parte in cui il Tribunale aveva negato che costituisse donazione l’intestazione, in nome del de cuius e del figlio, dei titoli esistenti presso la Banca Fideuram. Il primo giudice aveva negato che fosse stata data la prova della provenienza della provvista da parte del solo defunto. In relazione a tale statuizione la Corte d’appello ha osservato che le appellanti si erano limitate e ribadire la provenienza esclusiva della provvista dal solo defunto, senza neanche censurare l’ulteriore considerazione del primo giudice “in ordine al fatto che la gestione in parola è oggetto di un’apertura di credito in conto corrente, concessa ai due cointestatari della gestione”.

2.5. La Corte d’appello, infine, ha riformato la sentenza di primo grado in ordine a un ulteriore aspetto.

Il primo giudice, in accoglimento della domanda riconvenzionale proposta da B.S., aveva riconosciuto che il genitore aveva donato alle figlie Lire 100.000.000, imponendo l’obbligo del conferimento a carico delle attrici e di B.T.. La Corte d’appello, accogliendo l’appello proposto sul punto dalle originarie attrici, ha esteso l’obbligo di collazione a B.S., riconoscendo che il defunto aveva elargito identico importo a favore di ciascuno dei sei figli.

  1. Per la cassazione della sentenza B.S. ha proposto ricorso affidato a quattro motivi.

Ba.Sa., B.G. e B.R. hanno resistito con controricorso, contenente ricorso incidentale affidato a quattro motivi.

B.F.A. e B.R.F. hanno resistito con controricorso.

Hanno resistito con controricorso anche I.U., I.E.R., I.R. e I.M..

In vista dell’udienza camerale del 21 gennaio 2021, B.S. ha depositato memoria. Hanno depositato memoria anche I.U., I.E.R., I.R. e I.M.. La causa, con ordinanza di pari data, è stata rimessa alla pubblica udienza.

Il ricorrente ha depositato ulteriore memoria in prossimità della pubblica udienza.

 

RAGIONI DELLA DECISIONE

  1. Il primo motivo del ricorso principale denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 342 e 346 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4.

Si premette, da parte del ricorrente, che il primo giudice, in relazione alla polizza Fideuram, aveva rigettato la domanda di collazione proposta dai coeredi sulla base di una duplice ratio: a) l’inidoneità dello strumento utilizzato al fine di realizzare una liberalità; b) il rilievo che “i soggetti indicati come beneficiari sono altri e diversi da quello che si assume essere stato il donatario (e cioè il convenuto B.S.”). Ciò posto, il ricorrente evidenzia che, nel proporre il gravame, le appellanti avevano proposto considerazioni generiche, in parte anche improprie (così quella con la quale si assumeva che l’assicurato, avendo assunto la qualità di contraente alla morte del de cuius, avesse acquisito il potere di variare i beneficiari, laddove tale facoltà era espressamente esclusa dalle previsioni di polizza). Pertanto, assenza di idonee critiche verso la rafia decidendi della decisione di primo grado 1 l’appello doveva essere dichiarato inammissibile ai sensi dell’art. 342 c.p.c..

Il motivo è infondato. Risulta dalla trascrizione dell’atto di appello operata nel ricorso, che le appellanti avevano sostenuto che l’operazione realizzata dal genitore, seppure avesse ad oggetto un investimento finanziario, fu concepita e voluta dal de cuius al fine di favorire il figlio B.S. e non gli apparenti beneficiari della polizza ovvero i figli del medesimo B.S.. Avevano poi precisato che, secondo le previsioni della polizza, l’assicurato, alla morte dello stipulante, aveva assunto la qualità di contraente, vale a dire quella qualità in considerazione della quale la Corte d’appello ha riconosciuto che la fattispecie aveva realizzato una donazione del de cuius in favore del figlio. Non è vero perciò che la Corte d’appello abbia definito la lite sulla base di circostanze non dedotte. La Corte d’appello ha soltanto dato una qualificazione giuridica di un fatto dedotto. Del resto, costituisce orientamento pacifico nella giurisprudenza della Corte quello secondo cui “ai fini della specificità dei motivi d’appello richiesta dall’art. 342 c.p.c., l’esposizione delle ragioni di fatto e di diritto, invocate a sostegno del gravame, può sostanziarsi anche nella prospettazione delle medesime ragioni addotte nel giudizio di primo grado, non essendo necessaria l’allegazione di profili fattuali e giuridici aggiuntivi, purché ciò determini una critica adeguata e specifica della decisione impugnata e consenta al giudice del gravame di percepire con certezza il contenuto delle censure, in riferimento alle statuizioni adottate dal primo giudice” (Cass. n. 23781/2020).

Il rilievo che le appellanti avessero erroneamente sostenuto che colui che era subentrato al contraente aveva acquisito la facoltà di variare i beneficiari, nulla toglie all’idoneità della critica mossa alla sentenza di primo grado. Infatti, l’essenza della critica non è in tale aspetto, ma nel non avere il tribunale colto che il genitore aveva fatto ricorso a un meccanismo negoziale comunque idoneo a beneficiare il figlio, che diveniva destinatario del capitale assicurato “per il caso di vita”.

  1. Il secondo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 346 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4.

Si pone in luce che le appellanti non avevano formulato alcuna censura contro la statuizione della sentenza di primo grado, laddove il primo giudice aveva negato l’obbligo di collazione, a carico di B.S., argomentando che i beneficiari della polizza erano soggetti diversi dal supposto donatario. Secondo il ricorrente, la carenza di un’apposita censura su questa statuizione, identificata quale autonoma ratio decidendi idonea a giustificare il rigetto della domanda, imponeva alla Corte d’appello di dichiarare inammissibile l’impugnazione.

Il motivo è infondato. La censura contro la supposta ratio deddendi era stata in effetti formulata, in quanto al rilievo del primo giudice, fondato sulla diversa identità dei beneficiari, le appellanti avevano obiettato che l’operazione fu attuata dal genitore non con il fine di favorire i beneficiari, ma il figlio S., a carico del quale permaneva l’obbligo di conferimento del premio (Cass. n. 3194/2019; n. 12280/2016).

  1. Il terzo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. e art. 115 c.p.c..

La sentenza è oggetto di censura nella parte in cui la corte di merito ha posto a carico dell’attuale ricorrente l’onere di provare “l’effettivo valore dell’importo ricevuto (in misura maggiore o minore del premio versato dal de culla)”.

La Corte d’appello, in questo modo, ha violato il criterio di riparto dell’onere probatorio, in base al quale era onere delle attrici, le quali avevano dedotto l/esistenza della liberalità, fornire la prova dei fatti costitutivi della pretesa. Alla carenza di sufficienti e adeguate informazioni da parte della Compagnia, le attrici ben avrebbero potuto supplire con istanza di esibizione.

Il quarto motivo denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 737 e 741 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

La Corte d’appello, nell’imporre all’attuale ricorrente, il conferimento in collazione del premio unico versato dal defunto, ha violato le norme in materia, sotto una molteplicità di profili: a) perché B.S. non era il beneficiario della polizza, ma solo il soggetto subentrato al contrante, privo peraltro del potere di variazione; b) perché egli non aveva ricevuto alcunché dal defunto, e non potendosi imporre a suo carico l’obbligo di collazione di un premio volto in ipotesi a procurare un beneficio in favore di soggetti diversi; c) perché la natura del contratto rendeva persino aleatoria ed incerta l’esistenza e la misura beneficio.

  1. Il terzo e il quarto motivo, da esaminare congiuntamente, sono infondati.
  2. Si può ritenere acquisito che l’assicurazione di cui si discute nella presente causa fu stipulata dal de cuius non sulla propria vita, ma sulla vita del figlio B.S..

Si trattava inoltre di una polizza c.d. mista sulla vita del terzo, sia “per il caso di vita” sia “per il caso di morte”.

Si intende per assicurazione sulla vita “per il caso di vita” quella in cui l’assicuratore è obbligato a pagare se a un dato momento una data persona (nel caso in esame B.S.) è ancora in vita. Nell’assicurazione sulla vita “per il caso di morte” l’assicuratore è obbligato a pagare se a un dato momento una data persona è morta.

Nel caso in esame, il de cuius (contraente), per il caso di vita, aveva riservato a sé il beneficio; per il caso di morte la polizza fu stipulata a favore di terzo: secondo la sentenza gli eredi testamentari o legittimi dell’assicurato B.S., secondo gli scritti difensivi di parte “de nipoti del sig. B.A.” (pag. 17 del ricorso), “figli di B.S.” (pag. 5 del controricorso delle ricorrenti incidentali). Agli effetti che rilevano in questa sede la divergenza non incide minimamente sul significato giuridico dell’operazione. Si prevedeva ancora che, in caso di premorienza dello stipulante, nella posizione di contraente sarebbe subentrato l’assicurato.

  1. Si deve ora chiarire che la designazione di uno o più terzi beneficiari è sempre possibile e mai necessaria nel contratto di assicurazione sulla vita, in quanto anche al di fuori dei casi in cui il contraente riservi espressamente a sé stesso la somma assicurata, una designazione generica o specifica di uno o più beneficiari può sempre mancare, senza che il contratto ne soffra. Insomma, la designazione del beneficiario (che può essere coeva o successiva alla sottoscrizione del contratto: art. 1920 c.c., comma 2), è elemento normale del contratto di assicurazione sulla vita, ma non essenziale. Potrà darsi il caso che il contraente decida, ab origine, di riservare a proprio vantaggio il capitale o la rendita assicurata; è anche perfettamente concepibile che la designazione del terzo beneficiario manchi in toto: nell’uno e nell’altro caso, evidentemente, il diritto alla somma assicurata, entrerà nel patrimonio del contraente e si trasferisce ai suoi eredi, secondo le comuni norme sulla successione ereditaria (Cass. n. 7683/2015 in motivazione). Lo stesso dicasi quando l’originaria designazione venga revocata (art. 1921 c.c.), senza essere, in seguito, sostituita da una nuova. Il punto è controverso in dottrina.
  2. Si deve dare inoltre per acquisito che la polizza stipulata dal de cuius aveva contenuto finanziario. Per polizze vita a contenuto finanziario si intendono le polizze in cui la componente vita e di investimento risulta preponderante rispetto a quella demografica-previdenziale tipica delle polizze di assicurazioni sulla vita c.d. “tradizionali” di cui all’art. 1882 c.c. Senza che sia minimamente necessario approfondire la tematica, ai fini che interessano in questa sede, è sufficiente il rilievo che, nelle polizze di tipo classico, l’assicurato mira generalmente a garantire la disponibilità di una somma a familiari ovvero a terzi al momento della propria morte ed il rischio di perdita del capitale è pari a zero, essendo predeterminato l’importo da erogare al contraente o al beneficiario alla scadenza del contratto. Invece, nelle polizze a contenuto finanziario, al posto dell’obbligo restitutorio in capo all’impresa di assicurazione, viene conferito una sorta di mandato di gestione del denaro investito e l’investitore matura il diritto al mero risultato di gestione che quindi varia in base a una serie di fattori: l’andamento del mercato, dei titoli investiti, eccetera. Il riferimento è in particolare alle polizze unit e index linked, il cui rendimento, nel primo caso, è parametrato all’andamento di fondò comuni di investimento e, nel secondo, ad indici di vario tipo, generalmente titoli azionari. L’elemento caratterizzante tale tipologie di polizze è dunque il rischio finanziario, che, nelle così dette linked “pure” grava interamente sull’assicurato, poiché la compagnia non garantisce né la restituzione del capitale, né eventuali rendimento minimi.
  3. Costituisce principio acquisito che, in tema di polizza vita, la designazione dà luogo a favore del beneficiario a un acquisto iure proprio ai vantaggi dell’assicurazione (art. 1920 c.c.), anche se sottoposto alla condizione risolutiva della mancata revoca della designazione (Cass. n. 3263/2016). Iure proprio vuol dire che il diritto trova la sua fonte nel contratto e non entra a far parte del patrimonio ereditario dello stipulante (Cass., S.U., n. 11421/2021; n. 25635/2018; n. 15407/2000). E’ opinione unanime, in dottrina e in giurisprudenza, che la designazione del beneficiario sia un negozio unilaterale, personalissimo e non recettizio, con cui il contraente individua in modo generico o specifico il destinatario della prestazione dell’assicuratore (Cass. n. 4833/1978).
  4. Ex art. 1923 c.c., comma 2, in tema di assicurazione sulla vita a favore di un terzo, le norme sulla collazione e sulla riduzione sono fatte salve in riferimento ai primi pagati dallo stipulante non alle somme percepite dal beneficiario.

La Suprema Corte ha chiarito che le polizze sulla vita, aventi contenuto finanziario, nelle quali sia designato come beneficiario un soggetto terzo non legato al contraente da vincolo di mantenimento, sono configurabili, fino a fino a prova contraria, come “donazioni indirette” a favore dei beneficiari delle polizze stesse (Cass. n. 3263/2016). Si rileva che è il pagamento del premio che costituisce pertanto il c.d. “negozio mezzo” (l’assicurazione) utilizzato per conseguire gli effetti del “negozio fine” (la donazione). Sono i premi pagati, pertanto, che comportano liberalità atipica, non il contratto di assicurazione, che non può considerarsi quale uno degli atti di liberalità contemplati dall’art. 809 c.c. (Cass. n. 7683/2015).

Il rilievo è esatto, perché, la natura finanziaria delle polizze pone problemi diversi, ad esempio se sia applicabile l’art. 1923 c.c., comma 1, secondo cui le somme dovute dall’assicuratore in base a un’assicurazione sulla vita “non possono essere sottoposte ad azione esecutiva o cautelare”. Si osserva che questo regime di favore per l’assicurato consistente nella impignorabilità e nella insequestrabilità della prestazione assicurativa – si giustificherebbe in base al fatto che le polizze vita sono strumenti volti alla previdenza e al risparmio. Ove, per contro, una polizza sia contratta a fini esclusivamente speculativi (ravvisabili, anche solo in parte, nei contratti linked), essa non potrà godere della specifica tutela riconosciuta dalla norma. Ora, e senza che sia minimamente necessario in questa sede indagare oltre su tale questione, si può tranquillamente riconoscere che il dibattito sulla natura delle polizze aventi contenuto finanziario non riguarda l’idoneità dello strumento a realizzare una donazione indiretta, “che può realizzarsi nei modi più vari, essendo caratterizzata dal fine perseguito di realizzare una liberalità e non già dal mezzo, che può essere il più vario nei limiti consentito dall’ordinamento (Cass. n. 21449/2015; n. 3134/2012; n. 5333/2004). In quanto all’aleatorietà del beneficio, si nota in dottrina che, nelle assicurazioni sulla vita in genere, l’arricchimento del beneficiario non sta nell’indennità, che è sempre eventuale e aleatoria, ma nell’acquisto del diritto ai vantaggi economici dell’operazione, cui corrisponde il depauperamento del donante. Le successive diminuzioni possono essere considerate ai fini della collazione, ma non fanno perdere all’atto il carattere di donazione. Tanto questo è vero che è applicabile alla designazione l”art. 775 c.c. e “se compiuta da un incapace naturale, è annullabile a prescindere dal pregiudizio che quest’ultimo possa averne risentito” (Cass. n. 7683/2015 cit..).

  1. L’art. 741 c.c., dice soggetto a collazione ciò che il defunto ha speso a favore dei suoi discendenti per assegnazioni fatte a causa di matrimonio, per avviarli all’esercizio di un’attività produttiva o professionale, per soddisfare premi relativi a contratti di assicurazione sulla vita a loro favore o per pagare i loro debiti.

Quanto alle spese fatte per soddisfare premi relativi a contratti di assicurazione, a favore dei discendenti (propria o dei discendenti medesimi), è opinione concorde degli interpreti che la norma comprende sia l’ipotesi dell’assicurazione stipulata dal discendente sulla propria vita, sub specie di pagamento del debito altrui, sia l’assicurazione sulla vita del discendente (o del de cuius), che rientra nello schema della donazione indiretta, sub specie di contratto a favore di terzo. Per il discendente, infatti, ottenere l’indennizzo o assicurarlo ai propri familiari, dopo la propria morte, può infatti rappresentare un vantaggio non meno rilevante che l’intraprendere un’attività lucrativa. Si avrebbe invece donazione diretta in ipotesi di messa a disposizione del discendente delle somme necessarie per pagare i premi di assicurazione sulla vita di lui. In generale si rileva che l’art. 741 c.c., risulterebbe meramente indicativo di singole elargizioni da ritenersi comprese nell’ampia dizione dell’art. 737 c.c., facente riferimento a tutto ciò che i discendenti o il coniuge hanno ricevuto per donazione, direttamente o indirettamente, e pertanto privo di autonoma portata normativa, perché le elargizioni prevista dalla norma ricadrebbero sotto lo schema generale dell’art. 737 c.c..

  1. E’ incontroverso che la polizza stipulata dal de cuius prevedeva che, in caso di premorienza del contraente rispetto all’assicurato, il posto del contraente fosse preso dall’assicurato medesimo, il quale diveniva beneficiario della polizza per il “caso di vita”.
  2. In conclusione, la fattispecie negoziale, al momento della morte dello stipulante, vedeva B.S. tenuto al conferimento del premio per il “caso di vita”, nell’ipotesi, di fatto verificatasi, di premorienza del contraente rispetto all’assicurato. Lo vedeva inoltre tenuto al conferimento anche per il “caso di morte”, in forza dell’art. 741 c.c., pur essendo egli l’assicurato e non il beneficiario dei vantaggi della polizza, destinati agli eredi di lui, ossia del medesimo B.S.. E’ stato chiarito che, ai fini della collazione e della riunione fittizia, il pagamento dei premi di un’assicurazione per conto di un terzo, è avvicinabile all’adempimento di un obbligo altrui, al quale e’, appunto, apparentato dall’art. 741 c.c..
  3. Nelle polizze vita in genere, anche fuori dall’ambito delle polizze a contenuto finanziario, potrà avvenire che il capitale assicurato si rilevi di fatto inferiore ai premi, che costituiscono in linea di principio l’oggetto del conferimento ex art. 2923 c.c., comma 2. L’obbligo di collazione va precisato nel senso che si deve conferire la minore somma tra l’ammontare dei premi pagati e il capitale, non potendo la collazione avere per oggetto che il vantaggio conseguito dal discendente. Se poi l’evento, condizionante il diritto all’indennizzo, non si sia ancora verificato all’apertura della successione, il discendente è intanto tenuto al conferimento del premio, salva la necessità, in favore del discendente stesso o dei suoi eredi, di procedere a un nuovo conteggio qualora l’indennità si rilevi in seguito inferiore. E’ naturale che l’onere3.di provare conseguimento di un vantaggio minore rispetto al premio, sia a carico del beneficiario o degli eredi di lui subentrati nell’obbligo di conferimento. La Corte d’appello, nel rilevare che B.S. non aveva dato la prova di un arricchimento minore rispetto al premio pagato dal defunto, ha fatto esatta applicazione del generale principio di vicinanza della prova (Cass. n. 9099/2012; n. 8018/2021).
  4. Il quinto motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 737 c.p.c., in relazione all’arto. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

La sentenza è oggetto di censura laddove la corte d’appello ha imposto a carico dell’attuale ricorrente l’obbligo di collazione della somma di Lire 100.000.000. Si sostiene che il principio, applicato dalla sentenza impugnata, circa l’insorgenza automatica dell’obbligo di collazione anche in assenza di apposita domanda, implica pur sempre l’individuazione, ad opera della parte, della specifica donazione da conferire. Il ricorrente rileva che le attrici, nel proporre la domanda, non avevano dedotto alcunché, né avevano lamentato lesione di legittima. In effetti la donazione era stata dedotta dall’attuale ricorrente con la domanda riconvenzionale proposta in primo grado.

Il motivo è infondato. La donazione di denaro, come riconosce la Corte d’appello, era stata ammessa dall’attuale ricorrente in sede di interrogatorio formale. Al cospetto di una tale ammissione la Corte d’appello ha fatto corretta applicazione del principio, consolidato nella giurisprudenza della Corte, secondo cui l’obbligo della collazione sorge automaticamente a seguito dell’apertura della successione e i beni donati devono essere conferiti indipendentemente da una espressa domanda dei condividenti, mentre chi eccepisce un fatto ostativo alla collazione ha l’onere di fornirne la prova (Cass. n. 1159/1995; n. 18625/2010; n. 8507/2011).

  1. Il primo motivo del ricorso incidentale denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1147 e 553 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

La sentenza è oggetto di censura nella parte in cui la corte d’appello ha negato alle legittimarie attrici la qualità di terzi ai fini della prova della simulazione dell’atto di disposizione compiuto dal de cuius, nonostante esse avessero proposto anche domanda di riduzione. Si sostiene che i principi che hanno indotto la Corte di merito a dichiarare inammissibile la domanda operano nella successione testamentaria, non nella successione legittima.

Il motivo è infondato. In relazione agli oneri di deduzione imposti al legittimario che agisce in riduzione, la Corte d’appello ha richiamato il principio secondo “il legittimario che proponga l’azione di riduzione ha l’onere di indicare entro quali limiti sia stata lesa la sua quota di riserva, determinando con esattezza il valore della massa ereditaria nonché quello della quota di legittima violata dal testatore. A tal fine, l’attore ha l’onere di allegare e comprovare tutti gli elementi occorrenti per stabilire se, ed in quale misura, sia avvenuta la lesione della sua quota di riserva (potendo solo in tal modo il giudice procedere alla sua reintegrazione), oltre che di proporre, sia pure senza l’uso di formule sacramentali, espressa istanza di conseguire la legittima, previa determinazione della medesima mediante il calcolo della disponibile e la susseguente riduzione delle donazioni compiute in vita dal de cuium (Cass. n. 1357/2017; n. 14473/2011).

Questo orientamento è stato di recente oggetto di significative precisazioni da parte della recente giurisprudenza della Corte, per la quale “I principi di giurisprudenza sugli oneri di deduzione imposti al legittimario che agisce in riduzione non possono essere intesi nel senso che il legittimario è tenuto a precisare nella domanda la entità monetaria della lesione, ma piuttosto che la richiesta della riduzione di disposizioni testamentarie o donazioni deve essere giustificata alla stregua di una rappresentazione patrimoniale tale da rendere verosimile, anche sulla base di elementi presuntivi, la sussistenza della lesione di legittima” (Cass. n. 17926/2020; n. 18199/2020).

Si chiarisce che, nel proporre la domanda di riduzione, il legittimario, senza l’uso di formule sacramentali, deve denunciare la lesione di legittima; che, a sua volta, la denuncia della lesione implica un confronto fra quanto il legittimario consegue, come erede legittimo o testamentario, e quanto avrebbe diritto di ricevere come erede necessario; che il confronto, per forza di cose, avviene in base a una certa rappresentazione patrimoniale, che il legittimario deve indicare nei suoi estremi essenziali già nella domanda, perché la lesione di legittima deve essere enunciata in termini concreti e non come pura eventualità (Cass. n. 276/1964).

Gli oneri imposti al legittimario che propone l’azione di riduzione si atteggiano allo stesso modo tanto nella successione legittima, quanto nella successione testamentaria; mentre è vero solo che questi oneri subiscono una ulteriore semplificazione nel caso di domanda di riduzione proposta dal legittimario preterito (Cass. n. 5458/2017) e nella ipotesi di domanda di riduzione proposta dal legittimario, erede ab intestato, nel caso di integrale esaurimento del patrimonio mediante donazioni (Cass. n. 16535/2020).

La Corte d’appello, seppure si sia riferita al precedente orientamento della giurisprudenza di legittimità, ha posto l’accento, nello stesso tempo, sulla genericità della domanda di riduzione proposta dalle attuali ricorrenti incidentali. Si evidenzia che, con la stessa domanda non era stata ” addotta alcuna lesione di legittima”. Grazie a tale rilievo, la sentenza impugnata rimane in linea con la giurisprudenza di legittimità anche a volere considerare le precisazioni fatte dalle più recenti pronunce intervenute in materia, che escludono anch’esse l’ammissibilità di domande di riduzione, nelle quali la lesione sia solo genericamente enunciata.

1.1. Con il motivo in esame, le ricorrenti richiamano i principi giurisprudenziali in base ai quali, ai fini della prova della simulazione di atti di disposizione compiuti dal de cuius, il legittimario potrebbe assumere la veste di terzo anche se non sia stata proposta domanda di riduzione e pure in assenza di disposizioni testamentarie (Cass. n. 12317/2019). Il principio è certamente esatto, ma il suo richiamo non giova alla tesi delle ricorrenti incidentali. E’ esatto che la qualità di terzo è riconosciuta al legittimario in quanto tale, anche se non si ponga una questione di riduzione, ma questo non vuol dire che il legittimario, solo perché legittimario, quando impugni per simulazione un atto compiuto dal de cuius, venga a trovarsi sempre e comunque nella veste di terzo e non in quella del contraente (Cass. n. 7134/2001). Perché gli sia riconosciuta la veste di terzo occorre che l’accertamento della simulazione sia richiesto dal legittimario in tale specifica veste, per rimediare a una lesione di legittima, intesa l’espressione in senso ampio, modo da comprendere non solo la reintegrazione in senso proprio, tramite la riduzione della donazione dissimulata, ma anche il recupero all’asse ereditario del bene oggetto di alienazione simulata ovvero di donazione dissimulata nulla per difetto di forma (Cass. n. 8215/2013; n. 19468/2005).

La motivazione data dalla Corte di merito, nella parte in cui ha posto in luce la genericità della deduzione della lesione di legittima, è in linea con la giurisprudenza di legittimità da questo diverso punto di vista.

  1. Il secondo motivo denuncia violazione dell’art. 342 c.p.c., in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio.

Le ricorrenti si dolgono perché la corte d’appello ha ritenuto che non fosse stata da loro impugnata la statuizione del primo giudice nella parte in cui questi aveva ritenuto che fossero stati indicati, nel termine accordato per le deduzioni istruttorie, gli elementi presuntivi idonei a confermare la simulazione della vendita delle quote sociali intercorsa fra il defunto e il figlio. Si sostiene che in appello furono indicati una pluralità di elementi idonei dare corpo all’ipotesi della simulazione.

Il motivo è inammissibile, perché si dirige contro ratio aggiuntiva priva di effettiva incidenza sulla decisione, che si regge interamente sulla riconosciuta mancanza delle condizioni per accordare al legittimario la qualità di terzo: quindi sulla riconosciuta inammissibilità della prova per presunzioni già in linea di principio. Si sa che la censura che investa una considerazione della sentenza impugnata che non abbia spiegato alcuna rilevanza sul dispositivo è inammissibile per difetto di interesse (Cass. n. 10420/2005; n. 8087/2007).

  1. Il terzo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 428 c.c. in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 e omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

E’ oggetto di censura il rigetto della domanda di annullamento, per incapacità naturale del defunto, della vendita di quote sociale intercorsa fra il genitore e B.S.. Si sostiene che, in base agli elementi istruttori, la domanda andava invece accolta, essendo stata raggiunta sia la prova dell’incapacità, sia la prova della mala fede dell’altro contraente.

Il motivo è inammissibile: si censura la valutazione delle prove da parte della Corte d’appello, intendendosi accreditare in questa sede una lettura degli elementi istruttori diversa rispetto a quella compiuta dal giudice di merito (Cass., S.U., n. 34476/2019), che ha dato congrua e adeguata valutazione del proprio convincimento. La Corte d’appello, infatti, ha esaminato la deposizione testimoniale ritenendo che da questa emergessero solo i disturbi e i malesseri tipici dell’età avanzata. Si legge nella sentenza impugnata che “il B. dimenticava dove posava gli oggetti e aveva difficoltà a scrivere e di faceva aiutare, ma dettava gli importi degli assegni e li sottoscriveva, evidenziando, quindi la piena consapevolezza delle proprie scelte e disposizioni”.

Tale apprezzamento, esente da vizi logici o giuridici, è incensurabile in questa sede (Cass. n. 17977/2011; n. 515/2004).

  1. Il quarto motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

La sentenza è oggetto di censura laddove i giudici d’appello hanno negato la natura liberale della intestazione congiunta dei titoli, in nome del de cuius e del figlio B.S., presso la Banca Fideuram. Si richiamano in proposito i principi di giurisprudenza sulla insorgenza automatica dell’obbligo di collazione all’apertura della successione. Tali principi sono intesi dalle ricorrenti incidentali nel senso che spettava al donatario provare l’esistenza di un fatto ostativo alla collazione, mentre la Corte d’appello ha invece posto a carico delle attuali ricorrenti incidentali l’onere di dare la prova di un effetto (la collazione, appunto) che, in base alla giurisprudenza, consegue automaticamente dall’apertura dalla successione.

Il motivo è infondato. Esso è ispirato a una improponibile interpretazione del principio secondo cui “In presenza di donazioni fatte in vita dal de cuius, la collazione ereditaria – in entrambe le forme previste dalla legge, per conferimento del bene in natura ovvero per imputazione – è uno strumento giuridico volto alla formazione della massa ereditaria da dividere al fine di assicurare l’equilibrio e la parità di trattamento tra i vari condividenti, così da non alterare il rapporto di valore tra le varie quote, da determinarsi, in relazione alla misura del diritto di ciascun condividente, sulla base della sommatoria del relictum e del donatum al momento dell’apertura della successione, e quindi garantire a ciascuno degli eredi la possibilità di conseguire una quantità di beni proporzionata alla propria quota. Ne consegue che l’obbligo della collazione sorge automaticamente a seguito dell’apertura della successione (salva l’espressa dispensa da parte del de cuius nei limiti in cui sia valida) e che i beni donati devono essere conferiti indipendentemente da una espressa domanda dei condividenti, essendo sufficiente a tal fine la domanda di divisione e la menzione in essa dell’esistenza di determinati beni, facenti parte dell’asse ereditario da ricostruire, quali oggetto di pregressa donazione. Incombe in tal caso sulla parte che eccepisca un fatto ostativo alla collazione l’onere di fornirne la prova nei confronti di tutti gli altri condividenti” (Cass. n. 15131/2005).

Infatti, tale principio vuol dire che la collazione opera in presenza di donazioni, senza necessità di domanda, incombendo a colui che neghi l’operatività dell’istituto di fornire la prova del fatto impeditivo. Ma, appunto, il principio opera a condizione che risulti l’esistenza di donazioni. Queste, qualora non risultino in modo palese, debbono essere provare da chi le deduce. Insomma, si presume l’obbligo del conferimento della donazione che risulti oggettivamente o sia stata provata, non si presume invece l’esistenza della donazione solo perché ne sia stato chiesto il conferimento. Le ricorrenti intendono invece il principio come se dicesse che chi chieda la collazione può limitarsi a dedurre la esistenza di donazioni, spettando agli altri fornire la prova del contrario: il che, in verità, è conclusione che nessuno ha mai pensato di sostenere.

  1. In conclusione, sono rigettati sia il ricorso principale, sia il ricorso incidentale.

Avuto riguardo alla particolarità della vicenda si ravvisa la sussistenza di giusti motivi per compensare, fra tutte le parti, le spese di lite.

Ci sono le condizioni per dare atto D.P.R. n. 115 del 2002, ex art. 13, comma 1-quater, della “sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente principale e delle ricorrenti incidentali, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto”.

 

P.Q.M.

rigetta il ricorso principale e il ricorso incidentale; dichiara compensate fra tutte le parti le spese del presente giudizio; ai sensi delD.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente principale e delle ricorrenti incidentali, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 10 giugno 2021.

Depositato in Cancelleria il 22 ottobre 2021