Un recente arresto offre lo spunto per ricordare alcuni principi peraltro consolidati nel pensiero giurisprudenziale a proposito del rapporto di conto corrente cointestato (Cassazione Civile, Sez. II, 04 gennaio 2018, n. 77).
In primo luogo la Corte di legittimità ribadisce che nel conto corrente cointestato il rapporto interno fra i vari correntisti cointestatari, vale a dire l’effettiva titolarità della quota spettante a ciascuno di essi sul credito o sul debito risultante dal conto, va regolamentato dall’art. 1298, comma secondo c.c., ai sensi del quale le parti di ciascuno dei debitori e creditori solidali si presumono uguali, a meno che la parte interessata non dimostri che la quota spettante alcuno dei contitolari è maggiore di quella presunta. Pertanto ove la presunzione di parità delle parti non sia superata, ciascun intestatario, nei rapporti interni, non può disporre in proprio favore senza il consenso tacito dell’altro della somma depositata in misura eccedente la quota di sua spettanza, e questo sia in relazione al saldo finale del conto sia in pendenza del rapporto.
Questi in sintesi i principi affermati dalla sentenza.
Sempre per quanto riguarda i rapporti interni tra i cointestatari, peraltro, pare utile ricordare che in caso di morte o di sopravvenuta incapacità di agire di uno dei cointestatari, in caso di conto firme congiunte, non si pongono problemi particolari in quanto gli atti di disposizione continueranno a dover essere compiuti da tutti i cointestatari e da tutti gli eredi .
Nella diversa ipotesi di conto a firme disgiunte – secondo quanto previsto dall’art. 14 delle N.U.B. (Norme Uniforme Bancarie) sui conti correnti di corrispondenza – la morte di uno dei cointestatari del conto non priva gli altri contitolari del diritto di continuare a disporre separatamente del saldo, a meno che uno degli interessati non proponga opposizione.
Testo della sentenza
Corte di Cassazione, sez. II Civile, sentenza 16 novembre 2017 – 4 gennaio 2018, n. 77 Presidente Mazzacane – Relatore Scarpa
Fatti di causa
L’avvocato K.K.D.L.G.T. ha proposto ricorso articolato in sei motivi avverso la sentenza della Corte d’Appello di Roma n. 2654/2013, depositata il 10 maggio 2013, la quale ha rigettato l’impugnazione principale dello stesso K.K.D.L.G.T. ed ha parzialmente accolto l’appello incidentale di K.K.D.L.G.N. contro la pronuncia di primo grado n. 6439/2005 resa dal Tribunale di Roma, condannando N. a pagare al fratello T. la somma di Euro 77.972,01, oltre interessi legali dal 18 marzo 1995 al saldo. K.K.D.L.G.N. resiste con controricorso. K.K.D.L.G.T. , con citazione dell’8 giugno 1999, convenne il fratello N. davanti al Tribunale di Roma, chiedendo che quest’ultimo fosse dichiarato debitore della cifra di Lire 557.245.071, pari alla metà della somma depositata sul conto corrente Cornelio, aperto in cointestazione da K.K.D.L.G.N. e dalla madre C.E. il 26 maggio 1994 presso la banca Merril Lynch S.A., somma abusivamente prelevata dal convenuto. Assunse l’attore che l’iniziale provvista di oltre 900.000.000 di lire versata sul conto cointestato alla sua apertura fosse di esclusiva proprietà della signora C. , la quale aveva comunque poi appreso nell’aprile del 1997 che era stata disposta la chiusura del medesimo conto con autorizzazione recante la propria firma contraffatta, oltre che la firma di N. , e che era stato trasferito il saldo esistente su altro conto corrente denominato (…). L’attore aggiunse che la Banca aveva anche trattenuto in pegno alcuni titoli gestiti sul conto cointestato per la mancata restituzione di un mutuo rilasciato al fratello N. ; di tal che affermò che il debito gravante su N. fosse pari a titoli e contanti disponibili al momento della chiusura, oltre a quelli incamerati dall’istituto per il mutuo rimasto inadempiuto. Il Tribunale accolse la domanda di K.K.D.L.G.T. e condannò il fratello N. a pagare la somma di Euro 155.944,02 (pari alla metà del saldo esistente in base all’estratto al 31 marzo 1995), oltre accessori, ritenendo apocrifa la sottoscrizione di Erminia C. , nonché superata la presunzione di comproprietà delle somme versate sul conto(…). La Corte d’Appello di Roma ha poi respinto l’impugnazione principale di K.K.D.L.G.T. , affermando che “non può essere condivisa la tesi dell’appellante che sostiene che il fratello dovrebbe restituire anche i soldi presi a mutuo, sia perché non è chiaro chi effettivamente fosse la parte mutuataria (considerato sia il tenore della denuncia-querela che il testamento), sia perché in ogni caso non risulta che alla data di chiusura del conto la banca fosse obbligata per ulteriori somme”. La sentenza impugnata ha invece parzialmente accolto l’appello incidentale di K.K.D.L.G.N. , sostenendo che non potesse dirsi superata la presunzione di proprietà comune delle somme cointestate sul conto depositato, non avendo la signora C. provato “la fonte delle ingenti somme depositate sul conto”, e negando rilevanza alle circostanze, al contrario, valorizzate dal Tribunale, quali la vendita di immobili da parte di N. , o la notevole esposizione debitoria di N. verso la madre (Lire 385.000.000), come da assegno emesso da questo in favore della C. , assegno del quale, però, la Corte d’Appello ha detto non esser chiara la causale, aggiungendo che era comunque intenzione della madre rimettere tale debito, stando al testamento del 3 ottobre 1996, poi revocato. Le parti hanno presentato memorie ai sensi dell’art. 378 c.p.c..
Ragioni della decisione
Il primo motivo di ricorso di K.K.D.L.G.T. deduce la violazione degli artt. 112 e 115 c.p.c. (e 111, comma 2, Cost.,) indicando le deduzioni istruttorie avanzate dal ricorrente per superare la presunzione di comproprietà delle somme esistenti sul conto corrente cointestato (trascritte nella parte espositiva del ricorso) e rimaste senza risposta nella sentenza impugnata. Il secondo motivo di ricorso di K.K.D.L.G.T. denuncia l’omesso esame di fatti controversi e decisivi, facendo riferimento sempre ai fatti che avrebbero consentito di superare la presunzione di comproprietà. Il terzo motivo di ricorso di K.K.D.L.G.T. allega ancora un omesso esame di fatti anche in relazione all’art. 115 c.p.c., quanto all’affermazione della Corte d’Appello di Roma secondo cui “non è chiaro chi effettivamente fosse la parte mutuataria (considerato sia il tenore della denuncia-querela che il testamento)”, e “in ogni caso non risulta che alla data di chiusura del conto la banca fosse obbligata per ulteriori somme”. Il quarto motivo di ricorso denuncia l’omesso esame di fatti anche in relazione agli artt. 2727 e ss. c.c. ed all’art. 115 c.p.c., quanto alle “vendite” di proprietà immobiliari compiute da N. , che avrebbero potuto alimentare la provvista sul conto cointestato. Il quinto motivo di ricorso allega la violazione degli artt. 2727 2729 c.c., circa l’uso delle presunzioni fatto dalla Corte d’Appello. Il sesto motivo di ricorso censura l’omesso esame quanto alla documentazione allegata alla lettera della Merryl Linch del 22 aprile 1997, che negava qualsiasi versamento di somme sul conto (…) dopo quello iniziale. Il settimo motivo di ricorso deduce la violazione degli artt. 112 e 115 c.p.c., in quanto lo stesso convenuto K.K.D.L.G.N. si era difeso già nel costituirsi in primo grado senza allegare di aver in qualche modo alimentato la somma depositata sul conto cointestato. I sette motivi di ricorso vanno esaminati congiuntamente per la loro connessione e si rivelano fondati nei limiti di seguito precisati. Va premesso come l’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., riformulato dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, applicabile nella specie ratione temporis, abbia introdotto nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni degli artt. 366, comma 1, n. 6, e 369, comma 2, n. 4, c.p.c., il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie. Non di meno, pur dopo tale riformulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., rimane denunciabile in cassazione l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (Cass. Sez. U, 07/04/2014, n. 8053). La sentenza della Corte d’Appello di Roma risulta allora strutturata su una motivazione apparente, o comunque obiettivamente incomprensibile, in quanto essa ha respinto l’impugnazione principale di K.K.D.L.G.T. e parzialmente accolto l’appello incidentale di K.K.D.L.G.N. , senza rendere percepibile il fondamento della decisione, precludendo all’attuale ricorrente la possibilità di assolvere l’onere probatorio su di esso gravante e ricorrendo ad argomentazioni inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento. Riformando sul punto la decisione del Tribunale, la Corte d’Appello ha ritenuto non superata la presunzione di proprietà comune delle somme cointestate sul conto depositato, non avendo la signora C. provato “la fonte delle ingenti somme depositate sul conto”; la Corte di Roma ha poi negato rilevanza alle circostanze dell’avvenuta vendita di immobili da parte di K.K.D.L.G.N. , della notevole esposizione debitoria del medesimo N. verso la madre (documentata da assegno di Lire 385.000.000), e della soggezione di N. a numerose procedure esecutive, anche da parte della stessa C. . Di conseguenza, la Corte d’Appello ha diviso tra i due correntisti cointestatari il saldo attivo esistente sul conto al 31 marzo 1995. Quanto alla vicenda che la Banca avesse incamerato alcuni titoli gestiti sul conto cointestato in conseguenza della mancata restituzione di un mutuo rilasciato a N. e garantito con gli stessi titoli, la Corte d’Appello ha sostenuto che “non è chiaro chi effettivamente fosse la parte mutuataria” e che “in ogni caso non risulta che alla data di chiusura del conto la banca fosse obbligata per ulteriori somme”. La causa va sottoposta a nuovo esame, dovendo la Corte d’Appello uniformarsi ai principi più volte ribaditi da questa Corte, secondo cui nel conto corrente bancario intestato a più persone, i rapporti interni tra correntisti, anche aventi facoltà di compiere operazioni disgiuntamente, sono regolati non dall’art. 1854 c.c., riguardante i rapporti con la banca, bensì dal secondo comma dell’art. 1298 c.c., in virtù del quale debito e credito solidale si dividono in quote uguali solo se non risulti diversamente; ne consegue che, ove il saldo attivo risulti discendere dal versamento di somme di pertinenza di uno solo dei correntisti, si deve escludere che l’altro possa, nel rapporto interno, avanzare diritti sul saldo medesimo. Peraltro, pur ove si dica insuperata la presunzione di parità delle parti, ciascun cointestatario, anche se avente facoltà di compiere operazioni disgiuntamente, nei rapporti interni non può disporre in proprio favore, senza il consenso espresso o tacito dell’altro, della somma depositata in misura eccedente la quota parte di sua spettanza, e ciò in relazione sia al saldo finale del conto, sia all’intero svolgimento del rapporto (cfr. Cass. Sez. 2, 02/12/2013, n. 26991; Cass. Sez. 2, 19/02/2009, n. 4066; Cass. Sez. 1, 01/02/2000, n. 1087; Cass., Sez. 1, 09/07/1989, n. 3241). Al fine, allora, di ritenere non superata la presunzione di comproprietà in relazione al conto corrente (…), cointestato a K.K.D.L.G.N. ed alla madre C.E. , occorrerà spiegare perché, a fronte delle deduzioni istruttorie di K.K.D.L.G.T. , risulti non provato che i versamenti fossero stati compiuti con denaro appartenente soltanto alla C. . D’altro canto, deve essere accertato e spiegato se sussista, o meno, pur a fronte della presunzione derivante dalla cointestazione del conto, la dedotta (da K.K.D.L.G.T. ) assoluta estraneità di C.E. all’operazione di costituzione in pegno di titoli, gestiti sul conto, in favore della banca mutuante Merryl Linch a garanzia del rimborso di un finanziamento erogato a K.K.D.L.G.N. , in quanto tale prospettazione renderebbe non riferibile solidalmente la movimentazione, e la relativa esposizione debitoria, al saldo del conto corrente. In conclusione, in accoglimento del ricorso, la sentenza impugnata deve essere cassata, con conseguente rinvio, anche per le spese del presente giudizio, ad altra sezione della Corte di Appello di Roma per una nuova delibazione, sulla base dei principi di diritto sopra enunciati e dei rilievi svolti.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa ad altra sezione della Corte d’appello di Roma anche per la pronuncia sulle spese del giudizio di cassazione.