Categoria: Responsabilità professionale e d’impresa

L’obbligo di vigilanza del direttore dei lavori deve essere esplicato in corso d’opera oppure può bastare l’intervento ad opera ultimata?

 

La sentenza ( Cass. Civ. sez. III, 24 maggio 2023, n. 14456  ) che si segnala consente di fare luce anche sulla modalità di svolgimento dell’opera del Direttore lavori, laddove la Corte era chiamata decidere se sia sufficiente un suo intervento alla fine dei lavori per la verifica dell’opera oppure se la contestazione all’appaltatore di eventuali vizi o difetti dell’opera debba avvenire nel corso dei lavori.

Il principio di diritto che si estrapola dalla pronuncia può essere sintetizzato come segue:

In tema di appalto, l’obbligo del direttore dei lavori di controllare che la realizzazione delle opere avvenga secondo le regole dell’arte – dovendo attuarsi in relazione a ciascuna delle fasi di realizzazione delle stesse opere e al fine di garantire che queste ultime siano realizzate senza difetti costruttivi – sussiste in corso d’opera e non ex post, ad opere ultimate.”

IL CASO. I committenti di un appalto convennero in giudizio l’impresa appaltatrice per sentirla condannare al risarcimento dei danni per vizi dei lavori di costruzione di un immobile di loro proprietà, nonché al pagamento dei danni per ritardata ultimazione degli stessi lavori.

L’impresa convenuta si costituì, chiedendo la chiamata in causa del direttore dei lavori per essere dallo stesso manlevata, risultando i ritardati tempi di consegna conseguenti a carenze nella progettazione.

Il giudice di primo grado accoglieva parzialmente la domanda attorea, ritenendo responsabile anche il direttore dei lavori per non aver mosso contestazioni all’appaltatore con riferimento ai vizi di costruzione accertati.

La Corte di Appello riformava la sentenza di primo grado, relativamente alla posizione del direttore dei lavori, sul rilievo che “a distanza di circa un mese dalla consegna dei lavori, aveva contestato tali difetti all’appaltatrice in tre distinti verbali di contestazioni”.

Proposto ricorso in Cassazione da parte dei committenti, i giudici di legittimità osservano che il dovere di vigilanza del direttore dei lavori deve manifestarsi in corso d’opera, ritenendo quindi irrilevanti le contestazioni postume.

Per la lettura della sentenza segue qui 

Per i vizi dell’opera rispondono in via solidale l’appaltatore e il direttore dei lavori?

 

Cassazione civile sez. II – 19/07/2022 n. 22575

L’annotata ordinanza della Sprema Corte ha affermato il seguente principio: “ qualora il danno subito dal committente rientri nell’ambito dell’articolo 1669 c.c., e sia conseguenza dei concorrenti inadempimenti dell’appaltatore e del direttore dei lavori “entrambi rispondono solidalmente dei danni, essendo sufficiente, per la sussistenza della solidarieta’, che le azioni e le omissioni di ciascuno abbiano concorso in modo efficiente a produrre l’evento, a nulla rilevando che le stesse costituiscano autonomi e distinti fatti illeciti, o violazioni di norme giuridiche diverse” (Cass. 18521/2016), trovando il vincolo di responsabilita’ solidale “fondamento nel principio di cui all’articolo 2055 c.c.” (Cass. 18289/2020)”

IL CASO.  A rivolgersi agli ermellini è la ditta appaltatrice chiamata in causa dall’architetto direttore dei lavori in uno stabile.
Il condominio assumeva che i lavori erano stati mal eseguiti e chiedeva un cospicuo risarcimento.
Il direttore dei lavori faceva notare tra l’altro che l’azione di risarcimento era stata avanzata dal condominio solo nei suoi confronti, non della ditta esecutrice, che si difendeva assumendo di non essere tenuta al vincolo di solidarietà nei confronti del direttore dei lavori esterno.
Secondo la Corte la diversa natura contrattuale delle due prestazioni non incide quando entrambe le attività possono concorrere alla produzione del danno.
Non incide neppure il dato della scarsa presenza del direttore dei lavori nel cantiere. Indipendentemente dalla frequenza dei controlli, il direttore dei lavori avrebbe potuto contestare le modalità esecutive dell’opera rispetto al progetto anche con un’unica visita all’interno dell’edificio.
Responsabilità condivisa quindi e risarcimento da corrispondere al condominio danneggiato.
E il ruolo dell’amministratore? Il contratto di appalto è deciso dall’assemblea condominiale e l’amministratore deve curare la sua esecuzione, in base all’articolo 1130 del Codice civile non trascurando gli articoli 90 e 93 del decreto legislativo 81/2008 sulla sicurezza sul lavoro che obbligano il committente a verificare l’idoneità tecnica professionale della ditta appaltatrice e ad acquisirne la relativa visura camerale e il Durc, il documento unico di regolarità contributiva.
Attenzione soprattutto al contratto: l’appaltatore deve eseguire i lavori a regola d’arte, in conformità al contratto d’appalto, capitolati, computi metrici, normative in tema di sicurezza del lavoro.
Nell’ambito dei lavori del 110% e comunque dei bonus edilizi si devono verificare e collaudare gli interventi alla presenza dell’appaltatore, del committente e/o del direttore dei lavori, in occasione dei vari Sal (stati avanzamento lavori) da inviare all’Enea e all’agenzia delle Entrate.
Verifica che può portare ad accettazione dei lavori senza riserve, ad accettazione con riserva per riscontrati vizi o difetti o a una dichiarazione di non accettazione.
In questi due ultimi casi, vanno indicate le motivazioni, supportate da idonea documentazione.
In caso di riscontrati vizi e/o difetti imputabili all’appaltatore, lo stesso dovrà porvi rimedio.
Gli amministratori committenti devono prestare attenzione alle clausole contrattuali che escludono le responsabilità dell’appaltatore per danni indiretti, che escludono o limitano le eventuali garanzie di risultato (performance) indicate nel contratto e negli allegati, o che escludono responsabilità per ogni mancato guadagno e/o perdita per mancata e/o limitata commerciabilità e/o redditività degli immobili oggetto dei lavori.

 

Il testo della sentenza

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI VIRGILIO    Rosa Maria                    –  Presidente   –

Dott. GRASSO         Giuseppe                      –  Consigliere  –

Dott. ABETE          Luigi                         –  Consigliere  –

Dott. DONGIACOMO     Giuseppe                      –  Consigliere  –

Dott. BESSO MARCHEIS Chiara                   –  rel. Consigliere  –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 13395/2017 proposto da:

B.G., TITOLARE DI IMPRESA S. di  B.G.,

elettivamente domiciliato in ROMA,

– ricorrente –

contro

CONDOMINIO (OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro

tempore elettivamente domiciliato in ROMA,

– controricorrente –

e contro

R.G.S., elettivamente domiciliato in ROMA, V

– controricorrente e ricorrente incidentale –

avverso la sentenza n. 826/2017 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 27/02/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

25/02/2022 dal Consigliere CHIARA BESSO MARCHEIS.

PREMESSO IN FATTO

CHE

  1. Il Condominio di (OMISSIS) conveniva in giudizio l’architetto R.G.S., direttore dei lavori di manutenzione straordinaria effettuati nello stabile condominiale, al fine di ottenerne la condanna al risarcimento dei danni asseritamente collegati agli eseguiti interventi. Si costituiva l’architetto R. chiamando in causa B.G., quale titolare della ditta individuale S. di B.Gche aveva eseguito i lavori, chiedendo che, in caso di accertamento dei vizi lamentati dall’attore e in considerazione dell’addebitabilità degli stessi all’appaltatore, questo fosse condannato a indennizzarlo della eventuale condanna. Si costituiva B., che eccepiva come rispetto ai vizi denunciati fossero ormai decorsi i termini di cui agli artt. 1667,1668 e 1669 c.c.; il chiamato evidenziava anche l’avvenuto svolgimento di un giudizio arbitrale da egli instaurato per ottenere il pagamento da parte del Condominio di ulteriori lavori non previsti nel contratto, giudizio arbitrale che si era concluso con l’accoglimento della sua domanda e il rigetto delle domande riconvenzionali del Condominio relative alla “cattiva esecuzione” del contratto d’appalto.

Il Tribunale di Milano, con sentenza n. 3070/2015, ha parzialmente accolto la domanda del Condominio e, accertato l’inadempimento del convenuto all’incarico professionale, lo ha condannato al risarcimento del danno quantificato in Euro 64.073,30; ha poi parzialmente accolto la domanda di regresso dell’architetto R. e ha condannato l’appaltatore a tenerlo indenne nella misura del 70%.

  1. La sentenza è stata impugnata in via principale da B.; R. ha impugnato in via incidentale, chiedendo di accertare la responsabilità esclusiva dell’appaltatore. La Corte d’appello di Milano con sentenza 27 febbraio 2017, n. 826 – ha rigettato sia l’appello principale che quello incidentale.
  2. Avverso la sentenza della Corte d’appello B.G. ricorre per cassazione.

Resiste con controricorso R.G.S., che propone ricorso incidentale.

Resiste con distinti atti di controricorso avverso il ricorso principale e quello incidentale il Condominio di (OMISSIS).

Il ricorrente incidentale ha depositato memoria.

Con atto datato 2 aprile 2021 il difensore di B. ha comunicato di avere rinunciato al mandato conferitogli; con atto del 21 luglio 2021 si è costituito il nuovo difensore.

 

CONSIDERATO IN DIRITTO

CHE:

  1. Il ricorso principale è articolato in quattro motivi, che ripropongono doglianze già sottoposte al giudice d’appello con i motivi di gravame.

1) Il primo motivo contesta “violazione del divieto del ne bis in idem, violazione del pur riconosciuto obbligo di astenersi dal deliberare intorno alla responsabilità del deducente nei confronti del Condominio, in relazione al compromesso e al lodo munito di esecutorietà”: il giudice d’appello ha ritenuto che gli effetti del lodo non fossero opponibili a R. perché la decisione arbitrale non poteva vincolarlo, ma “i fatti accertati nel lodo, per quanto circoscritti all’attività dell’impresa appaltatrice, sono estensibili al direttore dei lavori, il quale potrà giovarsi in giudizio, salvo ove ci fosse la responsabilità di quest’ultimo nell’espletamento dell’incarico assegnatogli dal Condominio, la quale del resto è oggetto di precisa domanda nei suoi confronti”; rileva quindi la netta distinzione tra le responsabilità dell’appaltatore e del direttore dei lavori, evidentemente dipendenti da due negozi distinti.

2) Il secondo motivo contesta “violazione degli artt. 99,100 e 101 c.p.c., per avere il giudice proceduto ad autonoma qualificazione della domanda proposta dal convenuto nei confronti dell’impresa; violazione degli artt. 88,100 e 101 c.p.c., per avere il giudice di prime cure qualificato la domanda proposta dal Condominio addirittura contra dicta e quindi contro la proclamata volontà dell’interessato”: il Condominio non ha mai avanzato alcuna domanda nei confronti dell’impresa appaltatrice, avendo agito in giudizio nei confronti del solo direttore dei lavori “per fatti propri”.

3) Il terzo motivo fa valere “violazione degli artt. 1292 e 2055 c.c., per avere la Corte d’appello asserito l’esistenza di responsabilità solidale e di conseguente regresso a favore del preteso coobbligato, senza avere competenza per delibare sulla responsabilità del deducente nei confronti del Condominio”: nel caso di specie non vi è alcuna responsabilità solidale tra il direttore dei lavori e l’appaltatore, con conseguente inapplicabilità dell’art. 2055 c.c..

4) Il quarto motivo contesta, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, “mancata delibazione in ordine alle numerose eccezioni preliminari e di merito spiegate dal deducente, che è andato oltre le eccezioni preliminari ed aveva ritualmente proposto eccezioni di prescrizione e di infondatezza delle pretese spiegate nei suoi confronti”: la Corte d’appello, nel rigettare il motivo di gravame, sarebbe partita da un presupposto “fuorviante”, ossia che l’azione nei confronti dell’impresa appaltatrice non è stata proposta dal Condominio, ma dal direttore dei lavori, quando ciò che rileva sarebbe che “il Condominio si è astenuto dal rivolgere qualunque domanda nei confronti del deducente”, fatto decisivo che sarebbe stato omesso dal giudice d’appello.

I motivi, tra loro strettamente connessi, non possono essere accolti. Il terzo motivo nega la sussistenza del vincolo di solidarietà tra il direttore dei lavori e l’appaltatore e l’inapplicabilità dell’art. 2055 c.c., negazione della solidarietà che è sottesa anche al secondo, al primo e al quarto motivo. Il ricorrente in tal modo non considera che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, qualora il danno subito dal committente rientri nell’ambito dell’art. 1669 c.c., e sia conseguenza dei concorrenti inadempimenti dell’appaltatore e del direttore dei lavori come nel caso in esame ha accertato il giudice d’appello (cfr. le pp. 10 e 11 del provvedimento impugnato) – “entrambi rispondono solidalmente dei danni, essendo sufficiente, per la sussistenza della solidarietà, che le azioni e le omissioni di ciascuno abbiano concorso in modo efficiente a produrre l’evento, a nulla rilevando che le stesse costituiscano autonomi e distinti fatti illeciti, o violazioni di norme giuridiche diverse” (Cass. 18521/2016), trovando il vincolo di responsabilità solidale “fondamento nel principio di cui all’art. 2055 c.c.” (Cass. 18289/2020), “a nulla rilevando in contrario la natura e la diversità dei contratti cui si ricollega la responsabilità”, essendo sia l’appaltatore che il direttore dei lavori, con le rispettive azioni od omissioni, “entrambi autori dell’unico illecito extracontrattuale, e perciò rispondendo, a detto titolo, del danno cagionato” (Cass. 8016/2012); infatti le attività dell’appaltatore come quella del direttore dei lavori “pur essendo i contratti ai quali si ricollegano di diverse. natura possono concorrere tutte alla produzione del danno, con la conseguenza che gli indicati soggetti (indipendentemente dalla graduazione delle rispettive colpe nei rapporti interni) sono tenuti a risarcire integralmente i danneggiati” (Cass. 4900/1993).

Per quanto concerne specificamente la censura, di cui al primo motivo, di violazione del ne bis in idem in relazione al lodo reso nel giudizio arbitrale, correttamente la Corte d’appello ha rilevato che l’architetto R. era estraneo al contratto d’appalto e pertanto la clausola compromissoria a questo apposto non poteva vincolarlo e il lodo non poteva avere nei suoi confronti alcun effetto. Al riguardo va precisato che il titolare dell’impresa appaltatrice è stato chiamato in causa con la proposizione nei suoi confronti dell’azione di regresso da parte del direttore dei lavori (come puntualizza la Corte d’appello, correttamente e non in modo “fuorviante” come deduce il ricorrente nel quarto motivo) e che l’art. 1306 c.c., si applica nei soli rapporti tra creditore e coobbligato solidale e non ai rapporti di regresso tra i vari condebitori. Ne consegue che nell’azione di regresso del condebitore nei confronti dell’altro coobbligato, il coobbligato convenuto (il ricorrente) non può “opporre altro e contrastante giudicato, col quale sia stata rigettata la pretesa creditoria nei suoi confronti” (Cass. 16117/2013).

Il ricorso principale va pertanto rigettato.

  1. Il ricorso incidentale è articolato in due motivi.

1) Il primo motivo denuncia “violazione e falsa applicazione dell’art. 1669 c.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 5, per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione in ordine alla mancata sorveglianza dei lavori eseguiti dall’impresa appaltatrice”.

Il motivo non può essere accolto. In rubrica, anzitutto, viene richiamato un parametro – l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione – non applicabile ratione temporis alla fattispecie. Nello sviluppo del motivo si lamenta poi che la Corte d’appello abbia “del tutto ignorato” dati di fatto che confuterebbero l’assunto della mancata vigilanza sui lavori da parte di R., dati di fatto di cui non si ravvisa il carattere della decisività alla luce dell’accertamento di fatto posto in essere dal giudice d’appello, secondo cui, “indipendentemente dalla frequenza in cantiere di R., quello che è certo è che non risulta alcun intervento da parte sua volto alla contestazione delle modalità esecutive dell’opera anche per la parte non rispondente a progetto” (p. 12 della sentenza impugnata). Nella parte finale del motivo, infine, si contesta che il ricorrente, pur non avendo alcuna responsabilità per i vizi lamentati o comunque una responsabilità pari solo al 30%, sia stato condannato al risarcimento integrale in favore del Condominio, così non considerando la solidarietà della responsabilità dell’appaltatore e del direttore dei lavori (supra, sub I).

2) Il secondo motivo contesta “violazione e falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c., omessa motivazione in ordine alla condanna al pagamento delle spese processuali dei due gradi di giudizio”: il ricorrente non doveva essere condannato al pagamento delle spese in favore del Condominio, in quanto il processo “non è causalmente riconducibile ad alcun suo comportamento”.

Il motivo non può essere accolto. Il ricorso per cassazione è infatti rivolto nei confronti della pronuncia del giudice di secondo grado, che ha integralmente rigettato l’appello incidentale di R., così che – in corretta applicazione dell’art. 91 c.p.c. – ha condannato quest’ultimo al pagamento delle spese in favore del Condominio.

Il ricorso incidentale va quindi rigettato.

III. Considerata la reciproca soccombenza vanno compensate le spese tra i due ricorrenti, che vanno condannati in solido al rimborso delle spese del giudizio di legittimità nei confronti del Condominio.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente principale e di quello incidentale, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

 

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso principale e quello incidentale, compensa le spese del presente giudizio tra il ricorrente principale e il ricorrente incidentale e condanna i ricorrenti in solido al pagamento delle spese in favore del controricorrente, che liquida in Euro 5.800, di cui Euro 200 per esborsi, oltre spese generali (15%) e accessori di legge.

Sussistono,D.P.R. n. 115 del 2002, ex art. 13, comma 1 quater, i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente principale e di quello incidentale, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella adunanza camerale della Sezione Seconda Civile, il 25 febbraio 2022.

Depositato in Cancelleria il 19 luglio 2022

L’estraneo, vittima di un sinistro occorsogli nei locali d’imprea, risponde a titolo di concorso di colpa?

I casi del nostro Studio

Tribunale ordinario di Modena, sezione civile II, sentenza n. 716/2019 del 12.04.2019

Il giudice territoriale, con la pronuncia che si annota, ha enunciato il seguente principio: “.. nei casi in cui il danno non sia l’effetto di un dinamismo interno alla cosa, scatenato dalla sua struttura o dal suo funzionamento (es. scoppio della caldaia, scarica elettrica, crollo per cedimento di strutture o simili), ma richieda che l’agire umano, ed in particolare quello del danneggiato, si unisca al modo di essere della cosa, essendo essa di per sé statica e inerte, per la prova del nesso causale occorre dimostrare che lo stato dei luoghi presentava un’obiettiva situazione di pericolosità, tale da rendere molto probabile, se non inevitabile, il danno.”

IL CASO. Con atto di citazione regolarmente notificato X conveniva in giudizio Y per accertare che l’infortunio ( trauma da schiacciamento agli arti inferiori causato da una pesante trave durante una manovra) subito da X in data 04/06/2014, nei locali dell’officina gestita dal convenuto Y, andava ascritto a fatto e colpa dello stesso Y, con conseguente condanna del responsabile al risarcimento del danno cagionato da cosa in custodia ex art. 2051 c.c., o da esercizio di attività pericolosa ex art. 2050 c.c., ovvero e comunque per fatto illecito ex art. 2043 c.c. .
Il Tribunale, affermata la responsabilità per colpa di Y ex art 2051 cc, lo condannava a corrispondere a X, a titolo di risarcimento del danno, la somma di € 130.753,35 oltre alle spese processuali.
L’appello proposto da Y è stato respinto dalla Corte d’Appello di Bologna con sentenza n. 1843 in data 14/09/2022,che ha confermato ogni statuizione del giudice di primo grado.
Nel motivare a proposito dell’eccepito concorso di colpa della vittima del sinistro, il Giudice ha ritenuto di escludere la compartecipazione della vittima in virtù del principio enunciato, peraltro condiviso da altre pronunce dello stesso Tribunale (tra le quali Trib. Modena 11/102017, sentenza n. 1778; Trib. Modena 11/12/2017, n. 2169; Trib. Modena 5/9/2017, n. 1497).
Nella fattispecie, il giudice ha ritenuto che mentre il danneggiato aveva dato prova del nesso causale tra la cosa in custodia ( la trave) e l’evento lesivo, non era stato in alcun modo provato l’assunto di parte convenuta che il danno provocato dalla trave fosse conseguenza di un’attività e di un’iniziativa autonoma ed indipendente dello stesso danneggiato, ovvero di terzi, svolta nell’azienda del convenuto contro la sua volontà; risultando provato, se mai, il contrario. Per vincere la presunzione di responsabilità del custode, infatti, questi ai fini della prova liberatoria, aveva l’onere di indicare e provare la causa del danno estranea alla sua sfera di azione (caso fortuito, fatto del terzo, colpa del danneggiato, dotati di impulso causale autonomo).

Testo integrale della sentenza:

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Tribunale Ordinario di Modena

SEZIONE SECONDA CIVILE

Il Giudice istruttore dott. Giuseppe Pagliani, in funzione di giudice unico, ha pronunciato la seguente

SENTENZA

Nella causa iscritta al no III 18/2015 R. G. promossa da

X

– Attore –

rappresentato e difeso dall’Avv. Giovanni Orlandi del Foro di Reggio Emilia

CONTRO

Y                                                                                                                              – Convenuto –

rappresentato e difeso dall’Avv. Z del Foro di Modena;

in punto a: risarcimento danni.

All’udienza del 12/2/19 la causa è stata assegnata a decisione, con termine fino al 15/10/13 per il deposito di comparse conclusionali, e fino al 31/3/19 per il deposito di repliche, sulle conclusioni precisate dalle parti come di seguito.

Per parte attrice:

“Piaccia all ‘Ill.mo Tribunale adito, contrariis reictis In via principale

a) accertare, per le causali enunciate in narrativa dell’atto di citazione, che l’infortunio subito da X in data 04/06/2014, presso l’immobile sito in Via Beta, è ascrivibile a fatto e colpa di Y, e dichiarare tenuto Y a risarcire il danno cagionato da cosa in custodia ex art. 2051 c.c., o il danno da esercizio di attività pericolosa ex art. 2050 c.c., ovvero e comunque per fatto illecito ex art. 2043 c.c. e/o per qualunque altro titolo di responsabilità;

b) per l’effetto condannare Io stesso Y al risarcimento, in favore di X, di tutti i danni patrimoniali e non patrimoniali, patiti dallo stesso X a causa dell’incidente occorso, incluso l’equivalente monetario per la perdita di capacità lavorativa specifica, e quindi al pagamento della somma di € 230.000,00 0 di quella somma maggiore o minore che sarà accertata, provata e liquidata in corso di causa, oltre a maggior danno da ritardato pagamento, a rivalutazione monetaria ed interessi legali dal dì dell ‘evento al giorno in cui avverrà l’effettivo saldo;

c) confermare il provvedimento di sequestro conservativo pronunciato in data 03.11.2015 in favore di X e nei confronti di Y.

Con vittoria di spese e compensi professionali, anche per la fase cautelare, nonché delle spese di CTU e di CTP eventuali.

In via istruttoria meramente subordinata:

a) l’attore chiede che il Giudice voglia ordinare e/o comunque disporre, ai sensi degli artt. 210, 212 e 213 c.p.c., alla Centrale Operativa del 118, presso la Direzione Medica dell ‘Ospedale Maggiore di Bologna, l’esibizione delle registrazioni inerenti le comunicazioni effettuate da parte del Pronto Intervento (118), in data 04.06.2014, in seguito all’incidente occorso al signor X nonché le relative trascrizioni.

Sul punto giova osservare che l’accesso alle registrazioni de quibus può essere utile per raccogliere elementi utili al fine di ricostruire la dinamica dell ‘incidente occorso all’attore. Vedansi in proposito la comunicazione trasmessa via PEC da parte della Direzione medica di Bologna in risposta alla richiesta avanzata dallo scrivente procuratore (cfr. doc. n. 25 e 26, 26b, 26c).

b) Nell ‘eventualità e nel caso in cui all ‘esito delle prove orali permangano incertezze, l’attore insta affinché il Giudice voglia disporre una CTU ai fini della ricostruzione e descrizione della dinamica del sinistro. In via alternativa chiede che il Giudice voglia disporre un sopralluogo nei locali dove è avvenuto I ‘incidente”;

per parte convenuta:

“In via principale e di merito: accertare e dichiarare che non sussiste alcuna responsabilità in capo al Sig. Y per l’evento dannoso verificatosi in data 4.6.2014 ai danni del Sig. X, anche in ragione del caso fortuito che provocò la caduta della trave, e per gli effetti rigettare la domanda di parte attrice poiché infondata in fatto ed in diritto per i motivi sopra esposti, ovvero, comunque poiché i fatti asseriti dall ‘attore non risultano accertati e provati, con conseguente decadenza del provvedimento autorizzativo del sequestro conservativo concesso con ordinanza del Tribunale di Modena del 3.11.2015.
In via subordinata: nella denegata e non creduta ipotesi di accoglimento, anche solo parziale, della domanda di risarcimento danni proposta dal Sig. Y, accertare e dichiarare il concorso di colpa del Sig. X nella causazione del danno ex art. 1227 c.c. e, conseguentemente, diminuire il risarcimento secondo la gravità della colpa sulla base delle risultanze di causa, tenendo comunque conto della percentuale di invalidità preesistente, ovvero, in mancanza, in via equitativa o in extrema ratio ex art. 2055 c.c., escludendo in ogni caso la perdita di capacità lavorativa, e per gli effetti dichiarare la decadenza del provvedimento autorizzativo del sequestro conservativo concesso con ordinanza del Tribunale di Modena del 3.11.2015.

In ogni caso: con vittoria di spese, competenze ed onorari anche della fase di sequestro conservativo, dell ‘eventuale CTU e di CTP”.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. Come da atti di causa e relativo verbale d’udienza.

MOTIVI DELLA DECISIONE

2. Preliminarmente va rilevato che la presente decisione interviene dopo le modifiche apportate agli artt. 132 C.P.C. e 118 disp. att. C.P.C. ad opera della legge no 69/2009 e, pertanto, la redazione della sentenza avviene in conformità alle nuove previsioni normative che impongono di esporre in modo succinto i fatti rilevanti della causa e le ragioni giuridiche della decisione. Sempre preliminarmente, va ricordato che ai sensi del combinato disposto del decreto-legge 6 giugno 2012, n. 74, coordinato con la legge di conversione 1 0 agosto 2012, n. 122, e della successiva L. 7 dicembre 2012, n. 213, i termini per il deposito di conclusionali e repliche sono rimasti sospesi per legge fino al 30/6/2013.

3. L’attore in data 4/6/2014 si trovava all’interno della proprietà del convenuto, suo amico, e subiva un trauma da schiacciamento agli arti inferiori -con frattura femore dx e grave ischemia acuta dell’arto inferiore sin da trombosi traumatica dell’arteria femorale superficiale- a causa di una trave, che veniva rinvenuta dagli operatori di pronto soccorso nell’immediatezza dei fatti. I testi (ud. 22/2/18) hanno, infatti, confermato tale circostanza. In particolare uno dei testi sul cap 18 (Vero che a fianco Di X v’era una trave metallica sulla quale si notavano macchie di sangue?)- ha dichiarato: <<è vero ma ricordo che la trave fosse di legno e particolarmente pesante>>; l’altro teste ha dichiarato: <<vero ricordo che la trave era di metallo particolarmente pesante>>.
In primo luogo, quindi, è accertato che l’attore si è infortunato nella proprietà del convenuto e per effetto di una trave ivi presente. Le caratteristiche precise della trave non sono note e la stessa non è stata esaminata per l’intervento del convenuto, come risulta dalla testimonianza della teste figlia dell’attore, che sul cap. 26 -(Vero che il giorno dopo l’infortunio la trave è stata rimossa e spostata altrove da parte di Y?)- ha dichiarato: <<lo stessa ho chiesto a Y andando nel suo capannone ed egli mi ha detto che aveva già fatto sparire la trave>>.
L’unica certezza che rimane, quindi, è che la trave era molto pesante. Oltre al fatto che era di Y, e  X non se l’era certo portata con sé andando nel capannone del convenuto: è lo stesso convenuto ad allegare -cfr. comparsa conclusionale, pag. 5- che la trave “era stata posizionata in quel posto alcuni mesi prima dal Sig. Y DA SOLO, senza l’ausilio di nessuno”.

4. Altre certezze sulla dinamica non ve ne sono. L’attore fornisce una versione dei fatti che viene contestata dal convenuto. L’attore allega in atto di citazione che <<usciva dalla propria abitazione che è situata difronte ad un piccolo capannone… condotto in locazione dal signor Y… titolare dell’omonima impresa artigiana… il quale esercita in quei locali l’attività di carrozziere riguardante automezzi, quali pullman, autocarri ed automobili in genere, e attività meccanica in generale…, con l’intento di recarsi al bar limitrofo per un caffè. Fatti pochi passi…veniva invitato da Y ad entrare nel capannone dove esercitava la sua attività perché aveva bisogno d’aiuto per un lavoro di manovalanza (…) che conosceva Y da tempo per ragioni di vicinato, a mero titolo di cortesia, si rendeva disponibile a collaborare. L’artigiano aveva intenzione di sollevare una pesante trave metallica, afferente un ponte sollevatore installato all’interno dei locali d’impresa. Y spiegava all’attore che era sua intenzione sollevare la trave, che pesava all’incirca quattro quintali, per metterla in posizione verticale. A tal fine intendeva avvalersi di una sorta di muletto manuale al quale aveva fissato un cavo che all’altro capo collegato ad una estremità della trave stessa. Mentre lui azionava il muletto che trascinava il cavo, l’attore avrebbe dovuto posizionarsi in corrispondenza dell’estremità della trave per guidarla e contribuire a sollevarla. Nel corso della manovra il cavo collegato all’estremità della trave, improvvisamente cedeva, e la pesante putrella, cadendo, investiva il ricorrente, provocandogli lo schiacciamento della gamba destra all’altezza del femore, nonché profonde lacerazioni alla gamba sinistra con emorragia e conseguenti gravi traumi. X rimaneva così con gli arti schiacciati sotto la trave…>>
Il convenuto allega che <<Quel giorno il Sig. Y stava riordinando da solo il proprio capannone, voltato di schiena rispetto alla porta d’ingresso, quando udì qualcuno entrare e voltandosi vide il Sig. X, probabilmente lì per invitare l’amico a fare la consueta sosta al bar, e poco dopo inciampare sulla trave di metallo>>.
Le risultanze istruttorie sulla dinamica sono le seguenti; il teste sui cap 19-23 – (Vero che in quel frangente il signor Y riferiva che l’incidente si era verificato mentre i due, cioè X e Y, erano intenti a sollevare la trave che si trovava di fianco all’infortunato? Descriva il teste la trave che si trovava a fianco di X? Vero che nella circostanza era presente il signor Y, il quale dichiarava di essere titolare dell’attività d’impresa svolta in quei locali? Dica se e come Y o altri hanno descritto la dinamica dell’incidente? Vero che il giorno dell’incidente Y indossava una tuta da lavoro?) – ha dichiarato: <<Nell’occasione il sig. Y che era presente disse che l’incidente è avvenuto mentre X stava spostando una trave e ha precisato che X era un suo amico e non un suo dipendente che lo era andato a trovare nell’occasione. Ho ritenuto che fosse vero in quanto X non indossava tuta da lavoro>>; il teste ha dichiarato: <<nell’occasione io ero impegnato a soccorrere X che parlava ma era visibilmente sotto shock. I miei colleghi hanno chiesto la dinamica al sig. Y e in seguito nell’ambulanza mi hanno riferito che l’infortunio è avvenuto mentre i due stavano spostando la trave di metalli che era particolarmente grossa e pesante. Non ricordo se X indossasse tuta da lavoro né se la indossasse Y>>; la teste madre dell’attore, sul cap. 5 -(Vero che il giorno 04/06/2014, alle ore 15:00 circa, X, mentre era diretto al bar limitrofo, è stato invitato da Y ad entrare nel capannone sito in ……..per spostare una trave metallica riposta all’interno)- ha dichiarato: <<E’ vero ero in cortile perché noi abitiamo di fronte al capannone di Y ed ho visto che egli ha chiamato mio figlio che passava di lì chiedendogli di entrare nel capannone per spostare una sbarra>>; quindi, sui cap. da 9 a 14 – (Vero che nella circostanza dell’infortunio venne utilizzato un sollevatore, per spostare la trave, simile a quello raffigurato nel doc. n. 22 che si rammostra? Vero che mentre i due (cioè X e Y) erano intenti a sollevare la trave metallica, un cavo collegato ad una estremità della medesima – e all’estremo opposto al sollevatore – si è spezzato e la trave ha investito X? Vero che la trave ha investito X provocando lo schiacciamento degli arti inferiori? Vero che a quel punto Y ha chiesto aiuto per soccorrere X che, riverso a terra, perdeva sangue? Vero che immediatamente è accorsa la madre di X e di lì a poco altre persone del vicinato? Dica il teste chi altri è intervenuto sul luogo del sinistro?) – ha dichiarato: < «Dopo un po’ Y mi ha chiamato dicendomi che X si era fatto male io sono arrivata e lui me lo ha indicato e l’ho visto nell’angolo; Y mi ha detto che è stata la trave che stavano spostando che si era slegata o sfilata e che era precipitata su mio figlio colpendolo alle gambe. Mi ha detto che aveva chiamato mio figlio per farsi aiutare nello spostamento di questa trave di metallo. La trave era stata messa in un altro capannone e poi era stata spostata in quello di Y, che però voleva metterla in un altro punto del proprio capannone e si è fatto aiutare per amicizia da mio figlio. Y mi ha detto che aveva già chiamato l’ambulanza ed io sono uscita per segnalare la posizione ai soccorritori>>.
Dunque, mentre la versione del convenuto è rimasta completamente priva di riscontri, la versione dell’attore è compatibile sia con la natura e tipologie delle lesioni subite, come risulta dalla Ctu medico legale, sia con il rinvenimento della trave sul luogo dell’infortunio, sporca di sangue; inoltre la versione è confermata dalla confessione stragiudiziale resa nell’immediatezza del fatto dal convenuto ai testimoni terzi estranei, precisamente un teste ha confermato dall’altro al quale il primo riferisce quanto appreso, e che trova riscontro intrinseco di attendibilità nel fatto che lo stesso Y dichiara il vero anche nel riferire che X “era un suo amico e non un suo dipendente” e che “lo era andato a trovare nell’occasione”, nonché ulteriore riscontro estrinseco di attendibilità nel fatto che effettivamente “X non indossava tuta da lavoro”. A ciò si aggiunge l’ulteriore conferma fornita dalla testimonianza della madre dell’infortunato, secondo la quale fu Y a chiamare X “chiedendogli di entrare nel capannone per spostare una sbarra”.

5. In estrema sintesi, quindi, le circostanze di fatto indiscutibilmente comprovate dall’istruttoria sono che l’attore si è infortunato all’interno dell’azienda del convenuto a causa dello schiacciamento agli arti inferiori provocato da una trave, che pure ivi già si trovava in disponibilità del convenuto.
Stando così le cose, la responsabilità del convenuto per quanto accaduto all’attore ed il suo conseguente obbligo di provvedere al risarcimento del danno dallo stesso subito discendono dal disposto dell’art. 2051 C. C., che stabilisce che ciascuno è responsabile del danno causato dalle cose che ha in custodia; trattasi di una fattispecie di responsabilità anomala di natura oggettiva per cui alla parte danneggiata spetta solamente l’onere di provare il fatto e la relazione tra l’evento dannoso e la cosa in custodia. Essa presuppone, peraltro, che il danno derivi dalla cosa in sé o nel suo connaturato dinamismo, e ciò sul piano probatorio comporta che la prova liberatoria richiede la prova del fatto che la causa da cui è derivato il danno non sia strutturale ed intrinseca al bene, ma sia derivata da comportamenti estemporanei di terzi, non immediatamente conoscibili o eliminabili da parte del custode.
Oggetto di prova del giudizio è, anzitutto, se l’evento dannoso lamentato sia avvenuto per effetto della cosa (nella specie la trave) su cui parte convenuta, in qualità di proprietaria, aveva l’obbligo di custodia; prova che, in base alle circostanze e considerazioni esposte ai posti precedenti, nel caso di specie è raggiunta.
6. A questo punto va considerato, in diritto, quanto segue. In primo luogo, la responsabilità del custode per i danni cagionati da cose in custodia, stabilita dall’art. 2051 C.c., é ritenuta di natura presuntiva e viene ricollegata, in giurisprudenza, ai danni intrinseci al dinamismo connaturale alla cosa medesima o prodottisi per l’insorgenza in questa di un processo dannoso ancorché provocato da agenti esterni (Cass. III, 26/2/94, n. 1947); detta norma, pertanto, non richiede necessariamente che la cosa sia suscettibile di produrre danni per sua natura, cioè per suo intrinseco potere, in quanto anche in relazione alle cose prive di un dinamismo proprio sussiste il dovere di custodia e controllo, allorquando il fortuito ed il fatto dell’uomo possono prevedibilmente intervenire, come causa esclusiva o come concausa, nel processo obiettivo di produzione dell’evento dannoso, eccitando lo sviluppo di un agente, di un elemento o di un carattere che conferiscono alla cosa l’idoneità al nocumento (Cass. 9/6/83, no 3971; Cass. 23/10/90, no 10277; Cass. III, 26/5/93, no 5925, in tema di infiltrazioni di acqua), e la cosa, per guasto od altre cause accidentali, sfugge al controllo del custode; la presunzione di responsabilità che vi è connessa può inoltre essere vinta solo dalla prova del caso fortuito, evento che non si sia potuto prevedibilmente evitare e che sia stato da solo la causa dell’evento dannoso.

7. In ordine alla nozione di caso fortuito, inoltre, va rilevato che esso viene per costante e conforme giurisprudenza inteso nel senso più ampio, comprensivo del fatto del terzo e della colpa del danneggiato (Cass. 22/5/82, no 3134; Cass. no 10277/90, cit.; Cass. III, 3/12/02, n. 17152; specificamente in materia condominiale, Cass. II, 22/7/02, n. 10686); pertanto, mentre incombe al danneggiato l’onere di provare gli elementi sui quali si basa la responsabilità presunta iuris tantum del custode, quest’ultimo, ai fini della prova liberatoria, ha l’onere di indicare e provare la causa del danno estranea alla sua sfera di azione (caso fortuito, fatto del terzo, colpa del danneggiato, dotati di impulso causale autonomo: cfr. Casse 20/1/81, no 0 481), rimanendo a suo carico la causa ignota (Cass. 14/3/83, no 1897; Cass. civ., 25/11/88, no 6340; Cass. S.L., 16/9/98, n. 9247).
Dunque, secondo giurisprudenza assolutamente consolidata e dalla quale non si ravvisano ragioni per discostarsi, l’art. 2051 C.c. non esonera il danneggiato dall’onere di provare un efficace nesso causale fra cosa in custodia e danno (Cass. III, 18 luglio 1977, n. 3211; III, 6/8/97, n. 7276; III, 3/8/01, n. 10687).
È, in particolare, principio noto e consolidato nella giurisprudenza della Corte di cassazione, che <<per il danno cagionato da cose in custodia, l’art. 2051 c.c. non esonera il danneggiato dall’onere di provare il nesso causale fra cosa in custodia e danno>> (Cassazione civile, n. 3211/77, cit.; Cass. III, 22/7/87, n. 6407; Cass. n. 7276/97, cit.; Cass. n. 10687/01, cit., che parla di “efficace nesso causale”; Cass. III, 13/2/02, n. 2075, in una fattispecie di caduta da una scala mobile); anche se, ovviamente, non occorre fornire la prova diabolica dell’esclusione, nel concreto determinismo dell’evento, di impulsi causali autonomi ed estranei alla sfera di controllo propria del custode (Cass. n. 6407/87, cit.; n. 7276/97, cit.; n. 2075/02, cit.).

8. Se ne ricava che, secondo l’orientamento consolidato, la responsabilità può dirsi sussistente quando sia possibile individuare tre circostanze: il rapporto di custodia in relazione ad una cosa, la verificazione di un danno, la provenienza del danno dalla cosa custodita.
Quale ulteriore premessa in diritto, va considerato che questo ufficio condivide e applica da sempre l’orientamento interpretativo della giurisprudenza di legittimità, ritenendo, in particolare, quanto alla ripartizione dell’onere probatorio, che:
“L’articolo 2051 c.c. non esonera il danneggiato dall’onere di provare il nesso causale fra cosa in custodia e danno – ossia di dimostrare che l’evento si è prodotto come conseguenza normale della particolare condizione, potenzialmente lesiva, posseduta dalla cosa – mentre spetta al custode dimostrare il caso fortuito, cui va equiparata l’esclusiva colpa del danneggiato” (Trib. Modena (Cividali S.), 7/9/2017, n. 1518);
“La oggettiva pericolosità della cosa, avuto riguardo a tutte le circostanze specifiche del caso concreto, costituisce oggetto dell’indagine sul nesso di causalità e, quindi, è riconducibile all’ambito della prova che grava sul danneggiato, la quale a sua volta costituisce un prius logico rispetto alla prova liberatoria, di cui sarà poi onerato il custode” (Trib. Modena (Cividali S.), 14/9/2017, n. 1585);
“Per accertare della responsabilità ex art. 2051 c.c. è sufficiente che il danneggiato fornisca la prova di una relazione tra la cosa in custodia e l’evento dannoso, nonché dell’esistenza di un effettivo potere fisico su di essa da parte del custode, sul quale incombe il dovere di vigilare onde evitare che la cosa produca danni a terzi” (Trib. Modena (Rimondini A.), 11/10/2017, n. 1778).

9. Per escludere la propria responsabilità, quindi, il custode deve offrire la prova contraria alla presunzione “iuris tantum” della sua responsabilità, mediante la dimostrazione positiva del caso fortuito, ovvero del fatto estraneo alla sua sfera di custodia, avente impulso causale autonomo e carattere d’imprevedibilità e di assoluta eccezionalità (cfr. Trib. Modena (Rimondini A.), 11/12/2017, n. 2169). In relazione al caso di specie viene, però, in specifico rilievo la precisazione necessariamente correlata all’enunciazione del ricordato principio, e cioè il corollario per il quale: “Tuttavia, nei casi in cui il danno non sia l’effetto di un dinamismo interno alla cosa, scatenato dalla sua struttura o dal suo funzionamento (scoppio della caldaia, scarica elettrica, frana della strada o simili), ma richieda che l’agire umano, ed in particolare quello del danneggiato, si unisca al modo di essere della cosa, essendo essa di per sé statica e inerte, per la prova del nesso causale occorre dimostrare che lo stato dei luoghi presentava un ‘obiettiva situazione di pericolosità, tale da rendere molto probabile, se non inevitabile, il danno” (Trib. Modena (Rimondini A.), 11/102017, sentenza n. 1778; Conf.: Trib. Modena (Rimondini A.), 11/12/2017, n. 2169; Trib. Modena (Rimondini A.), 5/9/2017, n. 1497).
In relazione, infatti, all’ipotesi di mancanza di intrinseca pericolosità della cosa oggetto di custodia, l’onere della prova incombente sul danneggiato comprende necessariamente il nesso di causalità concreto. Prova che, tuttavia, come già rilevato al precedente punto 5., nel caso di specie è raggiunta, anche se, come sopra rilevato, il danno non proviene da vizio intrinseco della cosa.
Non è stato, infatti, in alcun modo provato l’assunto di parte convenuta, che il danno provocato dalla trave sia conseguenza di un’attività e di un’iniziativa autonoma ed indipendente dello stesso danneggiato, ovvero di terzi, svolta nell’azienda del convenuto contro la sua volontà; risultando provato, se mai, il contrario. Il caso fortuito nella specie è escluso.

10. Premesso quanto sopra, occorre determinare il danno risarcibile.
In proposito è stata effettuata una consulenza tecnica d’ufficio medico legale. La consulenza tecnica d’ufficio ha accertato che in conseguenza dei fatti per cui è causa l’attore ha riportato lesioni compiutamente descritte nella prima parte delle conclusioni dell’elaborato peritale, al quale per brevità si fa integrale rinvio, ed ha descritto le conseguenze permanenti come segue: < «Attualmente i postumi residuati possono ritenersi stabilizzati. I suddetti postumi, epifenomenici della evoluzione delle lesioni sopra riportate, sono rappresentati da: Esiti di frattura del femore dx con ginocchio dx globoso e dismorfico, limitazione funzionale specie in flessione (pox sino a 90 0), esiti cicatriziali, discromie cutanee. Esiti di ischemia all’arto inferiore sx con residua insuffienza circolatoria e linfedema, limitazione funzionale a carico del ginocchio sx, esiti cicatriziali, discromie cutanee. Ad emtrambi gli arti limitazione funzionale ai gradi estremi delle escursioni delle anche e delle tibio-tarsiche, lassità in varo-valgo del ginocchio. Deambulazione con zoppia e con atteggiamento extraruotato del piede sx. I postumi sovra descritti si accentuano con i cambiamenti climatici e con il sovraccarico funzionale determinando maggiore algia e rigidità>>.
La consulenza tecnica ha ritenuto congrue le spese mediche sostenute dall’attore nella misura di € 597.80, ed ha quantificato la durata della malattia in dieci mesi (I.T.T. gg. 30, I.T.P. al 75% mesi 4, I.T.P. al 50% mesi 3, ed I.T.P. al 25% mesi 2) e la I.P.P. in misura del 18-20%, tenuto conto anche delle preesistenze menomative.
Ha, infine, accertato che tale quadro menomativo determina anche un danno alla capacità lavorativa specifica del 10%., affermando che <<i suddetti postumi, determinando un sovraccarico funzionale agli arti inferiori, con conseguente maggiore usura e necessità di maggiori pause/cautele, incidono sulla capacità lavorativa nella misura del 10 %>>.
In primo luogo, in adesione alla valutazione della consulenza tecnica d’ufficio, va riconosciuta una serie di spese mediche ritenute pertinenti, nella misura indicata nella consulenza stessa.
In secondo luogo, nel caso in esame sussistono anche ragioni per prevedere un aumento ulteriore del danno, equitativamente valutabile come pari al 15% del biologico, per ricomprendere anche le sofferenze derivanti dal sinistro e  corrispondenti alla prevedibile progressiva modifica delle proprie abitudini di vita, in considerazione dell’effetto che sul quadro lesivo del danneggiato sarà determinato dal peggioramento delle condizioni di salute con l’avanzare dell’età; al riguardo si  legge nell’elaborato peritale (pag. 38): <<Leggendo le note del Dott. Redeghieri mi preme solo confermare come, pure a fronte di postumi stabilizzati, il progressivo invecchiamento e la sovrapposizione di fenomeni artrosici potrà indurre un ulteriore aggravamento del danno, di difficile percentualizzazione, ma valutabile in maniera equitativa dal Giudice>>.
Va, infine, riconosciuto il danno patrimoniale per la diminuzione della capacità lavorativa specifica, da calcolare sulla base della retribuzione media annuale di € 26.600,00 circa, risultante dalla documentazione prodotta (dichiarazioni dei redditi precedenti all’incidente).
Quanto, quindi, al danno alla salute, secondo i criteri utilizzati correntemente da questo ufficio, quindi, tenuto conto dell’età del danneggiato (anni 53) al momento del fatto ed adottando per la valutazione del danno le tabelle di liquidazione del Tribunale di Milano, il danno può essere in sintesi quantificato come segue:
I.T.T. gg. 30 (€ 122,50 al dì) € 3.675,00;
I.T.P. gg. 120 — al 75%, € 11.025,00;
I.T.P. gg. 90 — al 50%, € 5-512,50;
I.T.P. gg. 30 — al 25%, € 1.837,50;
I.P.P. 19% € 59.045,00;
Personalizzazione del danno non patrimoniale, € 12.164,25;
Spese mediche documentate, € 597,80;
A queste voci va aggiunto il danno patrimoniale, € 33-464,60.
Complessivamente, tenuto conto della devalutazione al momento del fatto delle somme attribuite a titolo di risarcimento del danno alla salute, il danno ammonta ad € 81.095,00+12.164,25+33464,60+597,80; che, con l’aggiunta di rivalutazione in base al costo della vita secondo gli indici Istat dalla data del sinistro a quella di liquidazione (€ 2.765,77), e degli interessi sul capitale rivalutato con progressione annuale (€ 2.004,07), nonché a seguito della devalutazione per riportare i valori alla data del sinistro, porta ad un risarcimento effettivamente dovuto, alla data della sentenza, di € 130.753,35. A tale somma andranno aggiunti interessi legali dalla data della pubblicazione della sentenza fino al saldo effettivo.

11. Le spese processuali seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo. Le spese di consulenza tecnica vanno poste definitivamente a carico di parte convenuta, con diritto di ripetizione di parte attrice di quanto eventualmente corrisposto.

P.Q.M.

Il Tribunale, definitivamente pronunciando, ogni diversa domanda rigettata, dichiara obbligato e condanna Y a corrispondere a X, a titolo di risarcimento del danno, la somma di € 130.753,35, comprensiva di interessi legali e danno da ritardo fino alla data di pubblicazione della sentenza, oltre agli interessi legali su detta somma dalla data della pubblicazione della sentenza fino a quella di saldo effettivo; dichiara obbligato e condanna Y a rifondere a X le spese processuali che liquida nella complessiva somma di € 3-500,00, di cui € 100,00 per spese, oltre ad accessori dovuti per legge; pone definitivamente a carico di Y le spese di consulenza tecnica d’ufficio così come liquidate, con obbligo di restituzione a parte attrice di quanto eventualmente anticipato.
Così deciso in Modena, il 12/4/19 e contestualmente depositato nel sistema telematico.

Il Giudice Dr. G. Pagliani

Air-bag difettoso, la responsabilità compete al produttore o al fornitore? Responsabilità da prodotto

 

C.Cass. civ. Sez. Terza Ord., 06/03/2023, n. 6568, Pres. Travaglino, Est. Graziosi

Un dubbio interpretativo ha indotto la Corte di Cassazione a sottoporre il tema al vaglio della Corte di Giustizia Europea.  Si tratta di appurare se, la condivisione di elementi identificativi adeguati a confondere, deve ritenersi frutto di una intenzionale specifica apposizione perché sia rafforzata la tutela del consumatore, oppure è sufficiente una semplice coincidenza da sanzionare con la responsabilità paritaria rispetto all’effettivo produttore.
Il Caso. Un consumatore che aveva acquistato un veicolo ha  chiamato in giudizio la casa produttrice del veicolo per chiedere il risarcimento dei danni subiti in un sinistro automobilistico. Nell’occorso non aveva funzionato l’air-bag della vettura.
La convenuta si è costituita negando di essere la produttrice ed eccependo di non essere responsabile del difetto del prodotto lamentato.

Sosteneva, in particolare la Casa Automobilistica convenuta che il fornitore ( nella fattispecie essa  Casa automobilistica) non risponde del danno se il produttore ( del componente difettoso) è individuato e, comunque, ne risulta comunicata l’identità al consumatore, come avvenuto nel caso di specie.

Prima il Tribunale di Bologna e poi la Corte d’Appello di Bologna affermavano  la responsabilità di natura extracontrattuale della convenuta casa produttrice del veicolo, per difetto di fabbricazione dell’air-bag.

La  soccombente, tuttavia, proponeva ricorso alla Corte di Cassazione criticando la scelta interpretativa dei giudici territoriali,  con la richiesta, ove ritenuto necessario, di rinvio pregiudiziale  alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea per  l’esegesi del testo dell’art. 3, comma 1, dir. 85/374/CEE.

La Corte di Cassazione, con ordinanza interlocutoria, ha ritenuto necessario porre la questione interpretativa alla Corte di Giustizia  UE, perché si pronunci, in via pregiudiziale, sulla seguente questione di diritto: «se sia conforme all’art. 3, comma 1, dir. 85/374/CEE – e, se non sia conforme, perché non lo sia – l’interpretazione che estenda la responsabilità del produttore al fornitore, anche se quest’ultimo non abbia materialmente apposto sul bene il proprio nome, marchio o altro segno distintivo, soltanto perché il fornitore abbia una denominazione, un marchio o un altro segno distintivo in tutto o in parte coincidenti con quello del produttore».

Sarà cura della redazione dare notizia, a suo tempo, della decisione del Corte CEDU.

Testo integrale della ordinanza

REPUBBLICA ITALIANA

LA CORTE SUPREMA Dl CASSAZIONE

ORDINANZA INTERLOCUTORIA

Rilevato che:

M Tullio Cicerone conveniva davanti al Tribunale di Bologna  Mevio  S.p.A. quale venditrice e Casa Automobilistica S.p.A. quale produttrice della propria auto, chiedendone la condanna al risarcimento dei danni da lui subiti in un sinistro automobilistico in cui non aveva funzionato l’air-bag della vettura.

Si costituivano le convenute, resistendo; in particolare Casa Automobilistica negava di essere la produttrice, qualificando tale F W   – appartenente al suo gruppo industriale – come sarebbe emerso dalla fattura di vendita che allo scopo produceva. Eccepiva inoltre di non essere responsabile del difetto del prodotto lamentato, in quanto il fornitore non ne risponde se il produttore è individuato e comunque ne risulta comunicata l’identità al consumatore, come sarebbe avvenuto nel caso di specie.

Con sentenza non definitiva del 6 novembre 2012 il Tribunale accoglieva nell’an debeatur la domanda attorea, dichiarando la responsabilità extracontrattuale della convenuta per difetto di fabbricazione dell’airbag, e rimetteva la causa in istruttoria per la quantificazione del risarcimento.

Proponeva appello Casa Automobilistica Spa; gli appellati si costituivano resistendo.

La Corte d’appello di Bologna, con sentenza del 21 dicembre 2018, rigettava il gravame.

Ha presentato ricorso Casa Automobilistica sulla base di tre motivi, nella parte conclusiva chiedendo, se necessario, il rinvio pregiudiziale alla CGUE per acquisire la risposta a quesiti. Gli intimati non si sono difesi.

Chiamata la causa a udienza pubblica cameralizzata, il Procuratore Generale ha concluso per iscritto nel senso dell’accoglimento del secondo e del terzo motivo del ricorso. Il ricorrente ha depositato memoria.

Considerato che:

  1. II primo motivo denuncia nullità della sentenza e del procedimento per violazione degli articoli 99 e 112 c.p.c., adducendo che il giudice d’appello ha condannato l’attuale ricorrente “per un titolo estraneo alle allegazioni attoree”, cioè come produttrice e non anche quale fornitrice.
  2. Il secondo motivo denuncia omesso esame di fatto discusso e decisivo nonché falsa applicazione dell’articolo 4 d.p.r. 224/1988.

II giudice d’appello avrebbe correlato l’obbligo dell’attuale ricorrente – quale fornitrice convenuta – di chiamare in causa la (vera) produttrice al fatto che la convenuta avrebbe potuto essere estromessa solo dopo tale estensione del contraddittorio. Ciò sarebbe infondato, e pure irrilevante per stabilire se l’interessato alla chiamata in causa del produttore sia il consumatore/attore oppure il fornitore/convenuto e, in secondo caso, quali siano le conseguenze dell’omissione della chiamata in causa.

Si afferma di ‘censurare l’omesso esame del fatto decisivo perché comportante la ritenuta applicabilità alla fattispecie dell’art. 4 del D.P.R. 224/88 – rappresentato dalla concorde individuazione del produttore operata dalle parti in limine litis”: il riferimento sarebbe appunto al testo dell’articolo 4, primo comma, d.p.r. 224/1988, che indica come presupposto della responsabilità del fornitore la mancata individuazione del produttore; e nel caso in esame l’individuazione di quest’ultimo non sarebbe stata controversa.

Il non avere considerato che l’identità del produttore era stata individuata concordemente dalle parti avrebbe impedito al giudice d’appello di rilevare l’assenza della condicio juris (“Quando i/ produttore non sia individuato…” ) della responsabilità dell’attuale ricorrente. In un simile contesto in cui quest’ultima sarebbe stata appunto la fornitrice, essa “avrebbe dovuto essere assolta dalla domanda, ponendosi, il tema della chiamata in causa del produttore, al diverso fine – al quale la Ford era indifferente – della condanna del produttore nei confronti dell’attore”.

L’omesso esame denunciato sarebbe “decisivo anche sotto diverso profilo di una falsa applicazione, per vizio di sussunzione, della norma applicata”, in quanto, se non era controversa l’identificazione del produttore ‘già individuato concordemente dalle parti in un soggetto diverso” – l’articolo 4 citato non sarebbe applicabile: pertanto il giudice d’appello avrebbe erroneamente sussunto la fattispecie nell’articolo 4, “perché il presupposto di fatto della sua applicabilità, la mancata individuazione del produttore, era negato dalle convergenti allegazioni delle parti”.

  1. Il terzo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’articolo 4 d.p.r. 224/1988 e della direttiva CEE 85/374, e propone “duplice richiesta subordinata di rinvio pregiudiziale” alla CGUE.
    • Conoscendo il consumatore l’identità del produttore, confermata dalla fornitrice in tempo che il consumatore potesse chiedere di chiamarlo in causa, “il tema della causa, donde la causalità del vizio di violazione di legge” qui appunto denunciato, sarebbe se, per l’omissione di tale richiesta, il consumatore dovesse soccombere nel giudizio promosso avverso la fornitrice,

‘cui era assodata l’estraneità al processo produttivo”. Al riguardo il giudice d’appello ha risposto nel senso che l’attuale ricorrente non avrebbe avuto soltanto l’onere di comunicare al danneggiato l’identità del produttore, ma avrebbe pure dovuto chiamarlo in causa, essendo questa l’unica via per essere estromessa. In tal modo la corte territoriale si sarebbe posta in contrasto con la giurisprudenza di legittimità, e precisamente con Cass. 11710/2009, Cass.5428/2002 e Cass. 13432/2010 .

  • In particolare, Cass. 20 maggio 2010 n. 11710 afferma che, qualora il danneggiato agisca per danno da prodotto difettoso nei confronti del fornitore, quest’ultimo è privo di legittimazione passiva (rectius: titolarità passiva del rapporto) se il prodotto è fabbricato da un soggetto avente sede all’interno della Unione Europea, come nel caso de quo. D’altronde per l’accertamento dell’origine infracomunitaria del prodotto non occorre la partecipazione del produttore al giudizio, ben potendo “risultare dalle prove costituite prodotte al riguardo dal fornitore convenuto pur nella mancata estensione del contraddittorio al produttore”. Quindi l’evocazione in giudizio del produttore si rapporta “all’esclusivo interesse del consumatore ad ottenerne la condanna in luogo del fornitore esonerato, perché ai fini dell’assoluzione di quest’ultimo dalla domanda è sufficiente che l’identità del produttore sia individuata”: infatti il fornitore non risponde verso il consumatore “né in via solidale con il produttore, né in via vicaria, ma solo in via subordinata alla mancata individuazione di quest’ultimo”. Pertanto risulta comunque incongruo ‘attribuire al fornitore convenuto l’onere della chiamata in causa del produttore strumentalmente alla propria estromissione”, non potendo questa essere disposta in caso di contumacia del chiamato.

In realtà, si ribadisce, quel che interessa al fornitore per la sua assoluzione dalla domanda è soltanto l’accertamento dell’identità del produttore, non la sua partecipazione al giudizio.

Ancora, Cass. 15 aprile 2002 n. 5428 esclude che erri il giudice d’appello qualora dichiari il difetto di legittimazione passiva di una società importatrice di autoveicolo entro l’Unione Europea rispetto all’azione extracontrattuale esercitata dal consumatore per vizio del prodotto.

Conforme agli arresti già citati, Cass. 1 giugno 2010 n. 13432 osserva che l’onere di informazione dell’identità del produttore previsto dall’articolo 4 d.p.r. 224/88 “è previsto dalla legge in considerazione delle esigenze di tutela del consumatore”. Dunque, se nel caso in esame fosse corretto l’assunto del giudice d’appello detta norma non avrebbe senso e sarebbe stato

‘erroneamente individuato il soggetto da tutelare”: nella prospettiva della corte territoriale, infatti, quest’ultimo sarebbe il fornitore, e non il consumatore, poiché il consumatore, convenendo il fornitore, “avrebbe già individuato la propria giusta parte passiva”. Ergo, il consumatore non avrebbe alcun interesse a chiamare in giudizio il produttore, mentre interesse a chiamarlo l’avrebbe il fornitore, per essere “sostituito dal produttore come parte soccombente” oppure per ottenere nei suoi confronti una condanna di manleva dalle conseguenze dell’accoglimento della domanda attorea nei confronti propri. D’altronde, se fosse onere del fornitore/convenuto la chiamata in causa, non vi sarebbe alcuna ragione per far gravare su quest’ultimo un onere di previa, o comunque tempestiva (per la chiamata in causa) comunicazione al consumatore dell’identità del produttore”.

Inoltre la corte territoriale, sempre ad avviso della ricorrente, confonde il tema della identificazione del produttore con il tema dell’accertamento che il soggetto indicato sia effettivamente il produttore, il primo tema concernendo la corretta instaurazione del contraddittorio verso la “parte potenzialmente titolare del Iato passivo”, e il secondo invece “l’accertamento della qualità di produttore, e quindi di giusta parte passiva, non più potenziale ma effettiva, in capo al soggetto indicato dal fornitore”.

3.3 A questo punto la ricorrente rimarca che “nessun particolare valore interpretativo della norma può peraltro riconoscersi al fatto che di questa si debba dare un’interpretazione favorevole al consumatore anche oltre la voluntas legis, come sembra ritenere la Corte d’Appello”, in quanto il favor nei suoi confronti sarebbe già stato raggiunto con la direttiva comunitaria: quindi ‘la norma in esame non necessita di ulteriori estensioni interpretative indiscriminatamente favorevoli al consumatore”, già integrando “un equo contemperamento degli interessi delle parti nel riconoscimento che del danno da prodotto difettoso debba in primis rispondere il produttore, e che il fornitore possa essere chiamato a rispondere solo quando il produttore non risulti individuato”.

Tuttavia – rileva ancora la ricorrente – un ulteriore precedente di legittimità, Cass. ord. 7 dicembre 2017 n. 29327, ha affermato che è produttore, ai fini della responsabilità per danno da prodotto, anche il fornitore che abbia distribuito in Italia un prodotto contrassegnato con un marchio in tutto o in parte corrispondente alla propria denominazione, invocando l’articolo 3, terzo comma, d.p.r. 224/1988. Per l’ipotesi in cui, nonostante la sentenza qui impugnata si fondi sull’articolo 4 e non sull’articolo 3 del decreto, si reputi la pronuncia del giudice d’appello “conforme a legge sulla base di tale precedente”, respingendo quindi il ricorso con correzione della motivazione della sentenza impugnata, la ricorrente argomenta specificamente sul punto, criticando l’interpretazione dell’articolo 3, terzo comma, dap.r. 224/1988 che detto arresto di legittimità avrebbe scelta “senza alcuna aderenza al dato normativo, sia interno, sia comunitario,” mentre l’articolo 3, terzo comma, ‘sanziona, con l’estensione della responsabilità, un preciso contegno commissivo, e non puramente omissivo” del fornitore che aggiunga per sue ragioni (“pubblicitarie, commerciali o di altro tipo”) al marchio di fabbrica il marchio proprio, così “impedendo al consumatore di distinguere con certezza il produttore, il cui marchio non viene apposto con la precisazione che si tratti di un marchio di fabbrica e non di un marchio di commercio”. La norma allora sanziona “un comportamento confusorio del fornitore”, che se ne avvantaggia e che pertanto dal marchio deve ricavare responsabilità come quella del produttore; nella fattispecie in esame non ricorrerebbero però tali elementi identificativi, non avendo Casa Automobilistica” apposto la propria denominazione, né in senso reiterativo, né in senso distintivo”, nel marchio del produttore”.

Tuttavia “l’unico profilo che consentirebbe di accertare la responsabilità della Ford” ricorrente risiederebbe, secondo Cass. ord. 29327/2017, nel fatto oggettivo che questa ha una denominazione in tutto o in parte coincidente con il marchio del produttore; la coincidenza però “non identifica affatto un titolo di responsabilità perché non rende al consumatore più problematica l’identificazione del produttore”.

3.4 Per l’ipotesi in cui non si diverga da Cass. ord. 29327/2017, la ricorrente propone di sottoporre alla CGUE il quesito seguente: se sia conforme all’articolo 3, primo comma, direttiva 85/374/CEE – e, se non sia conforme, perché non lo sia l’interpretazione che estenda la responsabilità de/ produttore a/ fornitore, anche se quest’ultimo non abbia materialmente apposto sul bene il proprio nome, marchio o altro segno distintivo, soltanto perché i/ fornitore abbia una denominazione, un marchio o un altro segno distintivo in tutto o in parte coincidenti con quello del produttore.

3.5 Invoca poi la ricorrente il terzo comma di tale articolo 3 – “Quando non può essere individuato il produttore de/ prodotto si considera tale ogni fornitore a meno che quest’ultimo comunichi al danneggiato, entro un termine ragionevole, l’identità de/ produttore o della persona che gli ha fornito il prodotto. Le stesse disposizioni si applicano ad un prodotto importato, qualora questo non rechi il nome dell’importatore di cui al paragrafo 2, anche se è indicato il nome del produttore.’ per sostenerne il significato (come d’altronde emergerebbe dai lavori preparatori della direttiva) nel senso che “la responsabilità del fornitore è esclusa in caso di comunicazione dell’identità del produttore, sul presupposto, ovviamente, che il soggetto indicato si riconosca, o sia riconosciuto, come tale; accertamento quest’ultimo che, come già osservato, non richiede però la necessaria presenza in giudizio del produttore”. E il d.p.r. 224/1988 avrebbe correttamente rappresentato il testo della norma comunitaria, non rispettato dalla sentenza impugnata.

Qualora però si ritenga “plausibile” l’interpretazione del giudice d’appello

‘perché non preclusa dal senso fatto palese dalle parole usate dal Legislatore sia comunitario, sia interno”, insorgerebbe la necessità di un ulteriore quesito: se sia conforme alla Direttiva del Consiglio della Comunità Europea del 25 luglio 1985 (85/374/CEE) l’interpretazione della norma implementativa interna, nella specie l’articolo 4 d.p.r. 224/1988, nel senso che non basti a/ fornitore, per sottrarsi alla responsabilità per danno da prodotto, indicare al consumatore i dati identificativi del produttore in tempo utile per permetterne la chiamata in causa da parte del primo, dovendo i/ fornitore altresì farsi carico della chiamata in causa de/ produttore stesso ai fini della sua individuazione, non altrimenti conseguibile in sede giudiziale.

Si conclude per la decisione nel merito nel senso del rigetto della domanda del Letizia, con condanna di quest’ultimo alle spese dei tre gradi di giudizio.

  1. Per una migliore comprensione è opportuno riassumere il contenuto della sentenza d’appello.

4.1 La corte territoriale ha esaminato congiuntamente i due motivi del gravame: il primo contestava l’esistenza dell’obbligo, attribuito all’appellante dal tribunale, di chiamare in causa il produttore contrapponendo la sufficienza dell’indicarne i dati identificativi, e il secondo lamentava ultrapetizione per avere il tribunale condannato la appellante quale fornitrice del veicolo, benché l’attore ne avesse chiesto la condanna quale produttrice.

La motivazione è assai concisa, e prende le mosse dalla condivisione dell’interpretazione dell’articolo 4 d.p.r. 224/1988 adottata dal tribunale nel senso che “estende al fornitore la responsabilità del produttore quando questi non sia individuato” per “assicurare al consumatore una tutela più ampia”, cosicché il fornitore, per “liberarsi dalla responsabilità in questione”, non risulta obbligato soltanto a indicare i dati identificativi del produttore, ma deve altresì provvedere a chiamarlo in causa “al fine della sua ‘individuazione’ (accertamento) in sede giudiziale e della propria conseguente estromissione”.

L’interesse processuale alla chiamata continua la corte territoriale appartiene a chi mira a essere estromesso, qui Ford Italia, “la quale non vi ha, invece, provveduto”.

Per questo correttamente “il fornitore Casa Automobilisticaè stato sottoposto alla stessa responsabilità”, non avendo inciso l’essere stata tale parte citata quale fornitrice, in quanto “la sua posizione era equiparata a quella del produttore non evocato, mentre parte attrice non era onerata dalla chiamata in causa”. E

‘per il resto” la domanda attorea “è rimasta identica nel petitum dall’inizio alla fine e la Casa Automobilistica Spa ha pienamente svolto le proprie difese di merito in vece del produttore”.

4.2 Ad avviso della Corte d’appello, dunque, l’onere di individuazione del produttore normativamente imposto al fornitore non si arresta all’indicarne i dati identificativi, bensì include la chiamata in causa in modo che si possa verificare in sede giurisdizionale se i dati identificativi forniti siano corretti, id est che il chiamato sia davvero il produttore. Ciò denoterebbe un intento di rafforzamento della tutela del consumatore, la cui posizione viene presidiata, nel caso in cui il produttore non sia stato “immesso” nel giudizio, dall’assunzione della responsabilità del produttore da parte del fornitore che avrebbe dovuto introdurvelo e invece ha omesso di chiamarlo oppure ha chiamato un soggetto che non è in realtà il produttore. Per la corte territoriale dunque una garanzia ibrida tra il mezzo processuale e quello, in realtà fonte di impulso di tutto l’insieme, sostanziale, che ha unito i due motivi d’appello.

  1. Passando allora a scrutinare i motivi, dato atto che il primo è ictu oculi infondato in quanto il giudice ha potere di qualificazione della domanda, il secondo e il terzo motivo costituiscono il reale contenuto del ricorso e meritano un vaglio congiunto.

5.1 Preliminarmente occorre rimarcare l’erroneità dell’interpretazione, adottata dal giudice di merito, dell’articolo 4 d.p.r. 224/1988 nel senso che il fornitore abbia l’obbligo non solo di fornire al consumatore i dati identificativi del produttore, ma altresì di chiamare in giudizio quest’ultimo “al fine della sua ‘individuazione’ (accertamento) in sede giudiziale e della propria conseguente estromissione”.

Del – qui applicabile ratione temporis d.p.r. 24 maggio 1988 n. 224, Attuazione della direttiva CEE n. 85/374 relativa al ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri in materia di responsabilità per danno da prodotti difettosi, ai sensi dell’art. 15 della l. 16 aprile 1987 n. 183, l’articolo 4, Responsabilità del fornitore, statuisce al primo comma: “Quando il produttore non sia individuato, è sottoposto alla stessa responsabilità i/ fornitore che abbia distribuito il prodotto nell’esercizio di un’attività commerciale, se abbia omesso di comunicare al danneggiato, entro il termine di tre mesi dalla richiesta, l’identità e il domicilio del produttore o della persona che gli ha fornito il prodotto”. Il secondo comma descrive il contenuto che deve essere versato nella richiesta del consumatore e il terzo assegna al fornitore che la richiesta non abbia ricevuta prima dell’avvio del giudizio in cui è parte convenuta il termine di tre mesi (aumentabile nel caso del quarto comma) per rendere noti all’attore i dati del produttore.

È il quinto comma, presumibilmente (la corte territoriale ne omette uno specifico richiamo), la fonte del preteso obbligo ravvisato dal giudice d’appello in capo al fornitore, così stabilendo: “Il terzo indicato come produttore o precedente fornitore può essere chiamato nel processo a norma dell’art. 106 del codice di procedura civile e il fornitore convenuto può essere estromesso, se la persona indicata comparisce e non contesta l’indicazione. Nell’ipotesi prevista da/ comma terzo, i/ convenuto può chiedere la condanna dell’attore al rimborso delle spese cagionateg/i dalla chiamata in giudizio”.

Da un lato il riferimento alla estromissione, collocato immediatamente dopo la previsione della chiamata ex articolo 106 c.p.c., e dall’altro quello alla condanna spese potrebbero avere effettivamente suscitato l’interpretazione del giudice d’appello nel senso che la chiamata sia onere del fornitore convenuto. Si tratta, però, di una deformante lettura della norma perché non la connette proprio con l’articolo 106 c.p.c., il quale è chiaramente incompatibile con una siffatta interpretazione in quanto fin dall’incipit la osta consentendo a tutte le parti già costituite di avvalersi in presenza naturalmente dei relativi presupposti sostanziali – dell’istituto della chiamata in causa (“Ciascuna parte può chiamare … “) .

5.2 Va peraltro rilevato – e qui è il nucleo della questione da dirimere – che la pronuncia impugnata, pur motivata in modo non del tutto limpido, lascia comunque intendere di ritenere sussistente la responsabilità di Casa Automobilistica per il suo trovarsi in una posizione “equiparata a quella del produttore non evocato”. La presenza di questo tema – che significa applicazione (anche) dell’articolo 3 d.p.r. 224/1988 – come non confinato in effetti alla chiamata in causa è stata avvertita dalla ricorrente, che pur la nega in tesi; ed è una presenza agevolmente ancora sostenibile considerato che, pur avendo poi qualificato il giudice di merito diversamente la domanda, l’attore ha espressamente convenuto Casa Automobilistica come produttrice, e non come fornitrice.

La stessa ricorrente, nella premessa del ricorso, espone che “il Sig. Letizia conveniva in giudizio la  Casa Automobilistica e, sul presupposto che questa fosse la produttrice del veicolo XX  ne chiedeva la condanna al risarcimento del danno da lui subito in occasione di un incidente automobilistico nel quale il sistema air-bag del veicolo non aveva funzionato”, per poi riportare la sua immediata contestazione per cui produttrice sarebbe stato  il Produttore.

È dunque prospettabile, si ripete, che l’attore abbia in effetti agito nei confronti di Casa Automobilistica non quale fornitrice, bensì quale produttrice di un’automobile che sarebbe stata difettosa; e il giudice di legittimità, in applicazione dell’articolo 384, quarto comma, c.p.c., potrebbe respingere il ricorso correggendo la motivazione della sentenza che ne è oggetto, in quanto, se Casa Automobilistica è stata convenuta come produttrice, la sua condanna al risarcimento come correlata “alla stessa responsabilità del produttore” (così si esprime, nella stringata motivazione della sua pronuncia, la corte territoriale) può confermarsi. Tuttavia, la qualificazione come produttrice per Casa Automobilistica non è sostenibile sulla base dell’omessa chiamata in causa del Produttore – che, come si è visto, non è onere suo -, bensì sulla base dei rilievi fatti propri in una vicenda affine (che si approfondirà infra) dalla recente Cass. ord. 29327/2017.

E infatti la ricorrente ha affrontato la relativa tematica, inclusa appunto Cass.ord. 29327/2017, giungendo a proporre, in subordine, i già sopra riportati quesiti diretti alla CGUE.

6.1 L’articolo 3 d.p.r. 224/1988, Produttore, dopo avere al primo comma definito: “Produttore è il fabbricante del prodotto finito o di una sua componente e i/ produttore della materia prima”, estende la qualità di produttore al terzo comma: “Si considera produttore anche chi si presenti come tale apponendo i/ proprio nome, marchio o altro segno distintivo sul prodotto o sulla sua confezione”.

Questa norma appare rispecchiare direttamente il contenuto della direttiva 85/374/CEE, sia con riferimento agli introduttivi considerando, sia con riferimento all’articolo 3 della direttiva stessa.

Dei considerando anteposti dalla direttiva agli articoli, due sono reputabili attinenti al caso in esame, i seguenti:

‘considerando che ai fini della protezione de/ consumatore è necessario considerare responsabili tutti i partecipanti al processo produttivo se il prodotto finito o la parte componente o la materia prima da essi fornita sono difettosi:

che per lo stesso motivo è necessario che sia impegnata la responsabili dell’importatore che introduca prodotti nella Comunità europea e quella di chiunque si presenti come produttore apponendo il suo nome, marchio o altro segno distintivo o fornisca un prodotto il cui produttore non possa essere identificato” ;

“considerando che, se dello stesso danno sono responsabili più persone, la protezione de/ consumatore implica che il danneggiato possa chiedere i/ risarcimento integrale del danno ad uno qualsiasi dei responsabili”.

È ben noto poi che l’articolo 3 della direttiva 85/374/CEE così statuisce:

‘1. Il termine ” produttore” designa il fabbricante di un prodotto finito, i/ produttore di una materia prima o il fabbricante di una parte componente, nonché ogni persona che, apponendo i/ proprio nome, marchi marchio o altro segno distintivo sul prodotto, si presenta come produttore dello stesso.

  1. Senza pregiudizio della responsabilità de/ produttore, chiunque importi un prodotto nella Comunità europea ai fini della vendita, della locazione, del “leasing” o di qualsiasi altra forma di distribuzione nell’ambito della sua attività commerciale, è considerato produttore de/ medesimo ai sensi della presente direttiva ed è responsabile allo stesso titolo de/ produttore.
  1. Quando non può essere individuato i/ produttore del prodotto si considera tale ogni fornitore a meno che quest’ultimo comunichi al danneggiato, entro un termine ragionevole, l’identità del produttore o della persona che gli ha fornito i/ prodotto. Le stesse disposizioni si applicano ad un prodotto importato, qualora questo non rechi j/ nome dell’importatore di cui al paragrafo 2, anche se è indicato i/ nome del produttore. “

6.2 Nel caso in esame Casa Automobilistica S.p.A. verrebbe allora a condividere la qualità di produttrice del Produttore apponendo il proprio nome”, in modo del tutto evidente, al prodotto, così realizzando quella “autopresentazione” cui si riferisce l’articolo 3, terzo comma, d.p.r. 224/1988, sulla scia del primo comma dell’articolo 3 della direttiva 85/374/CEE. Ciò che peraltro va chiarito – è già intuibile – è come debba intendersi l’espressione “apponendo il proprio nome:’  cioè se l’apposizione debba essere soltanto una materiale impressione dell’elemento distintivo sul prodotto o se l’apposizione sia lato sensu, e dunque includa pure (sembra un’inversione, ma in realtà è una mera espansione) la presenza dell’elemento distintivo rinvenibile sul prodotto anche nei dati identificativi del soggetto, che in tal modo “si presenta come produttore”, oggettivamente generando una confusione di individuazione del produttore che potrebbe risolversi a favore del soggetto debole, il consumatore, anche se il dettato normativo non appare inequivoco, bensì compatibile con più letture.

  1. La ricorrente, come anticipato, fronteggia Cass. sez. 3, ord. 7 dicembre 2017 n. 29327, che riguarda proprio una vicenda affine, la quale per responsabilità estesa a quella del produttore coinvolge ancora  Casa Automobilistica, per la comunanza, nelle modalità appena descritte, dell’elemento distintivo ” marchio”.

In sostanza, nel caso trattato da Cass. ord. 29327/2017 il ricorrente aveva lamentato l’esclusione della responsabilità del distributore per i subiti danni da prodotto qualora il prodotto sia commercializzato con marchi o segni distintivi confusivi delle posizioni di produttore e di distributore. La censura viene reputata fondata per violazione dell’articolo 3, terzo comma, d.p.r. 224/1988 (anche in quel caso applicabile ratione temporis), norma che il giudice d’appello non aveva correttamente applicato “escludendo la responsabilità del distributore in un caso in cui tanto il produttore, quanto i/ distributore, pacificamente utilizzavano i/ medesimo segno distintivo”. Di qui la cassazione della pronuncia impugnata e l’assegnazione del principio per cui “i/ distributore o l’importatore rispondono del danno causato del vizio costruttivo del prodotto, se abbiano un marchio od una ragione sociale coincidenti in tutto od in larga parte con quelli de/ produttore, e sotto tali segni distintivi abbiano commercializzato il prodotto”.

L’indirizzo di questo recente arresto si fonda in termini unicamente oggettivi sulla coincidenza, in tutto o nella parte prevalente per il percipiente (questo è il significato logico, nel contesto, di “larga parte”), del marchio o della ragione sociale del produttore stricto sensu rispetto al marchio o alla ragione sociale del soggetto (distributore/fornitore, importatore) che così viene equiparato

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quanto alla responsabilità verso il consumatore, al “comunista” di tali elementi distintivi. Peraltro, non si può negare che la questione interpretativa sia risolvibile anche in modo diverso.

  1. Invero, nel momento in cui la sovrapponibilità, in misura assoluta o comunque realmente rilevante in termini di ordinaria percezione, dei segni e dei dati identificativi giunge ad un livello di “confusione”, da parte del consumatore, nell’identificazione del fornitore o importatore che lo dovrebbe distinguere dal produttore, l’interpretazione dell’articolo 3, primo comma, della direttiva 85/374/CEE (“Il termine ” produttore” designa i/ fabbricante di un prodotto finito, i/ produttore di una materia prima o i/ fabbricante di una parte componente, nonché ogni persona che, apponendo il proprio nome, marchi marchio o altro segno distintivo sul prodotto, si presenta come produttore dello stesso. che quanto alla seconda parte (“nonché ogni persona ecc.) pare conformemente riversato nella norma nazionale di cui all’articolo 3, terzo comma, d.p.r. 224/1988 (“”Si considera produttore anche chi si presenti come tale apponendo i/ proprio nome, marchio o altro segno distintivo sul prodotto o sulla sua confezione. “), si trova dinanzi ad un bivio.

La tutela del consumatore effettuata mediante l’estensione della responsabilità del produttore a chi produttore non è ma ne condivide significativi dati esterni è offerta soltanto per quando, come già si anticipava, I m apposizione” sia una materiale impressione dell’elemento distintivo sul prodotto effettuata da chi non è produttore per volutamente fruire di un’ambiguità rispetto al produttore, oppure anche per quando il produttore e chi non è produttore condividono comunque e oggettivamente elementi alquanto consistenti nei propri dati identificativi? (Il secondo è il caso che qui ricorre, in cui sia la ricorrente sia la produttrice condividono nella loro denominazione l’elemento “marchio”, senza che la ricorrente sia attivata per apporre sul prodotto un elemento per creare confusione al consumatore).

Vale a dire: la condivisione di elementi identificativi adeguati a “confondere” deve ritenersi frutto di una intenzionale specifica apposizione perché sia rafforzata la tutela del consumatore oppure anche una semplice coincidenza va ricondotta a un’attività di confondere i soggetti (“apponendo si presenta come produttore”) da sanzionare oggettivamente con la responsabilità paritaria rispetto all’effettivo produttore?

La seconda via interpretativa appare, a questo collegio, come già si anticipava, una soluzione prospettabile se si focalizza la comprensione della ratio normativa con particolare intensità nella tutela appunto del consumatore; tuttavia, il collegio è ben consapevole che sarebbe sostenibile anche la linea offerta dalla ricorrente, nell’ottica di controbilanciare gli interessi dei soggetti coinvolti, pur tenendo in conto l’oggettiva “debolezza” consumatore nel rapporto de quo. Si tratta dunque, in ultima analisi, della identificazione di un corretto equilibrio, essendo di per sé la lettera della norma unionale (e dunque, della conformata norma interna) compatibile a entrambe le soluzioni interpretative.

  1. Si ritiene, pertanto, accoglibile la richiesta della ricorrente in ordine alla proposizione alla Corte di giustizia dell’Unione Europea, ai sensi dell’articolo 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, del primo quesito prospettato dalla ricorrente stessa: se sia conforme all’articolo 3, primo comma, direttiva 85/374/CEE – e, se non sia conforme, perché non lo sia l’interpretazione che estenda la responsabilità de/ produttore a/ fornitore, anche se quest’ultimo non abbia materialmente apposto sul bene i/ proprio nome, marchio o altro segno distintivo, soltanto perché i/ fornitore abbia una denominazione, un marchio o un altro segno distintivo in tutto o in parte coincidenti con quello de/ produttore. L’interpretazione della norma di cui il quesito chiede risposta costituisce invero questione pregiudiziale rispetto al restante thema decidendum in quanto, qualora risulti corretta l’interpretazione maggiormente estensiva – cioè la seconda ipotesi sopra indicata – dovrebbe desumersi infondato il ricorso, previa correzione/integrazione motivazionale della sentenza d’appello, mentre, in caso contrario, il ricorso meriterebbe accoglimento.

La risoluzione di questo quesito, per quanto si è sopra evidenziato, rende superflua la proposizione del quesito ulteriore. Il presente giudizio deve essere ovviamente sospeso sino alla definizione della questione pregiudiziale.

P.Q.M.

La Corte, visto l’articolo 267 TFUE, chiede alla Corte di giustizia dell’Unione Europea di pronunciarsi, in via pregiudiziale, sulla seguente questione di interpretazione del diritto dell’Unione Europea: se sia conforme all’articolo 3, primo comma, direttiva 85/374/CEE – e, se non sia conforme, perché non lo sia – l’interpretazione che estenda la responsabilità de/ produttore a/ fornitore, anche se quest’ultimo non abbia materialmente apposto su/ bene i/ proprio nome, marchio o altro segno distintivo, soltanto perché i/ fornitore abbia una denominazione, un marchio o un altro segno distintivo in tutto o in parte coincidenti con quello de/ produttore.

Dispone conseguentemente la trasmissione di copia della presente ordinanza, unitamente agli atti del giudizio, alla cancelleria della Corte di giustizia dell’Unione Europea e sospende il presente giudizio sino alla definizione della suddetta questione pregiudiziale.

Così deciso in Roma il 9 febbraio 2023

Il Presidente

Concorrenza sleale, responsabilità per fatto degli ausiliari .

 

Concorrenza sleale, denigrazione, diffusione, per interposta persona,  di opinioni inerenti l’attività dell’impresa concorrente, responsabilità per fatto degli ausiliari .

Corte di Cassazione, I sezione civile, sentenza n. 18691 del 25.09.2015

La Corte di Cassazione con  la sentenza che si segnala  ha preso posizione in materia di concorrenza sleale affermando i seguenti principi:

  1. Ai fini della configurabilità della concorrenza sleale per denigrazione, le notizie e gli apprezzamenti diffusi tra il pubblico non debbono necessariamente riguardare i prodotti dell’impresa concorrente, ma possono avere ad oggetto anche circostanze od opinioni inerenti in generale l’attività di quest’ultima, la sua organizzazione o il modo di agire dell’imprenditore nell’ambito, la cui conoscenza da parte dei terzi risulti comunque idonea a ripercuotersi negativamente sulla considerazione che ha l’impresa presso i consumatori.
  2. Si devono apprezzare, ai fini della potenzialità lesiva delle denigrazioni, l’effettiva “diffusione”, il contenuto fortemente diffamatorio degli apprezzamenti stessi e la potenzialità espansiva della comunicazione per la scelta dei destinatari.
  3. La concorrenza sleale non è ravvisabile ove manchi il presupposto soggettivo del cosiddetto “rapporto di concorrenzialità”; l’illecito, peraltro, non è escluso se l’atto lesivo sia stato posto in essere da un soggetto (il cd. terzo interposto), che agisca per conto di un concorrente del danneggiato poiché, in tal caso, il terzo responsabile risponde in solido con l’imprenditore che si sia giovato della sua condotta, mentre ove il terzo sia un dipendente dell’imprenditore che ne ha tratto vantaggio, quest’ultimo ne risponde ai sensi dell’art. 2049 c.c. ancorché l’atto non sia causalmente riconducibile all’esercizio delle mansioni affidate al dipendente, risultando sufficiente un nesso di “occasionalità necessaria” per aver questi agito nell’ambito dell’incarico affidatogli.
  4. Ai fini della configurabilità della fattispecie di concorrenza sleale per interposta persona, non si richiede l’esistenza di uno specifico accordo ispirato a tali finalità tra l’imprenditore concorrente e il terzo, ma è necessaria e sufficiente una relazione di interessi tra detti soggetti tale da far ritenere che il terzo, con la propria attività, abbia agito in ragione di quegli interessi.

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott.          RORDORF     Renato                                                                                         –

Dott.          NAPPI             Aniello                                                                                        –

Dott. MERCOLINO Guido                                                                                  – rel.

Dott.     LAMORGESE         Antonio    Pietro  –

Dott.    NAZZICONE      Loredana               –

ha pronunciato la seguente:

sentenza sul ricorso proposto da

 ITALCOOP SOC. COOP. A R.L., in persona del presidente p.t.U., elettivamente domiciliata in Roma, alla via Monte Zebio 30, presso l’avv. CAMICI CLAUDIO, dal quale, unitamente all’avv. GIOVANNI del foro di Milano, è rappresentata e difesa in virtù procura speciale a margine del ricorso;      ricorrente –

contro

la Special Coop Italia Soc. coop. a r.l.,  B.G. e R.

 

 

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 30 aprile 2015 dal Consigliere Dott. Guido Mercolino;

  • udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. DEL CORE Sergio, il quale ha concluso per il rigetto dei primi due motivi di ricorso e l’accoglimento del terzo motivo.
  • avverso la sentenza della Corte di Appello di Milano pubblicata il 15 maggio 2007.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

  1. – L’Italcoop Soc. coop. a r.l. convenne in giudizio la Special Coop Italia Soc. coop. a r.l., B.G. e R., per sentirli condannare al risarcimento dei danni cagionati da atti di concorrenza sleale consistenti nella costituzione della società convenuta, avente denominazione assonante ed oggetto sociale affine a quello di essa attrice, nell’uso di segni distintivi simili, nello storno di soci lavoratori, nello sviamento di clientela, nell’artificiosa pratica di bassi prezzi e nella sottrazione di documentazione.
    1. – Con sentenza del 6 dicembre 2001, il Tribunale di Milano accolse parzialmente la domanda principale, ritenendo sussistente unicamente la concorrenza sleale per sviamento della clientela, ravvisarle nella diffusione di una lettera circolare sottoscritta dal B., e condannando quest’ultimo e la Special Coop al risarcimento dei danni, da liquidarsi in separato giudizio; dichiarò invece inammissibile la domanda riconvenzionale proposta dai convenuti.
  2. Si costituirono i convenuti, e resistettero alla domanda, chiedendo in via riconvenzionale la condanna dell’attrice al risarcimento dei danni derivanti dalla diffusione di notizie false e denigratorie nei confronti della Special Coop e di B.G..
  3. – L’impugnazione proposta dalla Special Coop e dai B. è stata parzialmente accolta dalla Corte d’Appello di Milano, che con sentenza non definitiva del 28 dicembre 2004 ha dichiarato ammissibile la domanda riconvenzionale, confermando nel resto la sentenza di primo grado, e con sentenza definitiva del 15 maggio 2007 ha ritenuto sussistente la concorrenza sleale anche a carico dell’Ital-coop, condannandola al risarcimento dei danni arrecati agli appellanti, da liquidarsi in separato giudizio.
  4. A fondamento della decisione, la Corte ha ritenuto che dalle deposizioni dei testimoni escussi emergesse effettivamente la diffusione di notizie false ed apprezzamenti idonei a determinare discredito nei confronti della Special Coop e del B., attribuendone la paternità a G.D., il quale, nell’incontestata qualità di fiduciario e mandatario della società appellata, in occasione della riconsegna dei libretti di lavoro a due dipendenti passate alla Special Coop, si era lasciato andare ad affermazioni diffamatorie nei confronti del B., accusandolo di essere mafioso e di essere stato arrestato per aver sottratto denaro alla società; tali affermazioni, volte a scoraggiare il trasferimento, erano state fatte in modo subdolo e tendenzioso e in un contesto tale da indurre nelle lavoratrici un giudizio fortemente negativo in ordine alla persona del B. ed alle loro prospettive di lavoro presso la nuova società.
  5. – Avverso la predetta sentenza l’Italcoop propone ricorso per cassazione, articolato in tre motivi. Gl’intimati non hanno svolto attività difensiva.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

  1. – Con il primo motivo d’impugnazione, la ricorrente denuncia la violazione o la falsa applicazione dell’art. 2598 cod. civ., nonché l’omessa o insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, osservando che la sentenza impugnata ha imputato alla società frasi denigratorie proferite da un suo socio lavoratore, senza accertare se esse fossero state pronunciate per conto della società ovvero in collegamento con la stessa. Premesso che la controversia traeva origine dal recesso del B. dall’Italcoop, a seguito della sua estromissione dalla gestione della filiale di (OMISSIS) e dell’affidamento della stessa al G., afferma che l’incarico conferito a quest’ultimo, limitato a tale aspetto operativo, non consentiva di ascrivere ad essa ricorrente le frasi da lui pronunciate, non essendo stata dimostrata la riconducibilità delle stesse alla volontà della società o la sussistenza di un nesso di occasionalità necessaria con le mansioni affidate al socio lavoratore.
    1. – Il motivo è infondato.Alla stregua di tali principi, costantemente ribaditi dalla giurisprudenza di legittimità, non merita censura la sentenza impugnata, nella parte in cui, pur avendo accertato che le espressioni diffamatorie nei confronti del B. e denigratorie nei confronti della Special Coop erano ascrivibili al G., ne ha addebitato la responsabilità all’Italcoop, in virtù del rapporto di dipendenza intercorrente tra quest’ultima ed il predetto soggetto, nonché della circostanza, concordemente riferita dai testi, che le medesime espressioni erano state pronunciate in occasione della chiusura dei rapporti di lavoro con altri dipendenti. L’affermazione della ricorrente, secondo cui il G. subentrò al B. nella gestione della filiale di (OMISSIS) della Cooperativa, suona d’altronde come un’ulteriore conferma della circostanza, ritenuta pacifica dalla sentenza impugnata e desunta comunque anche dalle deposizioni dei testi, che l’autore dell’illecito agì in qualità di fiduciario o mandatario dell’Italcoop, alla quale pertanto la Corte di merito ha correttamente imputato gli effetti delle sue dichiarazioni.
    2. Com’è noto, il principio secondo cui la concorrenza sleale costituisce una fattispecie tipicamente riconducibile ai soggetti del mercato in concorrenza, pur escludendone la configurabilità in mancanza del presupposto oggettivo rappresentato dal cd. rapporto di concorrenzialità, non impedisce di ravvisare l’illecito in questione anche nel caso in cui l’atto lesivo del diritto del concorrente venga posto in essere da un soggetto (cd. terzo interposto) che, pur non essendo egli stesso in possesso dei necessari requisiti soggettivi, ovverosia della qualità di concorrente del danneggiato, si trovi con il soggetto avvantaggiato in una particolare relazione, tale da far ritenere che l’atto sia stato oggettivamente compiuto nell’interesse di quest’ultimo (cfr. Cass., Sez. 1, 6 giugno 2012, n. 9117; 9 agosto 2007, n. 17459; 8 settembre 2003, n. 13071). Qualora poi, come nella specie, l’autore dell’illecito sia un dipendente dell’imprenditore che ne ha tratto vantaggio, quest’ultimo è tenuto a risponderne ai sensi dell’art. 2049 cod. civ., sulla base del mero rapporto intercorrente con il soggetto agente, anche se l’atto non sia causalmente riconducibile allo esercizio delle mansioni affidate a quest’ultimo, risultando sufficiente che tra le stesse e l’illecito sia configurabile un rapporto di occasionalità necessaria, nel senso che il dipendente abbia agito nell’ambito dell’incarico affidatogli, sia pur eccedendo i limiti delle proprie attribuzioni o all’insaputa del datore di lavoro (cfr. Cass., Sez. 3, 4 aprile 2013, n. 8210; 12 marzo 2008, n. 6632; Cass., Sez. lav., 25 marzo 2013, n. 7403).
  2. – Con il secondo motivo, la ricorrente deduce la violazione o la falsa applicazione dell’art. 2598 c.c., nn. 2 e 3, sostenendo che, nel qualificare come atti di concorrenza sleale le espressioni riferite dai testi, la Corte di merito non ha considerato che le stesse non riguardavano i prodotti o l’attività della Special Coop, ma vicende personali del B., estranee all’attività prestata nell’ambito della Special Coop o al periodo in cui ne era socio, ed attinenti al rapporto intercorso con l’Italcoop; esse, non essendo rivolte ai clienti ma a soci lavoratori già transitati nella Special Coop, non integravano una forma di divulgazione illecita, e non erano quindi idonee a provocare discredito, né potevano cagionare alcun danno all’impresa concorrente.
    1. – Il motivo é infondato.Cass., Sez. 1, 8 marzo 2013, n. 5848; 30 maggio 2007, n. 12681).
    2. Nella specie, tuttavia, la potenzialità lesiva delle dichiarazioni denigratorie é stata affermata in virtù del loro contenuto fortemente diffamatorio e della loro destinazione ai dipendenti dell’Italcoop in procinto di trasferirsi presso la Special Coop, nonché della finalità dissuasiva della divulgazione, che. in quanto volta a scoraggiare l’assunzione di tali iniziative da parte dei lavoratori, é stata correttamente ritenuta sufficiente a dimostrare il carattere non occasionale della condotta e la portata espansiva della comunicazione, rivolta a soggetti determinati ma idonea ad estendere i propri effetti ad una pluralità di persone (cfr. al riguardo, Cass., Sez. 1, 29 luglio 1968, n. 2728).
    3. Ai fini della configurabilità della concorrenza sleale per denigrazione, non é infatti necessario che le notizie e gli apprezzamenti diffusi tra il pubblico riguardino specificamente i prodotti dell’impresa concorrente, potendo gli stessi avere ad oggetto anche circostanze od opinioni inerenti più in generale all’attività di quest’ultima, e quindi anche alla sua organizzazione o al modo di agire dell’imprenditore nell’ambito professionale (con esclusione, quindi, della sua sfera strettamente personale e privata), la cui conoscenza da parte dei terzi risulti comunque idonea a ripercuotersi negativamente sulla considerazione di cui l’impresa gode presso i consumatori. E’ pur vero che la lettera dell’art. 2598 c.c., n. 2, richiedendo la “diffusione” delle notizie e degli apprezzamenti denigratori, fa riferimento ad un’effettiva propalazione di fatti e giudizi tra un numero indeterminato, o quanto meno tra una pluralità di persone, in tal modo escludendo, in linea di principio, la configurabilità della fattispecie in esame nell’ipotesi di esternazioni occasionalmente rivolte a singoli interlocutori nell’ambito di separati e limitati colloqui (cfr.
  3. – Con il terzo ed ultimo motivo, la ricorrente lamenta la violazione o la falsa applicazione dell’art. 112 cod. proc. civ. e/o dell’art. 2598 cod. civ., rilevando che la condanna al risarcimento dei danni é stata pronunciata anche in favore di B.R., sebbene la relativa domanda fosse stata proposta soltanto dalla Special Coop e da B.G.; aggiunge che, nel riconoscere ai B. il predetto diritto, la Corte di merito non ha considerato che gli stessi non rivestivano la qualità di imprenditori, con la conseguente esclusione della configurabilità di un rapporto di concorrenza con essa ricorrente.
    1. – Il motivo è parzialmente fondato.Mentre peraltro alla Special Coop doveva essere senz’altro riconosciuta la qualità di soggetto passivo dell’illecito concorrenziale, in quanto società commerciale esercente un’attività in concorrenza con quella dell’Italcoop, non poteva dirsi altrettanto per B.G. e R., i quali, come è pacifico tra le parti, rivestono rispettivamente la carica di amministratore e la qualità di socio della società convenuta: la fattispecie prevista dall’art. 2598 cod. civ., presupponendo innanzitutto la sussistenza di un rapporto di concorrenzialità tra soggetti che esercitino contemporaneamente un’attività industriale o commerciale in un ambito territoriale anche solo potenzialmente comune, non è infatti configurabile nell’ipotesi in cui, come accade nella specie, uno di essi non sia in possesso della qualifica di imprenditore, svolgendo la predetta attività non già in proprio, ma attraverso una società. Nei confronti di B.G., che aveva costituito direttamente e personalmente oggetto delle dichiarazioni denigratorie, la mancanza della qualifica d’imprenditore non impediva tuttavia di affermare l’illiceità dell’attività posta in essere dal fiduciario dell’Italcoop, la cui portata diffamatoria, traducendosi nella lesione dell’onore e della reputazione dell’interessato, consentiva ugualmente il riconoscimento della responsabilità della società attrice, ai sensi degli artt. 2043 e 2049 cod. civ., indipendentemente dalla configurabilità dell’illecito concorrenziale. E’ solo nei confronti di B.R., dunque, che il difetto della qualifica d’imprenditore impediva di ravvisare qualsiasi responsabilità a carico della società attrice, non essendo da un lato configurabile rispetto a quest’ultima il rapporto di concorrenzialità richiesto dall’art. 2598 cod. civ., e non potendo la convenuta essere considerata soggetto passivo del reato di cui all’art. 595 cod. pen., in quanto le dichiarazioni diffamatorie del G. si riferivano esclusivamente all’amministratore della Special Coop. 4. – La sentenza impugnata va pertanto cassata, nei limiti segnati dai motivi accolti, e, non risultando necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., u.c., con il rigetto della domanda di risarcimento dei danni proposta da B.R..
    2. 5. – La mancata costituzione della Special Coop e di B. G. esclude la necessità di provvedere al regolamento delle spese del giudizio di legittimità nei rapporti tra gli stessi e la ricorrente. Nei rapporti tra quest’ultima e B.R., la peculiarità delle questioni trattate induce invece a dichiarare integralmente compensate tra le parti le spese dei tre gradi di giudizio.
    3. Come si evince dalle conclusioni rassegnate nel giudizio d’appello e riportate testualmente nell’epigrafe della sentenza impugnata, la domanda proposta in via riconvenzionale, pur trovando fondamento nell’asserita diffusione di notizie ed apprezzamenti idonei a screditare la Special Coop ed il suo presidente B.G., aveva ad oggetto la condanna dell’attrice al risarcimento dei danni in favore di tutti i convenuti: può quindi escludersi che, nel pronunciare la predetta condanna, la Corte territoriale sia incorsa in ultrapetizione, ravvisabile esclusivamente nel caso in cui il giudice di merito, interferendo nel potere dispositivo delle parti, abbia alterato gli elementi obiettivi dell’azione, sostituendo i fatti costitutivi della pretesa (cd. causa petendi) o emettendo un provvedimento diverso da quello richiesto (c.d. petitum immediato), ovvero attribuendo o negando un bene della vita diverso da quello conteso (c.d. petitum mediato) (cfr. ex plurimis, Cass., Sez. lav., 11 gennaio 2011, n. 455; Cass., Sez. 3, 22 marzo 2007, n. 6945; Cass., Sez. 2, 12 luglio 2005, n. 14552).

PQM

La Corte rigetta i primi due motivi di ricorso, accoglie parzialmente il terzo motivo, cassa la sentenza impugnata, e, decidendo nel merito, rigetta la domanda di risarcimento dei danni proposta da B.R.; dichiara interamente compensate le spese dei tre gradi di giudizio tra l’Italcoop Soc. coop. a r.l. e B.R..

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Prima Sezione Civile, il 30 aprile 2015.

Depositato in Cancelleria il 22 settembre 2015

Responsabilità medica. Trib.le di Reggio Emilia. Responsabilità della struttura sanitaria per omessa o inesatta esecuzione di  intervento di sterilizzazione

Tribunale di Reggio Emilia Sent.1298 del 07.10.15

La norma: Art. 1227 c.c : se il fatto colposo del creditore ha concorso a cagionare il danno, il risarcimento è diminuito secondo la gravità della colpa e l’entità delle conseguenze che ne sono derivate. Il risarcimento non è dovuto per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza. 

Il secondo comma dell’art. 1227 c.c., pone come condizione per il risarcimento dei danni patiti, l’inevitabilità dei danni stessi da parte del creditore- danneggiato.

Impone cioè a quest’ultimo una condotta attiva diretta ad impedire le conseguenze dell’altrui comportamento dannoso, ma nei limiti dell’ordinaria diligenza che, deve intendersi nell’ambito di attività o scelte che non abbiano carattere di eccezionalità o che comportino rischi o sacrifici.

Pertanto, il dovere di usare l’ordinaria diligenza non implica l’obbligo della paziente danneggiata dalla omessa o inesatta esecuzione di un intervento di sterilizzazione di sottoporsi ad interruzione volontaria della gravidanza al fine di evitare i danni conseguenti all’inadempimento, comportando l’intervento abortivo un evidente e rilevante sacrificio alla salute e alla libertà di autodeterminazione della madre.

Occorre precisare, infatti, che in ambito medico, non trova applicazione il principio noto come concorso del fatto colposo del creditore-danneggiato, previsto dal secondo comma dell’art. 1227 c.c..  per il quale la risarcibilità per i danni occorsi al creditore è esclusa qualora questi avrebbe potuto evitarli usando l’ordinaria diligenza, intesa quale condotta non gravosa oltre modo o non eccezionale per il danneggiato-creditore.

Nel caso di specie, è pacifico che il rimedio abortivo esuli dalle attività di ordinaria diligenza afferenti al novero di cui all’art. 1227 c.c. risultando lesivo del diritto di autodeterminazione della gestante.

 Il caso di specie

 Una paziente in occasione di un parto cesareo richiedeva che in tale sede venisse eseguito anche un intervento volto a scongiurare gravidanze future e indesiderate.

Successivamente però, la stessa rimaneva nuovamente incinta e scopriva che non le era stata eseguita alcuna sterilizzazione nonostante ne avesse fatto richiesta scritta. Lamentava, quindi, che la nascita indesiderata le aveva comportato un concreto ed effettivo peggioramento della propria qualità di vita.

Il Giudice preso atto anche che la stessa si era tempestivamente attivata per scongiurare tale evento, ha ritenuto la struttura sanitaria responsabile dei danni patiti dalla gestante.

Testo della sentenza 

R E P U B B L I C A   I T A L I A N A

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

TRIBUNALE ORDINARIO DI REGGIO EMILIA

SEZIONE SECONDA CIVILE

Il Tribunale, nella persona del Giudice dott.ssa Chiara Zompi

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa civile di I Grado iscritta al n. r.g. 564/2012 promossa

da:

Mu. Iq. (C.F. –omissis–) e Pa. Sa. (C.F. –omissis–), con il

patrocinio dell’avv. INTAGLIATA MAURO e dell’avv. INTAGLIATA DOMENICO

(–omissis–) VIA PANSA, 55/I 42100 REGGIO NELL’EMILIA; elettivamente

domiciliati in VIA PANSA, 55/I 42100 REGGIO NELL’EMILIA presso il

difensore avv. INTAGLIATA MAURO

ATTORI

contro

AZIENDA USL DI REGGIO EMILIA, con il patrocinio dell’avv. MAZZA

FRANCO, elettivamente domiciliata in VIA EMILIA SAN PIETRO 27 42100

REGGIO EMILIA presso il difensore avv. MAZZA FRANCO

CONVENUTA

CONCLUSIONI

Il procuratore di parte attrice chiede e conclude come da fogli

allegati al verbale d’udienza di precisazione delle conclusioni.

Il procuratore di parte convenuta chiede e conclude come da memoria

ex art. 183 co. 6, n. 1, c.p.c..

 Fatto

FATTO E DIRITTO

Con atto di citazione ritualmente notificato, Iq. Mu. e Sa. Pa. convenivano in giudizio, innanzi all’intestato Tribunale, l’Azienda USL di Reggio Emilia, in persona del suo legale rappresentante pro – tempore, per sentirla condannare al risarcimento dei danni, patrimoniali e non patrimoniali, sofferti in conseguenza della nascita indesiderata del loro sesto figlio.

In particolare, gli attori esponevano che Pa. Sa., in occasione del suo quinto parto, programmato col taglio cesareo, aveva comunicato al ginecologo la scelta di procedere al contestuale intervento di sterilizzazione tubarica, a tal fine sottoscrivendo, in data 23.02.2007, l’apposito modulo di manifestazione del consenso c.d. informato.

Proseguivano gli attori esponendo che, in data 08.03.2007, la sig.ra Pa. Sa. si era quindi sottoposta, previa esecuzione di anestesia spinale, all’intervento di “taglio cesareo tradizionale” a seguito del quale era stata dimessa, in data 11.03.2007, con diagnosi di “V gravida alla 39 settimana, precesarizzata, presentazione cefalica”, con prescrizione di terapia medica e controllo dopo 6 settimane.

Fatto sta che, nel mese di dicembre 2008, l’attrice si era accorta di essere restata nuovamente incinta e, avendo deciso di portare a termine anche questa gravidanza, in data 10.08.2009 aveva partorito il suo sesto figlio. Ciò posto, deducevano gli attori che i sanitari dell’Ospedale dl Guastalla avevano del tutto omesso di provvedere, successivamente all’effettuazione del taglio cesareo, alla sterilizzazione tubarica, benché espressamente richiesta e autorizzata dalla paziente.

Lamentavano che la nascita del sesto figlio aveva messo a dura prova la situazione economica ed umana della famiglia e aveva esposto la madre un elevato stress fisico e mentale, certificato dalla comparsa di “evidente edema al dorso delle mani e dei piedi, alla regione orbitaria bilateralmente” e di “orticaria allergica ed edema diffuso sottocutaneo”.

Assumevano, quindi, gli attori che la nascita indesiderata aveva cagionato alla madre un danno biologico, nonché ad entrambi i genitori un grave pregiudizio, patrimoniale e non patrimoniale, danni quantificati in complessivi E. 490.206,50. Si costituiva in giudizio la Azienda USL convenuta, contestando la fondatezza della domanda risarcitoria ex adverso formulata e chiedendone l’integrale reiezione. In particolare, la Azienda convenuta negava che la Parveen, all’atto del “prericovero” avvenuto in data 23.02.2007, avesse formulato la richiesta di essere sottoposta a sterilizzazione tubarica. Eccepiva che, in ogni caso, dalla lettera di dimissioni emergeva chiaramente il fatto che tale intervento non era stato eseguito.

Infine, deduceva che l’attrice, scoperta la gravidanza nel dicembre 2008, ben avrebbe potuto ricorrere all’interruzione volontaria della stessa ai sensi della L. n. 194/78.

Nel corso del giudizio, espletati gli incombenti di cui all’art. 183 c.p.c., il G.I. ammetteva le prove orali richieste dalle parti. Infine, all’udienza del 21.5.2015, il G.I., in funzione di Giudice Unico, sulle conclusioni precisate dai procuratori delle parti, tratteneva la causa in decisione a norma dell’art. 190 c.p.c.

Ritiene questo Giudice che, alla luce delle acquisite risultanze processuali, la domanda risarcitoria così come formulata dagli attori sia, almeno in parte, meritevole di accoglimento.

Giova anzitutto osservare che, nella fattispecie, non si verte nell’ipotesi, più ricorrente nella realtà giudiziaria, in cui il paziente allega di aver patito un danno alla salute in conseguenza di azioni od omissioni del medico ovvero di non avere conseguito alcun miglioramento delle proprie condizioni di salute nonostante il suo intervento, ma si verte invece nell’ipotesi, assolutamente diversa, in cui una paziente, premesso di aver concordato con i medici l’esecuzione, in occasione di un parto cesareo, di un intervento volto a scongiurare gravidanze indesiderate, lamenta di essere restata nuovamente incinta a distanza di pochi mesi, in quanto, come accertato in seguito, il programmato intervento di sterilizzazione tubarica non era stato affatto eseguito dai sanitari operanti.

Ebbene, come di recente chiarito dalla Suprema Corte in relazione ad ipotesi del tutto analoga (Cass. n. 24109/2013), deve trovare anche in questo caso applicazione il consolidato principio giurisprudenziale secondo cui il creditore, ossia il paziente che agisca in giudizio deducendo l’inesatto adempimento dell’obbligazione sanitaria, è tenuto a dimostrare l’esistenza del contratto e ad allegare l’inadempimento del sanitario, incombendo sul sanitario (o sulla struttura ospedaliera) l’onere di provare che la prestazione professionale sia stata eseguita in modo diligente. Ciò posto, nel caso che occupa tra le parti non vi è alcuna contestazione in ordine alla sussistenza del rapporto professionale – negoziale dedotto in giudizio e ai fatti descritti in citazione, e, segnatamente, in ordine al ricovero dell’attrice presso l’Unità Operativa di Ostetricia dell’Ospedale di Guastalla per l’esecuzione del programmato intervento di parto cesareo e alla mancata esecuzione, a seguito del predetto parto mediante taglio cesareo, dell’ulteriore intervento di sterilizzazione tubarica. La Azienda USL convenuta si è infatti limitata ad eccepire che “nessuna richiesta in tal senso” sarebbe stata formulata dall’odierna attrice in sede di raccolta anamnestica. L’assunto difensivo risulta tuttavia smentito dall’istruttoria.

Ed invero, com’è pacifico e documentato, in data 23.2.2007, all’atto del “prericovero” per fine gravidanza, la Pa. sottoscrisse apposito modulo di consenso cd informato, con cui dichiarava di autorizzare il personale medico del reparto di ostetricia a praticare sulla sua persona l’intervento di sterilizzazione tubarica, inteso a prevenire ulteriori gravidanze (doc. 1 att.). Come è stato riferito dal teste di parte convenuta dott. Be. Cl., medico ginecologo che raccolse il consenso della paziente, “quella di essere sottoposta a sterilizzazione tubarica è una specifica richiesta della paziente che il medico raccoglie e poi inserisce in cartella clinica, come richiesta accessoria a quella di parto cesareo”. Il teste ha altresì precisato che “se ci sono due moduli di consenso, uno relativo al parto cesareo e l’altro relativo alla sterilizzazione, è perché la paziente ha specificamente richiesto la sterilizzazione”. Sulla scorta del chiaro tenore letterale del documento prodotto da parte attrice sub doc. 1 e della sopra riportata deposizione testimoniale, non può seriamente dubitarsi che la Parveen abbia manifestato in modo inequivoco ai sanitari del nosocomio di Guastalla la sua volontà di essere sottoposta a sterilizzazione tubarica.

Ne è riprova la circostanza che anche il diario infermieristico contenuto al foglio 40 della cartella clinica riporta la annotazione “programma taglio cesareo + S.T.” laddove la sigla S.T., come è stato confermato dai testi Ventura Alessandro e Barbara Dallatomasina, sta per “Sterilizzazione Tubarica” (doc. 2 conv.).

Ciò posto, dovendo ritenersi provato che l’attrice abbia espresso, in occasione della visita ginecologica del 23.2.2007, una chiara volontà di essere sottoposta a sterilizzazione tubarica, del tutto irrilevante appare la circostanza che ella non abbia ribadito tale richiesta “contemporaneamente all’esecuzione del programmato taglio cesareo” ai sanitari presenti in sala operatoria.

Neppure può condividersi la difesa di parte convenuta secondo cui gli attori avrebbero dovuto avvedersi del fatto che la sterilizzazione non era stata praticata, in quanto la stessa non era indicata nella lettera di dimissioni dell’11.3.2007 (pag. 48 doc. 2 conv.).

Sul punto basti osservare che la mera circostanza che la lettera di dimissioni riportasse come intervento praticato sulla paziente (solo) il taglio cesareo non può certo ritenersi di per sé sufficiente a mettere gli attori, peraltro stranieri, in condizione di comprendere che il richiesto intervento di sterilizzazione – per ragioni che erano e sono rimaste sconosciute – non era stato eseguito. Sotto altro profilo, eccepisce la Azienda USL che la Parveen, venuta a conoscenza nel dicembre 2008 di essere rimasta nuovamente incinta, “ben avrebbe potuto legittimamente ricorrere, in forza delle disposizioni della Legge n. 194/78, all’interruzione di gravidanza”.

Anche tale eccezione non merita accoglimento. L’esistenza, nel nostro ordinamento, di un diritto all’aborto non comporta che tale diritto debba essere esercitato, ben potendo sussistere ragioni etiche, morali o religiose che impediscono tale scelta.

D’altra parte, altro è la scelta di non procreare, altro è quella di porre termine ad una gravidanza già in corso, decisione quest’ultima che risulta carica di ripercussioni, fisiche e psicologiche, per la donna.

Ciò detto, deve rammentarsi che, secondo consolidata giurisprudenza, il secondo comma dell’art. 1227 cod. civ., nel porre come condizione per il risarcimento dei danni l’inevitabilità degli stessi da parte del creditore, impone a quest’ultimo una condotta attiva o positiva diretta ad impedire le conseguenze dell’altrui comportamento dannoso ma nei limiti dell’ordinaria diligenza, laddove si intendono comprese nell’ambito dell’ordinaria diligenza, all’uopo richiesta, soltanto quelle attività che non siano gravose o eccezionali o tali da comportare notevoli rischi o rilevanti sacrifici.

Nella fattispecie, non può certo richiedersi alla danneggiata di sottoporsi ad intervento di interruzione volontaria della gravidanza al fine di evitare i danni conseguenti alla mancata esecuzione della sterilizzazione, comportando l’intervento abortivo un evidente e rilevante sacrificio alla salute e alla libertà di autodeterminazione della madre. Sulla scorta delle predette considerazioni, ritenuti sussistenti i dedotti profili di colpa nell’operato dei sanitari del nosocomio di Guastalla, i quali hanno totalmente omesso l’esecuzione dell’intervento di sterilizzazione tubarica richiesto dalla Parveen, va pertanto affermata la responsabilità dell’Azienda USL convenuta, e, per l’effetto, quest’ultima deve essere condannata al risarcimento dei danni sofferti dagli attori. Venendo alla quantificazione dei predetti danni, deve in primo luogo essere rigettata la domanda di risarcimento del danno biologico asseritamente sofferto dalla Parveen. Sul punto occorre infatti rilevare che, com’è pacifico e come emerge dalla cartella clinica prodotta dalla convenuta sub doc. 3, la gravidanza indesiderata ebbe un decorso regolare e si concluse con un intervento di parto cesareo (e sterilizzazione tubarica, richiesta e questa volta eseguita) privo di complicanze, tant’è che nessun profilo di danno alla salute viene dedotto con riferimento al periodo di gestazione.

Piuttosto, lamenta l’attrice che, successivamente al parto, avvenuto in data 10.8.2009, ella aveva sofferto di edema al volto e alle mani e di orticaria, sintomi di uno stato di “elevato stress psicologico”. Tuttavia, è la stessa attrice a riferire che, sottopostasi a visita psichiatrica per i predetti disturbi somatici, non emersero patologie psichiatriche, “ma soltanto un elevato stress psicologico, dovuto allo stravolgimento della qualità della vita” (doc. 3 att.).

Date tali risultanze, non può darsi ingresso alla C.T.U. medico-legale su cui parte attrice ha insistito anche in sede di precisazione delle conclusioni, trattandosi di indagine del tutto esplorativa.

Sotto altro profilo, lamentano gli attori di aver sofferto un danno non patrimoniale conseguente alla lesione del diritto di “autodeterminazione della propria esistenza” da quantificarsi, in via equitativa, in E 110.000,00 in favore della madre Pa. Sa. e in E.70.000,00 in favore del padre Mu. Iq..

Sul punto si osserva che può dirsi ormai acquisito nel nostro ordinamento il riconoscimento della posizione di tutela conseguente alla lesione del diritto all’autodeterminazione della coppia nella scelta di procreare in modo “cosciente e responsabile” (art. 1 L. n. 194 del 1978) che, se frustrato, costituisce un danno ingiusto meritevole di risarcimento, trattandosi di un diritto di libertà che trova tutela nel testo costituzionale (artt. 2 e 13 Cost.).

Come più volte riconosciuto dalla giurisprudenza di merito (Trib. Milano 20.10.1997; Trib. Tolmezzo 7.6.2011, Trib. Latina 21.7.2011; Trib. Busto Arsizio 17.7.2001), se dall’inadempimento del sanitario agli obblighi di diligenza a suo carico consegue la lesione del diritto della paziente di decidere liberamente se procreare o meno, tale inadempimento genera un danno che deve essere risarcito anche nella sua componente non patrimoniale e ciò malgrado il fatto non costituisca reato, trattandosi della lesione di diritti inviolabili della persona riconosciuti dalla Costituzione ed essendosi in presenza di una grave lesione dell’interesse tutelato e di un danno certamente non futile (cfr Cass. S.U. n. 26972/2008).

Inoltre, come chiarito dalla Suprema Corte in fattispecie analoghe, deve ritenersi che entrambi i genitori, e non solo la madre, siano legittimati a richiedere il risarcimento del danno non patrimoniale, essendo anche il padre tra i soggetti protetti dal contratto col medico (cfr. Cass. n. 6735/2002, secondo cui, in tema di responsabilità del medico per omessa diagnosi di malformazioni del feto e conseguente nascita indesiderata, il risarcimento dei danni che costituiscono conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento del ginecologo spetta non solo alla madre, ma anche al padre, “atteso il complesso di diritti e doveri che, secondo l’ordinamento, si incentrano sul fatto della procreazione, non rilevando, in contrario, che sia consentito solo alla madre (e non al padre) la scelta in ordine all’interruzione della gravidanza, atteso che, sottratta alla madre la possibilità di scegliere a causa dell’inesatta prestazione del medico, agli effetti negativi del comportamento di quest’ultimo non può ritenersi estraneo il padre, che deve perciò ritenersi tra i soggetti protetti dal contratto col medico e quindi tra coloro rispetto ai quali la prestazione mancata o inesatta può qualificarsi come inadempimento, con tutte le relative conseguenze sul piano risarcitorio”). Sennonché non è l’inadempimento del sanitario che è di per sé oggetto di risarcimento, ma il danno consequenziale, secondo i principi di cui all’art. 1223 c.c..

Tali principi trovano applicazione anche nel caso di danno non patrimoniale che deve sempre essere provato, trattandosi di danno – conseguenza e non di danno – evento, giacché, come più volte chiarito dalla Suprema Corte, “il danno non patrimoniale, anche nel caso di lesione di diritti inviolabili, non può mai ritenersi in re ipsa, ma va debitamente allegato e provato da chi lo invoca, anche attraverso il ricorso a presunzioni semplici” (tra le tante, Cass. 10527/2011; Cass. 13614/2011; Cass. 7471/2012). Venendo al caso che occupa, ritiene questo giudice che l’onere di allegazione e prova posto a carico del danneggiato dalla giurisprudenza sopra richiamata sia stato adeguatamente assolto soltanto dall’attrice Pa. Sa..

Ed invero, quest’ultima ha domandato il risarcimento del danno cd da nascita indesiderata dedotto con riferimento allo stress ed al disagio conseguente allo stravolgimento delle proprie aspettative e della “qualità” della propria vita a seguito e per l’effetto della nascita del sesto figlio allegando, in particolare, di aver vissuto un periodo di elevato stress fisico e mentale cagionato dalla difficoltà di accudire tre bambini in tenera età “che riposano pochissimo la notte”.

Tale circostanza, non fatta oggetto di specifica contestazione da parte della convenuta, appare altresì comprovata dalla documentazione prodotta in atti dalla attrice, da cui risultano, nel periodo immediatamente successivo al sesto parto, ben due accessi al Pronto Soccorso per disturbi tipicamente psicosomatici (edema ed orticaria). Sulla scorta di tali elementi può ragionevolmente presumersi che la Parveen, già madre di cinque figli, abbia subito un concreto ed effettivo peggioramento della propria qualità di vita per effetto della nascita “indesiderata” del suo sesto figlio, anche ove si consideri che la stessa si era tempestivamente attivata proprio per evitare tale evento.

Si ravvisano pertanto i presupposti richiesti dalla citata giurisprudenza di legittimità per riconoscere la risarcibilità del danno non patrimoniale. Considerati tutti gli acquisiti elementi di giudizio, appare equo riconoscere a tale titolo all’attrice la somma di E. 20.000 liquidata all’attualità comprensiva, cioè, di rivalutazione ed interessi. A diverse conclusioni deve invece pervenirsi con riferimento alla analoga domanda promossa dall’attore Iqbal Muhammad.

Ed invero, quest’ultimo non ha specificamente allegato né provato quali siano stati i concreti riflessi della nascita del suo sesto figlio sulle sue abitudini e su i suoi ritmi di vita.

La difesa dell’attore si è infatti limitata ad argomentare, in modo del tutto generico, che la violazione del diritto alla procreazione si traduce in un danno evento “che si ritiene presuntivamente esistente e consiste nello stravolgimento della vita di più persone, con abitudini, passatempi, ritmi biologici, forzatamente mutati, nella perdita di chance lavorative, nella modifica della vita di relazione, insomma nel totale cambiamento della abitudini di vita”.

Sennonché tali considerazioni di carattere generale, oltre che contrastare con i principi enunciati dalla prevalente giurisprudenza di legittimità la quale, come già si è detto, esclude la configurabilità danno – evento anche nell’ipotesi di danno non patrimoniale, mal si attagliano alla fattispecie concreta ove si consideri che l’attore era già padre di cinque figli, di tal che appare inverosimile ritenere che la nascita del sesto possa aver comportato un radicale mutamento delle sue abitudini di vita. Sulla scorta delle predette considerazioni, la domanda dell’Iqbal di risarcimento del danno non patrimoniale non può trovare accoglimento, non avendo l’attore fornito alcun concreto elemento che consenta di ritenere provato il lamentato pregiudizio, neppure mediante il ricorso a presunzioni.

Resta da esaminare la domanda di risarcimento del danno patrimoniale proposta da entrambi gli attori. Superando un orientamento più risalente che limitava il danno risarcibile solo a quello dipendente dal pregiudizio alla salute fisio – psichica della donna specificamente tutelata dalla legge 194/1978 (Cass. 6464/1994), la recente giurisprudenza di legittimità ha più volte affermato la risarcibilità anche del danno patrimoniale che sia conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento del sanitario, in termini di causalità adeguata (Cass. n. 12195/1998; Cass. n. 14488/2004; Cass. n. 13/2010).

Ciò posto, è indubbio che la nascita di un figlio comporti delle spese, necessarie per il suo mantenimento e la sua educazione fino a raggiungimento della sua indipendenza economica, le quali costituiscono conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento medico e soddisfano l’ulteriore requisito della prevedibilità del danno ai sensi dell’art. 1225 c.c.. Deve pertanto ritenersi che, come allegato dagli attori, il danno economico risarcibile sia costituito dalle spese che i due genitori dovranno sostenere per il mantenimento del figlio fino alla sua indipendenza economica, che può presuntivamente farsi coincidere con il compimento del 23 esimo anno di età (Trib. Cagliari 23 febbraio 1995; Trib. Tolmezzo 7 giugno 2011). Venendo alla quantificazione del predetto pregiudizio, la stessa non può che essere effettuata in via equitativa, data l’oggettiva difficoltà di fornire la prova del danno.

Non avendo gli attori fornito alcuna informazione circa la loro situazione reddituale o l’attività lavorativa svolta, alla liquidazione dovrà procedersi con riferimento al criterio generale ed astratto del costo minimo per il mantenimento di un figlio che può essere individuato nell’importo di E. 300,00 mensili (comprensivo d’interessi legali e rivalutazione monetaria).

Tale importo appare congruo anche ove si consideri che il sesto figlio, normalmente, può utilizzare il vestiario, le attrezzature e i libri già acquistati per i fratelli maggiori, consentendo ai genitori di giovarsi, in qualche misura, di “economie di scala”. Moltiplicando la suddetta somma di E.300,00 per 12 mesi e per 23 anni, agli attori deve essere riconosciuto, a titolo di risarcimento del danno patrimoniale, il complessivo importo di E. 82.800,00.

Quanto invece alle spese anticipate nel corso del tentativo di mediazione obbligatoria (E. 1.293,00 doc. 9 att.), le stesse non possono essere considerate come autonoma voce di danno risarcibile, dovendo invece essere liquidate tra le spese di lite (per tutte, Cass. n. 3523 del 27/10/1969). Sulle somme come sopra liquidate a titolo di danni patrimoniali e non patrimoniali sono dovuti gli ulteriori interessi di legge dalla decisione al saldo.

Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo, sulla base dei parametri di cui al DM 55/2014, avuto riguardo alla somma attribuita alla parte vincitrice piuttosto che a quella domandata.

PQM

P.Q.M.

Il Tribunale, definitivamente pronunciando, reietta o assorbita ogni altra domanda, eccezione o conclusione:

1) – dichiara la convenuta Azienda Unità Sanitaria Locale di Reggio Emilia responsabile dei danni sofferti dagli attori in conseguenza dei fatti oggetto di causa e, per l’effetto

2) – condanna la convenuta al pagamento, in favore dell’attrice Sa. Pa., a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale, della somma, liquidata all’attualità, di E 20.000,00, nonché al pagamento in favore di entrambi gli attori, a titolo di risarcimento del danno patrimoniale, dell’ulteriore somma, sempre all’attualità, di E. 82.800,00, oltre interessi di legge dalla decisione al saldo;

3) – condanna la AUSL convenuta al rimborso in favore degli attori delle spese di lite liquidate in E. 2357,00 per esborsi (di cui E.1.293,00 per spese di tentativo obbligatorio di conciliazione) e in E. 13.430,00 per compensi di avvocato, oltre rimborso spese generali, IVA e CPA come per legge.

REGGIO EMILIA, 7 ottobre 2015

 

 

Il Direttore dei lavori risponde anche dell’errato calcolo delle strutture ?

Corte di Cassazione sentenza  13 aprile 2015 n. 7370

Con questo arresto la Corte di Cassazione  giunge ad affermare  che il direttore dei lavori, nell’accettare l’incarico, deve poter garantire al committente quanto meno una capacità di supervisione e di controllo anche sulla corretta esecuzione degli elementi portanti. Qualora una tale capacità non abbia o non possa esercitare, è tenuto ad astenersi dall’accettare l’incarico o a delimitare specificamente fin dall’origine le prestazioni promesse e le sue conseguenti responsabilità, in relazione alle sue effettive competenze.”.

Nel contesto della motivazione il giudice di legittimità afferma che  “Il direttore dei lavori è la persona di fiducia del committente, incaricata di sorvegliare che le opere vengano correttamente eseguite dall’appaltatore e dal personale di cui questi si avvalga (cfr. fra le tante Cass. civ. Sez. 2, 29 agosto 2013 n. 198 95), intervenendo per tempo anche solo a fermarne l’esecuzione, qualora questa manifesti vizi o difetti“.

Le competenze del Direttore dei Lavori  implicherebbero  un suo coinvolgimento anche nei calcoli strutturali, cosiddetti calcoli dei cementi armati:  “… il geometra direttore dei lavori, pur se non competente per l’esecuzione dei calcoli in cemento armato, fosse o dovesse essere competente a valutare in corso d’opera come l’appaltatore ed i suoi ausiliari, ivi incluso l’ingegnere progettista delle strutture, eseguissero il loro lavoro, sì da rilevare per tempo i gravi difetti delle opere, prima che esse venissero completate in termini talmente difettosi da avere addirittura sollecitato un ordine di sgombero da parte dell’autorità, a causa del pericolo di crollo.”.

 

Testo della sentenza

Corte di Cassazione, sez. III Civile, sentenza 27 gennaio – 13 aprile 2015, n. 7370
Presidente Russo – Relatore Lanzillo

Svolgimento del processo

Vi.Si. ha proposto opposizione al decreto ingiuntivo n. 51/2002, emesso dal Tribunale di Forlì su ricorso dell’impresa edile di v.g. , recante condanna al pagamento di Euro 28.380,54, a saldo del corrispettivo dei lavori di costruzione di una villetta, dati in appalto all’impresa ricorrente.
A fondamento dell’opposizione la Vi. ha dedotto di avere sospeso il pagamento del saldo dei lavori, essendosi evidenziati gravi vizi nella costruzione, in relazione ai quali aveva proposto ricorso per accertamento tecnico preventivo, ed ha chiesto in via riconvenzionale la condanna dell’impresa al risarcimento dei danni.
L’impresa v. ha resistito, negando ogni sua responsabilità per avere eseguito quanto richiestogli dal direttore dei lavori e progettista, geom. V.L. , di cui ha chiesto ed ottenuto la chiamata in causa.
Il V. si è costituito, chiedendo a sua volta che il Tribunale autorizzasse la chiamata in causa ai sensi dell’art. 107 cod. proc. civ. dell’ing. L.A. , progettista e direttore dei lavori strutturali, e del Dott. A.P.L. , geologo.
I chiamati in causa si sono costituiti resistendo alle domande Esperita l’istruttoria anche tramite CTU, con sentenza n. 122/2006 il Tribunale ha revocato il decreto ingiuntivo e ha condannato l’impresa v. , V.L. e L.A. al pagamento di Euro 430.615,60 in risarcimento dei danni, disponendo – quanto ai rapporti interni fra i corresponsabili che il V. e il L. fossero tenuti a manlevare l’impresa nella misura di un terzo ciascuno.
Proposto appello principale dal V. e appelli incidentali dall’impresa v. , dal L. e dalla Vi. – quest’ultima limitatamente al mancato rimborso delle spese di ATP – la Corte di appello ha confermato la decisione di primo grado, accogliendo solo l’appello incidentale della Vi. . Il V. propone quattro motivi di ricorso per cassazione, con atto notificato il 20 luglio 2011.
Resistono con separati controricorsi la Vi. e A.P.L. .
Con atto in data 5.5.2012, designato come comparsa di costituzione di nuovo difensore, la Vi. ha integrato le proprie difese e ha dichiarato di avere sostituito l’avv. Guido Maria Pottino, già nominato codifensore e domiciliatario in Roma, con l’avv. Aldo Seminaroti, quale mero domiciliatario in Roma.
Il ricorrente e la Vi. hanno depositato memoria.

Motivi della decisione

1.- Con il primo motivo il ricorrente V. denuncia violazione di varie norme del codice di procedura civile, ed in particolare dell’art. 112, nonché omessa od insufficiente motivazione su “fatti decisivi” (non meglio specificati), per il fatto che la Corte di appello – emettendo condanna a suo carico, in solido con l’impresa v. – avrebbe accolto una domanda nuova, incorrendo in ultrapetizione.
Assume che l’impresa – unica convenuta – si è limitata a contestare la propria responsabilità nei confronti della committente e a proporre domanda di manleva contro esso V. e che la committente ha proposto la domanda di condanna del V. e degli altri chiamati in causa solo all’udienza di precisazione delle conclusioni.
Né sussisterebbe identità o connessione obiettiva fra i titoli in base ai quali l’impresa v. ed esso V. sono chiamati a rispondere, presupposto per poter estendere la domanda al terzo chiamato (richiama Cass. n. 25559/2008).
2.- Vanno preliminarmente respinte le eccezioni di inammissibilità delle censure, sollevate dalla resistente Vi. .
L’esposizione in fatto del ricorso è sufficientemente chiara e la denuncia di violazione di molteplici norme di diritto di cui non è specificata la pertinenza con le censure sollevate, pur se non encomiabile, non è tale da impedire alla Corte di comprendere agevolmente – dalle argomentazioni difensive l’essenza delle censure rilevanti ai fini della decisione. Neppure è fondata l’eccezione di inammissibilità per difetto di autosufficienza e per la mancata trascrizione degli atti difensivi poiché – avendo le censure carattere processuale – è consentito alla Corte di cassazione di valutarne la fondatezza o meno, mediante diretto accesso agli atti.
2.2.- Nel merito, il motivo non è fondato.
La Corte di appello si è uniformata al principio, più volte affermato dalla giurisprudenza di questa Corte, per cui la domanda dell’attore si estende automaticamente al terzo chiamato in causa in tutti i casi in cui la chiamata del terzo sia effettuata al fine di ottenere la liberazione dello stesso convenuto dalla pretesa dell’attore, in ragione del fatto che il terzo deve essere individuato come unico obbligato nei confronti dell’attore, in vece e luogo dello stesso convenuto. In tal caso si realizza un ampliamento della controversia in senso soggettivo (divenendo il chiamato parte del giudizio in posizione alternativa con il convenuto) ed in senso oggettivo (inserendosi l’obbligazione del terzo, dedotta dal convenuto verso l’attore, in alternativa rispetto a quella individuata dall’attore), ma resta ferma, in ragione di detta duplice alternatività, l’unicità del complessivo rapporto controverso (Cass. civ. Sez. 3, 28 gennaio 2005 n. 1748; Idem, 21 ottobre 2008 n. 25559; Idem, 7 ottobre 2011 n. 20610). La Corte di appello ha accertato che il tenore letterale ed il contenuto sostanziale sia della comparsa di costituzione dell’impresa v. , con la richiesta di chiamata in causa del terzo, sia della conseguente citazione del V. , esprimono inequivocabilmente la volontà di ricondurre a quest’ultimo la responsabilità dei vizi denunciati dalla committente; che pertanto la chiamata in causa è stata effettuata non al solo scopo di garanzia, ma affinché il terzo chiamato rispondesse direttamente e per intero della pretesa dell’attore. Trattasi di interpretazione degli atti di parte, rimessa alla valutazione discrezionale del giudice di merito e non censurabile in sede di legittimità se non sotto il profilo dei vizi di motivazione, che nella specie non sono stati prospettati ed obiettivamente non sussistono.
Neppure va ravvisata l’asserita diversità del titolo in base al quale il convenuto ed il V. sono stati chiamati a rispondere, essendo in entrambi i casi la responsabilità fondata sul contratto di appalto, a cui si ricollega sia la nomina dell’impresa appaltatrice, sia la nomina del direttore dei lavori; sia il rapporto interno di cooperazione e di corresponsabilità fra l’impresa e il direttore dei lavori. Va soggiunto che la più recente giurisprudenza ha esteso l’applicazione del principio sopra enunciato ai casi in cui la chiamata del terzo si fondi su di un rapporto diverso da quello fatto valere in giudizio dall’attore, sul rilievo che si deve avere riguardo all’effettiva volontà del chiamante di attribuire al terzo la responsabilità della cattiva esecuzione delle opere, più che all’identità del rapporto giuridico da cui la responsabilità deriva: ed ha ritenuto che, ove una tale volontà sussista, il giudice può emettere condanna direttamente a carico del terzo, anche se l’attore non ne abbia fatto richiesta, senza incorrere nel vizio di extrapetizione (Cass. civ. 20610/2011 cit.).
3.- Il secondo ed il terzo motivo di ricorso attengono alla questione di merito circa la sussistenza della responsabilità del ricorrente e possono essere congiuntamente esaminati.
Il secondo motivo denuncia violazione del regolamento della professione di geometra (art. 16 r.d. 11 febbraio 1929 n. 274) ed il terzo motivo violazione degli art. 1218, 1292, 1294, 2055, 2230 e 2236 cod. civ., 41 cod. pen., nonché omessa od insufficiente motivazione, sul rilievo che i difetti di costruzione accertati dalla CTU attengono a patologie strutturali della costruzione, la cui esecuzione era affidata al progettista delle strutture ing. L. , ed attiene a calcoli in cemento armato che egli – nella sua qualità di geometra – non ha eseguito e per legge non avrebbe potuto eseguire, trattandosi di competenze riservate agli ingegneri. Ribadisce che egli aveva l’incarico di direttore dei lavori architettonici ed era tenuto a sovrintendere alla mera conformità della costruzione al disegno progettuale, in relazione alla quale i vizi e le difformità denunciate, attinenti alla pavimentazione, al caminetto, alla posa delle luci, a difetti degli intonaci e delle murature e simili, non hanno nulla a che fare con le gravi patologie rilevate; sì che è da ritenere che egli – avendo fatto sospendere il pagamento dell’ultima rata del prezzo (Euro 28.830,54), che non è stata mai corrisposta dalla committente – ha riparato a tutti i danni a lui personalmente imputabili.
3.1.- I motivi non sono fondati.
In primo luogo non vi è violazione delle norme sulla competenza dei geometri, né di quelle generali in tema di inadempimento e di contratto d’opera professionale poiché la Corte di appello ha addebitato al geometra non di avere male eseguito opere di competenza altrui, ma in parte di essere incorso in negligenze ed imperfezioni anche in relazione ai lavori che egli definisce di conformità al progetto architettonico e che attengono al controllo sulla corretta esecuzione da parte dell’impresa delle opere non strutturali e di finitura, quali quelle attinenti alle tubazioni, agli intonaci, ecc.; in parte e soprattutto di non avere svolto diligentemente le mansioni di sua specifica competenza quale direttore dei lavori, considerati nella loro globalità, cioè di non avere esercitato adeguato controllo sull’operato altrui, sì da rilevare in corso d’opera l’inadeguatezza della costruzione degli elementi strutturali – ancorché non di sua competenza – segnalandone per tempo imperfezioni ed errori, pur se ad altri ascrivibili.
Il direttore dei lavori è la persona di fiducia del committente, incaricata di sorvegliare che le opere vengano correttamente eseguite dall’appaltatore e dal personale di cui questi si avvalga (cfr. fra le tante Cass. civ. Sez. 2, 29 agosto 2013 n. 198 95), intervenendo per tempo anche solo a fermarne l’esecuzione, qualora questa manifesti vizi o difetti.
La Corte di appello ha ritenuto – nel suo potere discrezionale di valutazione del comportamento delle parti – che il geometra direttore dei lavori, pur se non competente per l’esecuzione dei calcoli in cemento armato, fosse o dovesse essere competente a valutare in corso d’opera come l’appaltatore ed i suoi ausiliari, ivi incluso l’ingegnere progettista delle strutture, eseguissero il loro lavoro, sì da rilevare per tempo i gravi difetti delle opere, prima che esse venissero completate in termini talmente difettosi da avere addirittura sollecitato un ordine di sgombero da parte dell’autorità, a causa del pericolo di crollo.
Il direttore dei lavori, nell’accettare l’incarico, deve poter garantire al committente quanto meno una tale capacità di supervisione e di controllo anche sulla corretta esecuzione degli elementi portanti. Qualora una tale capacità non abbia o non possa esercitare, è tenuto ad astenersi dall’accettare l’incarico o a delimitare specificamente fin dall’origine le prestazioni promesse e le sue conseguenti responsabilità, in relazione alle sue effettive competenze.
In mancanza, deve quanto meno fornire la prova che i vizi verificatisi non potevano essere obiettivamente rilevati se non a costruzione ultimata: circostanza che nella specie il ricorrente non solo non dichiara di avere dimostrato, ma neppure ha dedotto.
Va condivisa, quindi, la sua affermazione di non essere direttamente responsabile dei vizi strutturali della costruzione, ma non è suscettibile di censura la sentenza impugnata, nella parte in cui gli ha addebitato di non avere saputo esercitare il controllo sull’esecuzione dei lavori anche strutturali, sì da rilevarne per tempo i gravi difetti.
4.- Il quarto motivo denuncia ancora violazione delle norme di cui sopra ed omesso esame di fatti decisivi, ai sensi dell’art. 360 n. 5 cod. proc. civ., nel capo in cui la Corte di appello ha ripartito le colpe fra i responsabili attenendosi all’immotivato giudizio del CTU circa l’uguale responsabilità di tutti, senza valutare criticamente la situazione, né tenere conto della diversa efficienza causale, anche in ordine all’entità dei danni, delle imperfezioni addebitabili al geometra e di quelle strutturali, che hanno compromesso la stabilità del fabbricato, richiedendone l’intero rifacimento.
4.1.- Il motivo non è fondato.
La Corte di appello ha affrontato la questione ed ha accertato (al punto 1.3) che dai punti B e C della relazione peritale si desume che “anche i soli difetti degli elementi architettonici, o comunque direttamente legati alle carenze della direzione generale dei lavori, nel caso concreto sono apparsi tali, per numero e natura, da compromettere in modo considerevole le possibilità di godimento e conservazione dell’edificio. La presenza di un progetto e di una direzione strutturale non poteva certo esonerare il geom. V. o l’impresa costruttrice, ciascuno nell’ambito delle proprie competenze, dall’affrontare e risolvere problemi quali – per citarne solo alcuni – a) la presenza di un grado di vincolamento dell’edificio non idoneo, sia in fondazione, sia in copertura; b) la insufficiente cura di essenziali dettagli costruttivi, primo fra tutti il nodo palo-trave-pilastro che rappresenta uno degli elementi principali per la corretta stabilità del fabbricato; c) la mancanza di idoneo coordinamento fra progettisti, direttori dei lavori ed impresa, per sopperire alle mancanze di cui sopra; d) l’introduzione di modifiche in corso d’opera…”, ecc..
Trattasi di motivazione attinente ad accertamenti in fatto circa la specifica rilevanza causale dei vari comportamenti in ordine al danno che si è verificato, alla quale non possono essere mossi addebiti di illogicità o di insufficienza tali da giustificare l’annullamento della decisione.
5.- Il ricorso non può che essere respinto.
6.- Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza e vanno rimborsate solo alla Vi. , essendo risultato ininfluente ai fini della decisione il controricorso dell’A. .

P.Q.M.

La Corte di Cassazione rigetta il ricorso e condanna il ricorrente a rimborsare alla resistente Vi. le spese del giudizio di cassazione, liquidate complessivamente in Euro 4.000,00, di cui Euro 200,00 per esborsi ed Euro 3.800,00 per onorari, oltre al rimborso delle spese generali ed agli accessori di legge.

 

 

 

Responsabilità civile-danno da prodotti difettosi- Oneri probatori- Responsabilità del produttore- protesi mammaria- svuotamento

Corte di Cassazione   29 maggio 2013, n.13458

Secondo il principio di diritto affermato dalla Cassazione con la sentenza in oggetto, l’ordinamento  pone a carico del produttore l’onere  di provare l’inesistenza del difetto del prodotto ab origine e, in ogni caso, dal momento in cui lo stesso è stato messo in circolazione. Continue reading “Responsabilità civile-danno da prodotti difettosi- Oneri probatori- Responsabilità del produttore- protesi mammaria- svuotamento”

Responsabilità da prodotto difettoso, onere della prova

Corte di Cassazione Sez. III, 8 ottobre 2007, n. 20985

Con il seguente arresto la Corte di Cassazione ha affermato il seguente principio: << Nell’ipotesi di responsabilità civile da prodotti difettosi, disciplinata dal d. P.R. 24 maggio1988, n. 224, il primo comma dell’art. 8 del citato d.p.r. (“Il danneggiato deve provare il danno, il difetto e la connessione causale tra difetto e danno …”) va interpretato nel senso che detto danneggiato deve provare (oltre al danno ed alla connessione causale predetti) che l’uso del prodotto ha comportato risultati anomali rispetto alle normali aspettative e tali da evidenziare la sussistenza di un difetto ai sensi di cui all’art. 5 D.P.R. cit.; invece il produttore deve provare (ex artt. 6 ed 8 D.P.R. cit.), che è probabile che il difetto non esistesse ancora nel momento in cui il prodotto è stato messo in circolazione. >>

Ha altresì puntualizzato che il Giudice del rinvio dovrà tenere presente – a proposito dell’onere probatorio in questione – la norma dell’art. 12 del d.P.R. 24 maggio1988, n. 224. “Clausole di esonero da responsabilità” : “1. È nullo qualsiasi patto che escluda o limiti preventivamente, nei confronti del danneggiato, la responsabilità prevista dal presente decreto”, articolo la cui applicazione è era stata invocata dal ricorrente nell’ambito di argomentazioni strettamente connesse con l’accolta censura.

 

CORTE DI CASSAZIONE CIVILE

Sez. III, 8 ottobre 2007, n. 20985

Pres. Nicastro – Est. Talevi – P.M. (conf.) – D. B. c. Mentor Corporation spa ed altra

Svolgimento del processo. – Nell’impugnata decisione lo svolgimento del processo è esposto come segue.

“Con citazione affidata alla notifica mediante servizio postale il 21 giugno 1995 D. B. conveniva avanti al Tribunale di Mantova la Mentor Corporation e la spa Comesa per sentirle condannare in solido al risarcimento dei danni da lei patiti per la rottura di una protesi mammaria di fabbricazione della prima e distribuita dalla seconda.

Precisava che, sottopostasi ad intervento di mastectomia radicale per neoplasia mammaria presso l’ospedale di Mantova, le era stata applicata, in data 1 febbraio 1992, una protesi mammaria di fabbricazione della Mentor.

Purtroppo, in data 14 maggio 1994 ella aveva notato una certa asimmetria e, sottopostasi a visita, era stato accertato che la protesi, costituita in sostanza da un involucro contenente soluzione salina, si era inspiegabilmente svuotata e la soluzione si era diffusa nei tessuti circostanti. Si era imposto, pertanto, altro intervento, praticato il 9 giugno 1994 presso l’ospedale di Verona per la rimozione dell’involucro e il drenaggio dei tessuti, operazione cui erano seguite altre terapie e previsione di altra operazione di alta specializzazione e di corrispondente costo.

Lamentava gravi danni sia materiali, sia di comprensibile riverbero psichico e precisava che la protesi rimossa era tuttora custodita “…presso il reparto di 2^ divisione chirurgia plastica presso gli istituti ospedalieri di Verona di Borgo Trenta…”.

Resisteva la Comesa spa, negando proprie responsabilità contrattuali o extracontrattuali quanto meno per assoluto difetto dell’elemento psicologico. Precisava, infatti, di essere stata semplice fornitrice della protesi in questione, pervenutale dal fabbricante in confezione sterile e sigillata destinata all’apertura e al controllo da parte del chirurgo in sede di applicazione, così che nulla poteva a lei essere imputato, non senza considerare la propria carenza di legittimazione passiva inammissibile essendo l’azione nei di lei confronti nella ipotesi, qui ricorrente, che il produttore della cosa asseritamente difettosa fosse noto. Infine contestava, difettando al riguardo ogni prova, che la protesi avesse avuto effettivamente vizi.

Resisteva anche la Mentor osservando che la disciplina codicistica era stata integrata dalla legge n. 224 del 1988 che aveva introdotto una particolare figura di responsabilità extracontrattuale di tipo “oggettivo”, vale a dire svincolata dalla colpa del produttore e basata, invece, sul mero rapporto di causalità tra il difetto del prodotto e il danno. La legge stabilisce, infatti, che “il produttore è responsabile del danno cagionato da difetti del suo prodotto” (art..), ma precisa che”un prodotto è difettoso quando non offre la sicurezza che ci si può legittimamente attendere” alla luce di una serie di fattori fra cui “…il modo in cui il prodotto è stato messo in circolazione, la sua presentazione, le istruzioni e le avvertenze fornite..”(art.5).

Premesso ciò, sottolineava la convenuta come la protesi in questione fosse messa in commercio corredata di dettagliate istruzioni che senza mezzi termini ammonivano il consumatore sulle possibilità di rischio del suo impiego, sui limiti di affidabilità, sulle controindicazioni, sulle situazioni in cui era addirittura sconsigliato l’impiego e, in particolare, sulla possibilità, espressamente prevista, di sgonfiamento legata ad una lunga serie di fattori possibili e individuati, nonché ad una serie ulteriore di fattori inconoscibili.

Sottolineava anche la Mentor che non si trattava affatto di un prodotto in libero commercio, bensì di un prodotto non reclamizzato, né offerto direttamente al pubblico, ma fornito su espressa richiesta del medico a propria volta tenuto ad informare il paziente di tutti i rischi e le controindicazioni di esso, così che l’attrice doveva essere pienamente consapevole di tutto ciò nel momento in cui aveva accettato di lasciarsi impiantare la protesi de qua, con conseguente assenza di ogni responsabilità a carico della deducente anche alla luce del disposto dell’articolo 10 della legge secondo cui “…il risarcimento non è dovuto quando il danneggiato sia stato consapevole del difetto del prodotto e del pericolo che ne derivava e nondimeno vi si sia volontariamente sottoposto …”.

Osservava, poi, che, sempre secondo la legge, “…la responsabilità è esclusa…se il difetto che ha cagionato il danno non esisteva quando il produttore ha messo in circolazione il prodotto…”. Precisava che, prima di uscire dalla fabbrica, ciascuna protesi viene sottoposta ad accurati controlli qualitativi e a sterilizzazione e, in ogni caso, le informazioni allegate prevedevano ben specifici test che il chirurgo avrebbe dovuto effettuare sulla protesi prima di impiantarla. Orbene, se il chirurgo impiantò la protesi, ciò vuol dire che i test avevano dato risultati soddisfacenti e, se così fu se ne trae necessariamente che non esistevano difetti al momento della messa in circolazione del prodotto. Se, viceversa, il giudizio implicito (di assenza di difetti) era stato determinato dalla non corretta esecuzione dei test nonostante le raccomandazioni di essa produttrice, di certo della cattiva riuscita dell’impianto l’attrice non aveva titolo per dolersi nei confronti del produttore. Inoltre, le protesi venivano consegnate vuote, essendo compito del chirurgo provvedere al loro riempimento, al momento dell’impiego, con una soluzione salina e secondo specifiche istruzioni fornite dalla Mentor, così che se tutto ciò era stato fatto ne conseguiva necessariamente che la protesi era apparsa integra al chirurgo che aveva deciso, quindi di impiantarla. Non senza considerare che l’articolo 8 secondo comma della Legge stabilisce che “…ai fini dell’esclusione da responsabilità prevista nell’articolo 6 lettera b, è sufficiente dimostrare che, tenuto conto delle circostanze, è probabile che il difetto non esistesse ancora nel momento in cui il prodotto è stato messo in circolazione…”. Contestava, infine, il nesso causale fra le voci di danno indicate dall’attrice e l’episodio contestato, ribadendo, in ogni caso, l’assenza di propria responsabilità.

Alla causa era riunita altra causa nel frattempo instaurata dalla Mentor nei confronti di F. B. e dell’ospedale Carlo Poma di Mantova dai quali, nella rispettiva qualità di chirurgo che aveva proceduto all’impianto della protesi e di ospedale presso cui l’operazione era stata eseguita, la Mentor chiedeva essere manlevata nell’ipotesi di accoglimento della domanda attrice.

Entrambi si erano costituiti con unico patrocinio respingendo ogni addebito.

Si procedeva a tentativo di conciliazione che non riusciva, quindi a consulenza tecnica medica e, infine, dopo alcune deduzioni e controdeduzioni e l’assunzione di prova testimoniale, la causa era decisa con sentenza 13 giugno 2001 che accoglieva la domanda svolta nei confronti della Mentor e della spa Comesa, nonché la domanda di manleva svolta da quest’ultima nei confronti della Mentor, che condannava alle spese nei confronti di B. e dell’ospedale Carlo Poma e, in solido con la Comesa, nei confronti dell’attrice.

Appellava la Mentor con citazione notificata il 16 ottobre 2001 e, nel contraddittorio della B., che resisteva al gravame proponendo impugnazione incidentale, della spa Comesa e di F. B., il quale avanzava domanda di condanna della spa Mentor per lite temeraria e dell’ospedale Carlo Poma, la causa era trattenuta in decisione sulle sopra trascritte conclusioni.

Con sentenza 8.1 -20.5.2003 la Corte d’Appello di Brescia decideva come segue: “1n riforma della sentenza 13 giugno 2001 del giudice unico del Tribunale di Mantova, respinge la domanda di D. B. e ne compensa le spese con Mentor Corporation e spa Co.Me.Sa.. Condanna la Mentor Corporation a rifondere a F. B. e all’ospedale Carlo Poma di Mantova le spese dei due gradi liquidate in complessivi € 3,000,00 quanto al primo ed € 3.500,00 quanto al presente”.

Contro questa decisione ha proposto ricorso per tassazione D. B..

Ha resistito con controricorso la Mentor Corporation.

  1. B. ha depositato memoria.

Motivi della decisione. – Con il primo motivo di ricorso D. B. denuncia “Violazione e falsa applicazione della norma di diritto in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c. violazione dpr 224/88 e agli artt. 1490-1494-2043 c.c.” esponendo varie dog1ianze; le prime di queste vanno riassunte come segue. Accogliendo in toto le tesi difensive dell’appellante Mentor Corporation il Giudice dell’Appello, omettendo qualsiasi considerazione sulle opposte tesi difensive dell’appellata B., ha violato il fondamento della normativa posta a tutela del consumatore, stravolgendone, con un ragionamento incompleto, incoerente ed illogico, lo spirito e il contenuto. Orbene in base al d.p.r. 24 maggio 1988 n. 224 il produttore è responsabile per i danni causati da difetti dei suoi prodotti. Il giudice d’appello ha ritenuto che dopo due anni e quattro mesi (lasso temporale assolutamente inaccettabile) dalla installazione lo svuotamento della protesi non concreta difetto quanto piuttosto manifestazione della possibile esistenza di un difetto. L’onere della prova dell’assenza di difetti incombe in ogni caso sul produttore non sul consumatore come ha erroneamente ritenuto, stravolgendo lo spirito della norma, il Giudice d’Appello (“incombeva all’attrice dimostrare:. . . il difetto e il nesso causale tra questo e il danno”; v. a pag. 10 sentenza Corte D’Appello) né può essere soppressa o limitata la responsabilità del produttore con clausole esonerative o limitative della responsabilità come erroneamente ritenuto dallo stesso giudice. Il tribunale di Mantova, correttamente e conformemente allo spirito della norma, con sentenza 597/01 ha sottolineato che “il fatto che il produttore non garantisca la durata illimitata della protesi non può portare ad escludere la sua responsabilità in tutti quei casi in cui la protesi ha avuto una durata tanto limitata nel tempo (nella fattispecie poco più di due anni) da deludere le aspettative, anche le più pessimistiche, di un paziente che decide di sottoporsi ad un intervento chirurgico”. L’art. 12 del DPR 224/88 stabilisce il divieto assoluto di clausole di esonero della responsabilità.. Nel caso in esame, dalla copiosa documentazione prodotta in atti dalla dr.ssa B. relativa al contenzioso dei consumatori portatori di protesi di produzione Mentor Corporation in essere negli USA, ingiustificatamente trascurata dal giudice d’appello, appare più che evidente la responsabilità del produttore per quella tipologia di protesi. La Mentor Corporation non ha superato l’onere della prova dell’assenza di difetti, né ha superato il principio del neminem laedere che implica l’onere di vigilare affinché i beni non presentino difetti di sicurezza tali da arrecare danno alle persone.

Il primo punto essenziale affrontato dalla parte ricorrente riguarda dunque il sopra citato onere della prova.

La Corte d’Appello basa il suo assunto sul seguente rilievo:

“. . . Pur se il d.p.r. 24 maggio 1988 n.224 ha reso più accessibile la tutela extracontrattuale avendo sollevato il danneggiato dall’onere di dimostrare la colpa del produttore, per altro verso ha ribadito la necessità che egli dimostri “…il danno, il difetto e la connessione causale tra difetto e danno…”(art. 8). Che nella specie danno vi sia stato, a parte le distinzioni proposte dall’odierna appellante fra conseguenze dirette dello svuotamento e affezioni meglio ricollegabili alla morbilità pregressa, è, sostanzialmente, fuori discussione. Ciò che incombeva all’attrice dimostrare erano quindi gli altri due requisiti, vale a dire il difetto e il nesso causale fra questo e il danno ….”.

Da tale brano e dal contesto della motivazione si evince: che secondo detta Corte il danneggiato ha l’onere di provare tra l’altro che il produttore ha messo in circolazione un prodotto con il difetto che ha cagionato il danno.

Se ci si limita a considerare il primo comma dell’art. 8 cit. (avente il contenuto citato nella sentenza) tale tesi interpretativa può apparire a prima vista fondata.

Ma la questione va in realtà affrontata considerando il complesso di norme in questione.

In particolare il secondo comma di detto art. 8 recita: “… Il produttore deve provare i fatti che possono escludere la responsabilità secondo le disposizioni dell’art. 6. ai fini dell’esclusione da responsabilità prevista nell’art. 6, lettera b), è sufficiente dimostrare che, tenuto conto delle circostanze, è probabile che il difetto non esistesse ancora nel momento in cui il prodotto è stato messo in circolazione.”.

L’articolo 6 (“Esclusione della responsabilità”) citato da detta norma stabilisce quanto segue: “1. La responsabilità e esclusa: a) se il produttore non ha messo il prodotto in circolazione; b) se il difetto che ha cagionato il danno non esisteva quando il produttore ha messo il prodotto in circolazione….”.

La circostanza che il legislatore abbia incluso nell’onere probatorio a carico del produttore la circostanza di cui al punto b) ora citato, e cioè abbia previsto che sia detto produttore a dover provare che “… Il difetto che ha cagionato il danno non esisteva quando il produttore ha messo il prodotto in circolazione….”, rende impossibile sostenere che un onere siffatto gravi sul danneggiato. In altri termini esclude che il danneggiato debba dimostrare la sussistenza del difetto fin dal momento in cui il produttore ha messo il prodotto in circolazione.

A questo punto l’unica interpretazione logicamente possibile e coerente con la ratio del D.P.R. in esame (chiaramente volta ad assicurare una maggiore tutela del danneggiato) consiste nell’interpretare il primo coma dell’art. 8 cit. (art. 8. Prova 1. “Il danneggiato deve provare il danno, il difetto e la connessione causale tra difetto e danno …”) nel senso che detto danneggiato deve dimostrare (oltre al danno ed alla connessione causale predetta) che l’uso del prodotto ha comportato risultati anomali rispetto alle normali aspettative; e cioè ha l’onere di provare (secondo le specifiche previsioni del legislatore contenute nell’art. 5: “… Art. 5. Prodotto difettoso. 1. Un prodotto è difettoso quando non offre la sicurezza che ci si può legittimamente attendere tenuto conto di tutte le circostanze, tra cui: …”) che il prodotto (durante detto uso) si è dimostrato “… Difettoso …” non offrendo “… La sicurezza che ci si …” poteva “… Legittimamente attendere tenuto conto di tutte le circostanze …” di cui al prosieguo dell’art. 5 cit.

Una volta che il danneggiato ha dimostrato che il prodotto ha evidenziato il difetto durante l’uso, che ha subito un danno e che quest’ultimo è in connessione causale con detto difetto, è il produttore che ha l’onere di provare che quest’ultimo (il difetto riscontrato) non esisteva quando ha posto il prodotto in circolazione.

Nella fattispecie in esame D. B. aveva dunque l’onere di dimostrare che nel corso dell’uso (entro un congruo periodo di tempo dall’impianto) la protesi aveva manifestato il difetto (si era vuotata), che vi era stato un danno e che sussisteva il suddetto nesso eziologico.

La Mentor Corporation doveva a questo punto adempiere l’onere probatorio previsto dall’art. 6 ed 8 cit. dimostrando, in particolare, che era probabile che il difetto non esistesse ancora nel momento in cui il prodotto era stato emesso in circolazione (in altre parole la problematica dei traumatismi dopo l’impianto rientrava – in linea generale – nell’ambito dell’onere probatorio incombente su detta società).

In conclusione va enunciato il seguente principio di diritto: “il primo comma dell’art. 8 del D. P. R. 24 maggio 1988, n. 224 (“Il danneggiato deve provare il danno, il difetto e la connessione causale tra difetto e danno …”) va interpretato nel senso che detto danneggiato deve provare (oltre al danno ed alla connessione causale predetti) che l’uso del prodotto ha comportato risultati anomali rispetto alle normali aspettative e tali da evidenziare la sussistenza di un difetto ai sensi di cui all’art. 5 D.P.R. cit.; invece il produttore deve provare (ex artt. 6 ed 8 D.P.R. cit.), che è probabile che il difetto non esistesse ancora nel momento in cui il prodotto è stato emesso in circolazione.”.

La corte di merito non ha applicato tale principio di diritto.

L’impugnata sentenza va dunque cassata.

Le ulteriori doglianze debbono ritenersi assorbite (e potranno essere riproposte nel giudizio di rinvio) in quanto tutte le risultanze probatorie dovranno essere riprese in esame dal Giudici del rinvio alla luce del principio ora enunciato (tenendo peraltro anche presente l’art. 12. Clausole di esonero da responsabilità: “1. È nullo qualsiasi patto che escluda o limiti preventivamente, nei confronti del danneggiato, la responsabilità prevista dal presente decreto”, articolo la cui applicazione è giustamente invocata dal ricorrente nell’ambito di argomentazioni strettamente connesse con la censura – sopra accolta – circa l’onere probatorio in questione).

I1 Giudice del rinvio va individuato nella medesima Cotte di Appello di Brescia in diversa composizione.

A detto Giudice va rimessa anche la decisione sulle spese del giudizio di c.

Responsabilità da prodotto e onere della prova

I danni da responsabilità civile per prodotto difettoso sono in aumento per le aziende europee ed extraeuropee. In particolare in Italia è notevolmente aumentato il numero delle azioni di richiamo di prodotti difettosi dal mercato e delle sentenze a sfavore dei produttori, anche per effetto della entrata in vigore del Codice del Consumo (D. Lgs. n. 2 del 6 settembre 2005) che ha agevolato l’azione dei consumatori contro i produttori.

Alcuni casi recenti hanno evidenziato come una scorretta gestione di tali rischi possa risultare dannosa per l’azienda, sia in termini di danni economici diretti, relativi a costi d’intervento e richieste di risarcimento, sia in termini di danni indiretti quali il pregiudizio dell’immagine aziendale.

In un’ ottica di prevenzione dei rischi derivanti da prodotto difettoso gioverà segnalare i più recenti casi giurisprudenziali.

Casistica giurisprudenziale nazionale. Responsabilità da prodotto e onere della prova

Tribunale di Pontedera del 28/02/2011

 Questa pronuncia si segnala perché ha delineato in modo puntuale le regole in tema di ripartizione dell’onere probatorio, tra il consumatore e il produttore, nel caso in cui il primo lamenti un danno cagionatogli dal bene acquistato. Il caso è quello di un motociclista rimasto gravemente ustionato a seguito all’esplosione del serbatoio del proprio scooter in occasione di un sinistro stradale. Il motociclista sosteneva che l’intrinseca insicurezza e difettosità del prodotto (nella fattispecie il serbatoio) sarebbe stata l’unica causa dell’incidente e diretta conseguenza di un difetto di progettazione del medesimo. La casa produttrice convenuta, dal canto suo, nel tentativo di offrire la prova liberatoria contestava essenzialmente la condotta del conducente al momento del sinistro, indicandola quale causa esclusiva dell’evento dannoso occorso. Il giudice pisano in conformità alle recenti pronunce dei Tribunali nazionali in tema di product liability ha disposto che “…Quando il danneggiato ha dato prova dell’insicurezza del prodotto, si presume iuris tantum la responsabilità del produttore e spetta a quest’ultimo la prova della scorrettezza o dell’anomalia del comportamento del consumatore nell’utilizzazione del prodotto al fine di escludere il carattere originario del difetto”. Pertanto, non avendo il produttore fornito adeguata prova liberatoria, dimostrando l’anomalia del comportamento del consumatore, è stato condannato al risarcimento dei danni subìti dal motociclista.