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Contrattualistica. Clausole vessatorie, l’approvazione in blocco le rende inefficaci

“Il richiamo in blocco di tutte le condizioni generali di contratto o di gran parte di esse, comprese quelle  che non hanno carattere oneroso, e la sottoscrizione indiscriminata di esse, sia pure sotto l’elencazione delle stesse secondo il numero d’ordine, non determina la validità ed efficacia, ai sensi dell’art. 1341 c.c., comma 2, delle clausole vessatorie.”

In un’epoca in cui il consumatore è continuamente sollecitato ad assumere impegni contrattuali mediante adesione a moduli prestampati  scarsamente intelleggibili (ad es. i contratti per l’erogazione dei servizi o per l’acquisto di prodotti  on-line) è certamente importante acquisire informazioni per difendersi dalle aggressioni dei sempre più incalzanti  e abili procacciatori o dalle offerte veicolate dalla rete .

Costituisce ormai un principio acquisito nella giurisprudenza della Corte di Cassazione che l’adempimento della specifica approvazione per iscritto delle clausole vessatorie può dirsi assolto soltanto quando le stesse siano oggetto di un’approvazione separata, specifica e autonoma, distinta dalla sottoscrizione delle altre condizioni dell’accordo. Il requisito assolve in tal modo alla finalità di richiamare l’attenzione del contraente debole verso il significato di quella determinata specifica clausola a lui sfavorevole, sicché esso può reputarsi assolto soltanto quando la sottoscrizione avviene con modalità idonee a garantire tale attenzione.

Numerose sentenze si sono susseguite nell’ultimo decennio a tale proposito  (tra le altre Cass. n. 9492/2012, Cass. n. 24262/2008, Cass. n. 5733/2008, Cass. n. 7748/2007, Cass. n. 4452/2006, Cass. n. 13890/2005 )-

Riassumiamo qui i tratti salienti di due pronunce tra le più recenti.

Il Trib.le di Reggio Emilia (Sent. 30.10.2014 ) è stato  chiamato a decidere una controversia in cui una Banca aveva risolto un contratto di leasing in seguito al mancato pagamento di alcuni canoni da parte dell’utilizzatore Alfa, ed era rientrata in possesso di beni. Il curatore del fallimento Alfa aveva evocato in giudizio la  Banca e, sul presupposto della natura traslativa del leasing e quindi dell’applicazione analogica dell’articolo 1526 c.c. aveva chiesto la restituzione dei canoni versati, con deduzione dell’equo compenso per l’uso dei beni ( nella specie era stato pagato l’86% dei canoni pattuiti).

La Banca nel costituirsi in giudizio eccepiva l’incompetenza territoriale del giudice adito, richiamando la clausola contrattuale che prevedeva la competenza esclusiva del Foro di Milano.

Il Tribunale ha ritenuto, a questo proposito, l’inefficacia dell’approvazione della clausola, perché l’approvazione di tutte le clausole del contratto, “comprese anche quelle non vessatorie, integra un riferimento generico che priva l’approvazione della specificità e della separatezza richiesta dall’art. 1341 cc rendendo difficoltosa la selezione e la conoscenza delle clausole a contenuto realmente vessatorio, in quanto la norma richiede non solo la sottoscrizione separata ma anche la scelta di una tecnica redazionale idonea a suscitare l’attenzione del sottoscrittore sul significato delle clausole specificamente approvate”

Lo stesso principio aveva affermato la Corte di Cassazione, sez. II Civile, con sentenza n. 2970/12 accogliendo il ricorso della parte che assumeva che non potevano essere considerate vessatorie, in particolare, le clausole contrattuali disciplinati il corrispettivo, i tempi di esecuzione del contratto e le penali e la risoluzione del rapporto e, tra le condizioni generali, quella attinente alla documentazione ed al criterio di prevalenza, di conoscenza delle condizioni di esecuzione, in materia di inadempienze. Ha ribadito, quindi, con riferimento all’ipotesi in cui la distinta sottoscrizione richiami più condizioni generali di contratto, che l’adempimento in parola può ritenersi realizzato soltanto nel caso in cui tutte le clausole richiamate siano vessatorie, mentre il richiamo in blocco di tutte le condizioni generali di contratto o di gran parte di esse, comprese quelle prive di carattere vessatorio, e la sottoscrizione indiscriminata di esse, sia pure sotto l’elencazione delle stesse secondo il numero d’ordine, non determina la validità ed efficacia, ai sensi dell’art. 1341 c.c., comma 2, di quelle onerose.

 

Le registrazioni audio e video fatte col cellulare tra i presenti costituiscono prova documentale lecita e perfettamente utilizzabile nel processo

Registrazioni audio e video effettuate tra presenti, valore di prova nel processo (Corte di Cassazione III Sezione Penale Sentenza n. 5421/2017)

Testo della sentenza

Corte di Cassazione, sez. III Penale Sentenza 12 maggio 2016 – 3 febbraio 2017, n. 5241  Presidente Ramacci – Relatore Socci

Ritenuto in fatto  1. Il Tribunale di Perugia, sezione per il riesame, con ordinanza del 23 febbraio 2016, confermava l’ordinanza, del Giudice per le indagini preliminari di Perugia del 4 febbraio 2016, di applicazione nei confronti di T.S. , degli arresti domiciliari, per i reati di cui agli art. 319 quater cod. pen. (capo A) e 609 bis comma 2, n. 1 e 609 septies, comma 4, n. 3 e 4 cod. pen. (capo B),per aver indotto la prostituta P.A.A. ad avere rapporti sessuali, e abusando della sua inferiorità psichica per aver indotto indebitamente M.M. ad avere con lui in due circostanze rapporti sessuali; in (omissis) ; il T. era Brigadiere dei C.C. addetto alla stazione di (omissis) .

  1. Ricorre in Cassazione T.S. , tramite il suo difensore, deducendo i motivi di seguito enunciati, nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall’art. 173, comma 1, disp. att., c.p.p..  2.1. Violazione di legge, art. 319 quater del cod. pen.; vizio di motivazione per manifesta illogicità, mancanza e contraddittorietà. T. a dire dell’ordinanza impugnata si sarebbe adoperato in favore della P. ove ci fossero stati problemi con i clienti della prostituta (prospettazione abusiva per l’induzione indebita). L’attività di controllo e di protezione, invece, è un’attività doverosa delle forze dell’ordine e il reato di cui all’art. 319 quater cod. pen. si verifica solo nelle ipotesi di prospettazione di disattendere i propri doveri con indebito vantaggio. La mera rappresentazione da parte del ricorrente di impiegare le sue prerogative di carabiniere a salvaguardia della P. non poteva essere inserita nel paradigma punitivo dell’art. 319 quater del cod. pen.. Manca inoltre un vantaggio indebito per la P. , in vista del quale ella avrebbe concesso i suoi favori sessuali. La maggiore tranquillità e sicurezza nell’esercizio dell’attività meretricio – costituiva una legittima pretesa della P. . Nessuna risorsa appetibile avrebbe costituito la condotta del ricorrente per la P. , e la stessa quindi non sarebbe stata minimamente condizionata dalla prospettazione di generica protezione e tranquillità. Non è spiegato nell’ordinanza impugnata come la condotta del ricorrente avesse espresso efficacia condizionante della condotta della P. . Dagli atti emerge la condizione di assoluta regolarità amministrativa della P. , regolarmente soggiornante in Italia.

2.2. Violazione di legge, art. 609 bis comma 2, n. 1 del cod. pen. sulla conoscenza da parte del ricorrente delle condizioni di inferiorità psichica della parte offesa. Vizio di motivazione. La conoscenza dello stato di inferiorità è il presupposto logico giuridico della norma. Lo stesso deve essere conosciuto e utilizzato dal soggetto per la realizzazione del delitto. L’ordinanza impugnata nella motivazione ritiene la conoscenza dello stato di minorazione psichica della vittima, con un ragionamento circolare, ovvero “conosceva perché non poteva ignorare”. Gli accertamenti medici sulla M. sono successivi ai fatti dell’imputazione (disfunzionalità emotive). Da immagini estratte da Facebook la M. non  appariva affatto gravata da disturbi relazionali.

2.3. Difetto assoluto di motivazione sul concreto ed attuale pericolo di recidivanza criminosa ex art. 274, lettera C del cod. proc. pen.. T. era già sospeso dal servizio e quindi nell’impossibilità di godere della funzione per commettere reati della stessa specie. La motivazione dell’ordinanza che afferma la mancata produzione della sospensione dal servizio è errata poiché normativamente (art. 915 del d. lgs. n. 66 del 2010 – codice dell’ordinamento militare-) la sospensione precauzionale dall’impiego è sempre disposta nei confronti del militare sottoposto a misure cautelari limitative della libertà personale. Ha chiesto quindi l’annullamento del provvedimento impugnato.

Considerato in diritto

  1. Il ricorso è infondato e deve respingersi con condanna del ricorrente alle spese del procedimento. Deve premettersi che le valutazioni compiute dal giudice ai fini dell’adozione di una misura cautelare personale devono essere fondate, secondo le linee direttive della Costituzione, con il massimo di prudenza su un incisivo giudizio prognostico di “elevata probabilità di colpevolezza”, tanto lontano da una sommaria delibazione e tanto prossimo a un giudizio di colpevolezza, sia pure presuntivo, poiché di tipo “statico” e condotto, allo stato degli atti, sui soli elementi già acquisiti dal pubblico ministero, e non su prove, ma su indizi (Corte Cost., sent. n. 121 del 2009, ord. n. 314 del 1996, sent. n. 131 del 1996, sent. n. 71 del 1996, sent. n. 432 del 1995). La specifica valutazione prevista in merito all’elevata valenza indiziante degli elementi a carico dell’accusato, che devono tradursi in un giudizio probabilistico di segno positivo in ordine alla sua colpevolezza, mira, infatti, a offrire maggiori garanzie per la libertà personale e a sottolineare l’eccezionalità delle misure restrittive della stessa. Il contenuto del giudizio da farsi da parte del giudice della cautela è evidenziato anche dagli adempimenti previsti per l’adozione dell’ordinanza cautelare. L’art. 292 c.p.p., come modificato dalla L. n. 332 del 1995, prevedendo per detta ordinanza uno schema di motivazione vicino a quello prescritto per la sentenza di merito dall’art. 546 c.p.p., comma 1, lett. e), impone, invero, al giudice della cautela sia di esporre gli indizi che giustificano in concreto la misura disposta, di indicare gli elementi di fatto da cui sono desunti e di giustificare l’esito positivo della valutazione compiuta sugli stessi elementi a carico, sia di esporre le ragioni per le quali ritiene non rilevanti i dati conoscitivi forniti dalla difesa, e comunque a favore dell’accusato (comma 2, lett. c) e c bis).

3.1. Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, in tema di misure cautelari personali, per gravi indizi di colpevolezza devono intendersi tutti quegli elementi a carico, di natura logica o rappresentativa, che – contenendo in nuce tutti o soltanto alcuni degli elementi strutturali della corrispondente prova – non valgono di per sé a dimostrare, oltre ogni dubbio, la responsabilità dell’indagato e tuttavia consentono, per la loro consistenza, di prevedere che, attraverso la futura acquisizione di ulteriori elementi, saranno idonei a dimostrare tale responsabilità, fondando nel frattempo una qualificata probabilità di colpevolezza (Sez. U, n. 11 del 21/04/1995, dep. 01/08/1995, Costantino e altro, Rv. 202002, e, tra le successive conformi, Sez. 2, n. 3777 del 10/09/1995, dep. 22/11/1995, Tomasello, Rv. 203118; Sez. 6, n. 863 del 10/03/1999, dep. 15/04/1999, Capriati e altro, Rv. 212998; Sez. 6, n. 2641 del 07/06/2000, dep. 03/07/2000, Dascola, Rv. 217541; Sez. 2, n. 5043 del 15/01/2004, dep. 09/02/2004, Acanfora, Rv. 227511). A norma dell’art. 273 c.p.p., comma 1 bis, nella valutazione dei gravi indizi di colpevolezza per l’adozione di una misura cautelare personale si applicano, tra le altre, le disposizioni contenute nell’art. 192 c.p.p., commi 3 e 4, (Sez. F, n. 31992 del 28/08/2002, dep. 26/09/2002, Desogus, Rv. 222377; Sez. 1, n. 29403 del 24/04/2003, dep. 11/07/2003, Esposito, Rv. 226191; Sez. 6, n. 36767 del 04/06/2003, dep. 25/09/2003, Grasso Rv. 226799; Sez. 6, n. 45441 del 07/10/2004, dep. 24/11/2004, Fanara, Rv. 230755; Sez. 1, n. 19867 del 04/05/2005, dep. 25/05/2005, Cricchio, Rv. 232601). Si è, al riguardo, affermato che, se la qualifica di gravità che deve caratterizzare gli indizi di colpevolezza attiene al quantum di “prova” idoneo a integrare la condizione minima per l’esercizio, sulla base di un giudizio prognostico di responsabilità, del potere cautelare, e si riferisce al grado di conferma, allo stato degli atti, dell’ipotesi accusatoria, è problema diverso quello delle regole da seguire, in sede di apprezzamento della gravità indiziaria ex art. 273 c.p.p., per la valutazione dei dati conoscitivi e, in particolare, della chiamata di correo (Sez. U, n. 36267 del 30/05/2006, dep. 31/10/2006, P.G. in proc. Spennato, Rv. 234598). Relativamente alle regole da seguire, questo Collegio ritiene che, alla stregua del condivisibile orientamento espresso da questa Corte, l’art. 273 c.p.p., comma 1 bis, nel delineare i confini del libero convincimento del giudice cautelare con il richiamo alle regole di valutazione di cui all’art. 192 c.p.p., commi 3 e 4, pone un espresso limite legale alla valutazione dei “gravi indizi”.

3.1. Si è, inoltre, osservato che, in tema di misure cautelari personali, quando sia denunciato, con ricorso per Cassazione, vizio di motivazione del provvedimento emesso dal Tribunale del riesame riguardo alla consistenza dei gravi indizi di colpevolezza, il controllo di legittimità è limitato, in relazione alla peculiare natura del giudizio e ai limiti che ad esso ineriscono, all’esame del contenuto dell’atto impugnato e alla verifica dell’adeguatezza e della congruenza del tessuto argomentativo riguardante la valutazione degli elementi indizianti rispetto ai canoni della logica e ai principi di diritto che governano l’apprezzamento delle risultanze probatorie (tra le altre, Sez. 4, n. 2050 del 17/08/1996, dep. 24/10/1996, Marseglia, Rv. 206104; Sez. 6, n. 3529 del 12/11/1998, dep. 01/02/1999, Sabatini G., Rv. 212565; Sez. U, n. 11 del 22/03/2000, dep. 02/05/2000, Audino, Rv. 215828; Sez. 2, n. 9532 del 22/01/2002, dep. 08/03/2002, Borragine e altri, Rv. 221001; Sez. 4, n. 22500 del 03/05/2007, dep. 08/06/2007, Terranova, Rv. 237012), senza che possa integrare vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa e, per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze delle indagini (tra le altre, Sez. U, n. 19 del 25/10/1994, dep. 12/12/1994, De Lorenzo, Rv. 199391; Sez. 1, n. 1496 del 11/03/1998, dep. 04/07/1998, Marrazzo, Rv. 211027; Sez. 1, n. 6972 del 07/12/1999, dep. 08/02/2000, Alberti, Rv. 215331). Il detto limite del sindacato di legittimità in ordine alla gravità degli indizi riguarda anche il quadro delle esigenze cautelari, essendo compito primario ed esclusivo del giudice della cautela valutare “in concreto” la sussistenza delle stesse e rendere un’adeguata e logica motivazione (Sez. 1, n. 1083 del 20/02/1998, dep. 14/03/1998, Martorana, Rv. 210019). Peraltro, secondo l’orientamento di questa Corte, che il Collegio condivide, in tema di misure cautelari, “l’ordinanza del tribunale del riesame che conferma il provvedimento impositivo recepisce, in tutto o in parte, il contenuto di tale provvedimento, di tal che l’ordinanza cautelare e il provvedimento confermativo di essa si integrano reciprocamente, con la conseguenza che eventuali carenze motivazionali di un provvedimento possono essere sanate con le argomentazioni addotte a sostegno dell’altro” (Sez. 2, n. 774 del 28/11/2007, dep. 09/01/2008, Beato, Rv. 238903; Sez. 6, n. 3678 del 17/11/1998, dep. 15/12/1998, Panebianco R., Rv. 212685; Sez. 3, n. 8669 del 15/12/2015 – dep. 03/03/2016, Berlingeri, Rv. 266765).

3.2. Dall’analisi della motivazione dei due provvedimenti (quello impugnato del tribunale e quello del Giudice delle indagini preliminari) non si rinvengono carenze motivazionali e la tesi prospettata dal ricorrente (carenza di gravi indizi di colpevolezza ex art. 273 del cod. proc. pen.) non trova elementi certi negli atti, e né gli stessi, del resto, sono indicati nell’atto di impugnazione, e quindi sono solo ipotesi teoriche, non valutabili in sede di legittimità. Gli elementi indicati dai due provvedimenti, sono gravi, univoci e convergenti nell’indicare il ricorrente autore dei fatti, e di altri fatti anche più gravi ancora in accertamento, descritti nell’imputazione.

  1. L’ordinanza impugnata evidenzia con motivazione adeguata, non contraddittoria e senza manifeste illogicità che il ricorrente aveva anche filmato integralmente gli incontri sessuali con le donne (oltre a quelle di cui all’imputazione anche per altre donne), e dalla visione del filmato e dal contenuto del colloquio emergevano in maniera inconfutabile (documentati dallo stesso indagato con i video) i gravi indizi dei reati in contestazione. Per il capo A, art. 319 quater cod. pen. il Tribunale analizza tutto il colloquio con la prostituta e nello stesso la P. stessa usava esplicitamente il termine “abuso”, di fronte alle richieste di prestazioni sessuali senza il pagamento, e senza protezione, che la P. invece pretendeva (sia il pagamento e sia la protezione). La stessa del resto non si era recata in caserma per offrire i suoi favori sessuali, ma per denunciare una vicenda di persecuzione. Il Tribunale poi correttamente qualifica la condotta come induzione indebita, art. 319 quater cod. pen., come chiarito da questa Corte di Cassazione: “Il delitto di concussione, di cui all’art. 317 cod. pen. nel testo modificato dalla l. n. 190 del 2012, è caratterizzato, dal punto di vista oggettivo, da un abuso costrittivo del pubblico agente che si attua mediante violenza o minaccia, esplicita o implicita, di un danno “contra ius” da cui deriva una grave limitazione della libertà di determinazione del destinatario che, senza alcun vantaggio indebito per sé, viene posto di fronte all’alternativa di subire un danno o di evitarlo con la dazione o la promessa di una utilità indebita e si distingue dal delitto di induzione indebita, previsto dall’art. 319 quater cod. pen. introdotto dalla medesima l. n. 190, la cui condotta si configura come persuasione, suggestione, inganno (sempre che quest’ultimo non si risolva in un’induzione in errore), di pressione morale con più tenue valore condizionante della libertà di autodeterminazione del destinatario il quale, disponendo di più ampi margini decisionali, finisce col prestare acquiescenza alla richiesta della prestazione non dovuta, perché motivata dalla prospettiva di conseguire un tornaconto personale, che giustifica la previsione di una sanzione a suo carico. (In motivazione, la Corte ha precisato che, nei casi ambigui, l’indicato criterio distintivo del danno antigiuridico e del vantaggio indebito va utilizzato, all’esito di un’approfondita ed equilibrata valutazione del fatto, cogliendo di quest’ultimo i dati più qualificanti idonei a contraddistinguere la vicenda concreta)”. (Sez. U, n. 12228 del 24/10/2013 – dep. 14/03/2014, Maldera e altri, Rv. 258470). I vantaggi della prostituta sono correttamente individuati dal Tribunale “…sia in relazione ai controlli che ella avrebbe potuto subire ad opera dei militari dell’Arma, sia in relazione ai pericoli che sarebbero potuti provenire da clienti molesti e pericolosi”. Inoltre in altro video il ricorrente ottiene prestazioni sessuali da una sudamericana che doveva eleggere domicilio per un procedimento a suo carico per furto (rapporto orale).
  2. Per il capo B, art. 609 bis, comma 2, n. 1, e 609 septies, comma 4, n. 3 e 4 del cod. pen., il Tribunale con motivazione adeguata, non contraddittoria e non manifestamente illogica, anche qui con la visione del filmato realizzato dallo stesso indagato, ritiene che “… era impossibile per un uomo adulto non comprendere che la M. era una donna estremamente debole e suggestionabile”; inoltre la M. e l’indagato si conoscevano da molto perché collaboravano ad una manifestazione, “festa dei giochi delle porte”. La stessa poi sentita riferiva di essere stata “esplicitamente minacciata dal Brigadiere che le ricordava che lui era il Maresciallo capo e che avrebbe potuto farle avere dei problemi con la legge ed anche con i suoi genitori”. Il collegio infatti ritiene configurabile il delitto di cui all’art. 609 bis, comma 1, cod. pen. ma si rimette al P.M. per le sue determinazioni nell’esercizio dell’azione penale.
  3. Alcune considerazioni devono necessariamente svolgersi sull’uso delle registrazioni video e sonore nei casi di violenza sessuale. Nel nostro caso le stesse sono state effettuate dall’indagato, ma possono ben essere realizzate dalla stessa vittima di violenze. Le registrazioni, video e/o sonore, tra presenti, o anche di una conversazione telefonica, effettuata da uno dei partecipi al colloquio, o da persona autorizzata ad assistervi – che non commette il reato di cui agli art. 617 e 623 cod. pen., perché autorizzato, Sez. 6, n. 15003 del 27/02/2013 – dep. 02/04/2013, P.C. in proc. B, Rv. 256235 -, costituisce prova documentale valida e particolarmente attendibile, perché cristallizza in via definitiva ed oggettiva un fatto storico – il colloquio tra presenti (e tutto l’incontro, se con video) o la telefonata -; la persona che registra (o, come nel nostro caso, che viene filmata dallo stesso autore del fatto) infatti è pienamente legittimata a rendere testimonianza, e quindi la documentazione del colloquio esclude qualsiasi contestazione sul contenuto dello stesso, anche se la registrazione fosse avvenuta su consiglio o su incarico della Polizia Giudiziaria (Sez. U, n. 36747 del 28/05/2003 – dep. 24/09/2003, Torcasio e altro, Rv. 225466; Sez. 6, n. 12189 del 09/02/2005 – dep. 29/03/2005, Rosi, Rv. 231049; Sez. 5, n. 4287 del 29/09/2015 – dep. 02/02/2016, Pepi, Rv. 265624; Sez. 6, n. 16986 del 24/02/2009 – dep. 22/04/2009, Abis, Rv. 243256; Sez. 2, n. 24288 del 10 giugno 2016). Nel caso di specie non solo la vittima – La M. , sentita – è attendibile quando riferisce delle minacce, ma esiste la registrazione video del rapporto, con la M. , e anche con l’altra vittima, provvidamente effettuati dallo stesso indagato. Nel particolare caso di violenza sessuale in giudizio, le video registrazioni risultano particolarmente valide, per la ricostruzione oggettiva delle violenze. Le moderne tecniche di registrazione, alla portata di tutti, per l’uso massiccio dei telefonini smart, che hanno sempre incorporati registratori vocali e video, e l’uso di app dedicate per la registrazione di chiamate e di suoni, consentono una documentazione inconfutabile ed oggettiva del contenuto di colloqui e/o di telefonate, tra il violentatore e la vittima. La ripresa video copre a 360 gradi tutto il fatto. Nel nostro caso, come sopra visto, la registrazione è stata effettuata dallo stesso ricorrente, ma la stessa potrebbe avvenire legittimamente anche da parte della vittima. Infatti le registrazioni di conversazioni – e di video – tra presenti, compiute di propria iniziativa da uno degli interlocutori, non necessitano dell’autorizzazione del giudice per le indagini preliminari, ai sensi dell’art. 267 del cod. proc. pen. in quanto non rientrano nel concetto di intercettazione in senso tecnico, ma si risolvono, come sopra visto, in una particolare forma di documentazione, non sottoposta ai limiti ed alle formalità delle intercettazioni. Infine va ricordata l’interpretazione della Suprema Corte di Cassazione, consolidata in materia, diritto vivente. Cassazione, Sez. 6, n. 49511 del 01/12/2009 – dep. 23/12/2009, Ticchiati, Rv. 245774, che ha ritenuto: “infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 266, comma secondo, 268, comma terzo e 271, comma primo, cod. proc. pen., per violazione degli artt. 2, 13, 15, comma secondo, 13 e 24, Cost., nella parte in cui non prevedono l’estensione dei limiti di applicabilità della normativa codicistica in materia di intercettazioni telefoniche e ambientali anche alle intercettazioni di conversazioni tra presenti o al telefono svolte non solo da un estraneo, ma anche da uno degli interlocutori della conversazione medesima, trattandosi di situazioni del tutto diverse fra loro e non potendosi in alcun modo equiparare la registrazione effettuata, sia pure occultamente, da uno dei protagonisti della conversazione, all’ingerenza esterna sulla vita privata costituita dall’intercettazione svolta per opera di un terzo”).
  4. Relativamente al pericolo di recidivanza criminosa, terzo motivo del ricorso, si deve osservare che il provvedimento impugnato contiene adeguata e non contraddittoria motivazione, senza vizi di manifesta illogicità, e individua il pericolo di reiterazione dei gravi reati non solo quale appartenente ai carabinieri, ma anche “allorché agisce al di fuori di tale contesto, come nella vicenda della M. e della minore Ma. … anche se non rivestisse più la formale qualifica di Brigadiere dei Carabinieri”. Pertanto ininfluente è la sospensione dal servizio del ricorrente.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento. In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati significativi, a norma dell’art. 52 del d. lgs 196/03 in quanto imposto dalla legge.

 

Appalto. La garanzia decennale per gravi difetti è dovuta solo per le opere di iniziale fabbricazione o anche per le opere postume di ristrutturazione dell’edificio ? Cassazione Sez. Un. Civili, 27 Marzo 2017, n. 7756

 

“L’art. 1669 c.c. è applicabile, ricorrendone tutte le altre condizioni, anche alle opere di ristrutturazione edilizia e, in genere, agli interventi manutentivi o modificativi di lunga durata su immobili preesistenti, che (rovinino o) presentino (evidente pericolo di rovina o) gravi difetti incidenti sul godimento e sulla normale utilizzazione del bene, secondo la destinazione propria di quest’ultimo“.

All’affermazione di questo importante principio le Sezioni Unite della Corte di Cassazione – chiamate a dirimere un contrasto giurisprudenziale – sono giunte a conclusione di un esauriente analisi esegetica e dell’evoluzione giurisprudenziale,  convenendo che anche ove i gravi vizi riguardino opere non di nuova  costruzione, ma più limitate, aventi ad oggetto riparazioni straordinarie, ristrutturazioni, restauri o altri interventi di natura edilizia, può essere  invocata la garanzia decennale dovuta dall’appaltatore  ai sensi dell’’art. 1669 c.c.

Nella fattispecie, alcuni condomini avevano evocato in giudizio l’impresa appaltatrice che aveva eseguito opere di ristrutturazione edilizia sull’edificio condominiale ( afferenti scale interne, balconi e sottotetti) per ottenere il risarcimento dei danni dovuti a gravi difetti che si erano manifestati a seguito di detti lavori .

Invero,  la Corte già in passato aveva ritenuto più volte applicabili le regole disciplinate dall’art 1669 cc a prescindere dal fatto che i vizi, purchè gravi, riguardassero opere riguardanti “costruzioni nuove”.

La casistica in proposito, come segnala la Corte, è moto ampia e, senza pretesa di essere esaurienti, non è inutile segnalare che sono  stati ritenuti gravi difetti dell’opera, rilevanti ai fini dell’art. 1669 c.c: la pavimentazione interna ed esterna di una rampa di scala e di un muro di recinzione (sentenza n. 2238/12); opere di pavimentazione e di impiantistica (n. 1608/00); infiltrazioni d’acqua, umidità nelle murature e in generale problemi rilevanti d’impermeabilizzazione (nn. 84/13, 21351/05, 117/00, 4692/99, 2260/98, 2775/97, 3301/96, 10218/94, 13112/92, 9081/92, 9082/91, 2431/86, 1427/84, 6741/83, 2858/83, 3971/81, 3482/81, 6298/80, 4356/80, 206/79, 2321/77, 1606/76 e 1622/72); un ascensore panoramico esterno ad un edificio (n. 20307/11); l’inefficienza di un impianto idrico (n. 3752/07); l’inadeguatezza recettiva d’una fossa biologica (n. 13106/95); l’impianto centralizzato di riscaldamento (nn. 5002/94, 7924/92, 5252/86 e 2763/84); il crollo o il disfacimento degli intonaci esterni dell’edificio (nn. 6585/86, 4369/82 e 3002/81, 1426/76); il collegamento diretto degli scarichi di acque bianche e dei pluviali discendenti con la condotta fognaria (n. 5147/87); infiltrazioni di acque luride (n. 2070/78). Dunque la Corte ha ritenuto che lo scopo della norma ( operando una ricostruzione storica della norma a far luogo dal codice napoleonico  attraverso il codice civile del 1865 sino a  quello odierno) sia quello di garantire il pacifico godimento dell’immobile secondo la sua propria destinazione.

Secondo la logica sottesa a tali argomentazioni giuridiche è del tutto indifferente che i gravi difetti riguardino una costruzione interamente nuova o un’opera edile ristrutturata, essendo irrazionale la previsione di un trattamento diverso tra fabbricazione iniziale e ristrutturazione edilizia, dato che entrambe potrebbero essere foriere di gravi pregiudizi.

Testo della sentenza

 Corte di Cassazione, sez. Unite Civili, sentenza 10 gennaio – 27 marzo 2017, n. 7756 Presidente Di Palma – Relatore Manna

Svolgimento del processo

Gli odierni ricorrenti, partecipanti tutti al condominio di via (omissis) , convenivano in giudizio innanzi al locale Tribunale la società venditrice Fonte Sajano s.r.l. e la società P.F. e C. s.n.c., che su incarico di quest’ultima aveva eseguito sull’edificio interventi di ristrutturazione edilizia. Domandavano la condanna delle società convenute, in solido tra loro, al risarcimento dei danni consistenti in un esteso quadro fessurativo esterno ed interno delle pareti del fabbricato ed altri gravi difetti di costruzione. Nel resistere in giudizio entrambe le convenute chiamavano in causa la società che aveva eseguito gli intonaci, la Edilcentro s.r.l., per esserne tenute indenni. Nella contumacia della società chiamata in causa, il Tribunale, ritenuta la ricorrenza di gravi difetti dell’opera, accoglieva la domanda e condannava le società convenute al pagamento della somma di Euro 71.503,50, a titolo di responsabilità per danni ex art. 1669 c.c.. Impugnata dalla P.F. e C. s.n.c., tale decisione era ribaltata dalla Corte d’appello di Ancona, che con sentenza pubblicata il 12.7.2012 rigettava la domanda. Richiamato il precedente di Cass. n. 24143/07, la Corte territoriale osservava che ai fini dell’applicazione dell’art. 1669 c.c. la costruzione di un edificio o di altra cosa immobile destinata a lunga durata costituisce presupposto e limite della responsabilità dell’appaltatore. E poiché nella specie erano stati eseguiti solo interventi di ristrutturazione edilizia (con cambiamento di destinazione d’uso da ufficio ad abitazione), comprendenti la realizzazione di nuovi balconi ai primi due piani, di una scala in cemento armato e di nuovi solai ai sottotetti, non si trattava della nuova costruzione di un’immobile, ma di una mera ristrutturazione. Di qui l’inapplicabilità della norma anzi detta. La cassazione di questa sentenza è chiesta dagli odierni ricorrenti sulla base di un solo motivo. Vi resiste con controricorso la P.F. & C. s.n.c.. La Fonte Sajano s.r.l. in liquidazione e la Edilcentro s.r.l. non hanno svolto attività difensiva. La terza sezione civile di questa Corte, ravvisando un contrasto di giurisprudenza sulla riconducibilità all’art. 1669 c.c. anche delle opere edilizie eseguite su di un fabbricato preesistente, ha rimesso la causa al primo Presidente, che l’ha assegnata a queste Sezioni unite. Entrambe le parti, ricorrente e controricorrente, hanno depositato memoria.

Motivi della decisione

  1. – Con l’unico motivo di ricorso parte ricorrente deduce la “violazione e falsa applicazione dell’art. 1669 c.c. in relazione all’art. 360, nn. 3 e 5 c.p.c.”. Espone che la sentenza impugnata avrebbe erroneamente ritenuto che la ristrutturazione edilizia di un fabbricato non possa rientrare nella previsione dell’art. 1669 c.c.; lamenta che la Corte territoriale abbia omesso di motivare sull’entità dei lavori di ristrutturazione del fabbricato, nonché sulla consistenza e sulla rilevanza dei vizi accertati dal c.t.u.; deduce che) rispetto al caso esaminato da Cass. n. 24143/07, quello in oggetto concerne interventi edilizi di carattere straordinario riconducibili all’ipotesi di cui all’art. 1669 c.c.; e richiama, tra altre pronunce di questa Corte, Cass. n. 18046/12 per affermare che la ridetta norma è applicabile non solo alle nuove costruzioni, ma anche alle opere di ristrutturazione immobiliare e a quelle che siano comunque destinate ad avere lunga durata. 2. – Sotto quest’ultimo profilo, quello dell’ambito oggettivo coperto dall’art. 1669 c.c., l’ordinanza interlocutoria della terza sezione rileva un contrasto nella giurisprudenza di questa Corte (precisamente all’interno della seconda sezione). E senza mostrare di voler prendere partito per l’una o l’altra tesi, quella che esclude o quella che afferma l’applicabilità dell’art. 1669 c.c. anche alle ristrutturazioni immobiliari, ritiene che emerga ad ogni modo un contrasto sui principi di diritto affermati, al di là delle possibili peculiarità “fattuali” delle singole situazioni esaminate. 2.1. – Sulla peculiare questione in oggetto anche la dottrina mostra di dividersi. Pacifica l’applicabilità dell’art. 1669 c.c. ai casi di ricostruzione o di costruzione di una nuova parte dell’immobile, come ad esempio la sopraelevazione, che è essa stessa una “nuova costruzione”, prevale l’opinione dell’estensibilità della norma anche alle ipotesi di interventi di tipo manutentivo – modificativo che debbano avere una lunga durata nel tempo. Ciò sia nel caso in cui a seguito delle riparazioni o delle modifiche collassi l’intera e preesistente struttura immobiliare, indipendentemente dall’importanza in sé della parte riparata o modificata, sia ove la rovina o i gravi difetti riguardino direttamente quest’ultima. Ed escluse le riparazioni non di lunga durata, come quelle ordinarie, e quelle aventi ad oggetto parti strutturali anch’esse non destinate a conservarsi nel tempo, deve dunque ammettersi l’applicazione dell’art. 1669 c.c. nelle situazioni inverse. Si osserva da alcuni che, in definitiva, il problema è lo stesso che si presenta allorché rovini o sia gravemente difettosa soltanto una porzione dell’originario edificio, visto che la stessa norma contempla anche l’ipotesi che l’immobile rovini “in parte”. Non solo, ma si ipotizza che la soluzione inversa si presterebbe a dubbi di legittimità costituzionale, considerato che gli artt. 1667 e 1668 c.c., del pari riguardanti la responsabilità dell’appaltatore, si applicano ad opere consistenti in mere modificazioni o riparazioni, mentre l’art. 1669 c.c. restrittivamente inteso condurrebbe, irrazionalmente e in violazione dell’art. 3 Cost., ad applicare l’art. 1667 c.c. ancorché l’opera consista, previa demolizione, in una ricostruzione totale o parziale, del tutto sovrapponibile ad una costruzione ex novo. Minoritaria la tesi opposta, che rispetto alla disciplina degli artt. 1667 e 1668 c.c. ravvisa nell’art. 1669 c.c. una norma di carattere speciale. Si afferma che essa, insuscettibile di applicazione analogica, integri una garanzia vera e propria e una disposizione di favore per il committente, motivata dal fatto che nelle opere di lunga durata alcuni difetti possono presentarsi anche a distanza di molto tempo. L’art. 1669 c.c. riguarderebbe, per tale dottrina, le opere eseguite ex novo dalle fondamenta ovvero quelle dotate di propria autonomia in senso tecnico (come ad esempio una sopraelevazione). 3. – La giurisprudenza di questa Corte ha affrontato in maniera esplicita e diretta il tema di cui si discute solo in tre occasioni. O meglio in due, per le- – ragioni che seguono. 3.1. – La prima con sentenza n. 24143/07. Riferita ad un caso di opere d’impermeabilizzazione e pavimentazione del terrazzo condominiale d’un edificio preesistente, detta pronuncia ha osservato che l’art. 1669 c.c. delimita con una certa evidenza il suo ambito di applicazione alle opere aventi ad oggetto la costruzione di edifici o di altri beni immobili di lunga durata, ivi inclusa la sopraelevazione di un fabbricato preesistente, di cui ravvisa la natura di costruzione nuova ed autonoma. Non anche, però, le modificazioni o le riparazioni apportate ad un edificio o ad altre preesistenti cose immobili, da identificare a norma del’art. 812 c.c.. A tale conclusione è pervenuta attraverso l’interpretazione letterale della norma, laddove questa “raccorda il termine “opera” a quello di “edifici o di altre cose immobili, destinate per loro natura a lunga durata”, per poi connettere e disciplinare le conseguenze dei vizi costruttivi della medesima opera, così significando che la costruzione di un edificio o di altra cosa immobile, destinata per sua natura a lunga durata, costituisce presupposto e limite di applicazione della responsabilità prevista in capo all’appaltatore”. La conseguenza, conclude, è che ove non ricorra la costruzione d’un edificio o di altre cose immobili di lunga durata, ma un’opera di mera riparazione o modificazione su manufatti preesistenti, non è applicabile l’art. 1669 c.c. ma, ricorrendone le condizioni, le norme sulla garanzia ex art. 1667 c.c. Infine, detta sentenza ha escluso che questa Corte Suprema abbia mai affrontato ex professo la questione, se non nella vigenza del c.c. del 1865, sotto l’art. 1639 (si tratta della sentenza n. 754 del 1934, la quale nell’escludere l’applicabilità della norma alla copertura con asfalto d’un lastrico solare, si limitò, in realtà, ad affermare unicamente che la norma “ha, come è comune insegnamento, carattere eccezionale, e non può perciò essere estesa fuori dei casi ivi preveduti della fabbricazione di un edificio o d’altra opera notabile”: n.d.r.). 3.1.1. – In senso puramente adesivo è la n. 10658/15 (massimata in maniera del tutto conforme), avente ad oggetto lavori di consolidamento di una villetta preesistente che avevano provocato gravi fessurazioni su di un corpo di fabbrica aggiuntovi. A ben vedere, tuttavia, la motivazione chiarisce che il giudice d’appello, ricondotta la fattispecie all’art. 1669 c.c., aveva escluso la responsabilità dell’appaltatore a tale titolo non essendovi prova che questi avesse indicato i lavori da eseguire, né che fosse stato messo al corrente dei difetti strutturali che avevano determinato le lesioni riscontrate. Sicché, in definitiva, la Corte territoriale aveva escluso sia il nesso eziologico tra le opere eseguite dall’appaltatore e i danni lamentati, sia una colpa di lui. Il consenso prestato a Cass. n. 24143/07 è frutto, dunque, di una considerazione svolta ad abundantiam rispetto alla ratio decidendi, basata su altro; il che rende dubbio che detto precedente possa effettivamente militare nell’ambito della tesi negativa.  3.2. – Di segno opposto la sentenza più recente, n. 22553/15, secondo cui risponde ai sensi dell’art. 1669 c.c. anche l’autore di opere realizzate su di un edificio preesistente, allorché queste incidano sugli elementi essenziali dell’immobile o su elementi secondari rilevanti per la funzionalità globale. In quella fattispecie, le opere avevano riguardato lavori di straordinaria manutenzione presso uno stabile condominiale, consistiti nel rafforzamento dei solai e delle rampe delle scale (queste ultime ricostruite completamente). Nel darsi carico dei due precedenti massimati di segno contrario all’avviso espresso, detta sentenza ravvisa una “diversa valutazione complessiva delle emergenze fattuali”, più che un “contrasto sincrono di giurisprudenza”. Afferma, quindi, che la lettura della norma giustifica una diversa impostazione ermeneutica, “perché non a caso il legislatore discrimina tra edificio o altra cosa immobile destinata a lunga durata, da un lato, e opera, dall’altro. L’opera cui allude la norma non si identifica necessariamente con l’edificio o con la cosa immobile destinata a lunga durata, ma ben può estendersi a qualsiasi intervento, modificativo o riparativo, eseguito successivamente all’originaria costruzione dell’edificio, con la conseguenza che anche il termine compimento, ai fini della delimitazione temporale decennale della responsabilità, ha ad oggetto non già l’edificio in sé considerato, bensì l’opera, eventualmente realizzata successivamente alla costruzione dell’edificio”. Ha osservato, inoltre, che “l’etimologia del termine costruzione non necessariamente deve essere ricondotta alla realizzazione iniziale del fabbricato, ma ben può riferirsi alle opere successive realizzate sull’edificio pregresso, che abbiano i requisiti dell’intervento costruttivo”. Pertanto, anche “gli autori di tali interventi di modificazione o riparazione possono rispondere ai sensi dell’art. 1669 c.c. allorché le opere realizzate abbiano una incidenza sensibile sugli elementi essenziali delle strutture dell’edificio ovvero su elementi secondari od accessori, tali da compromettere la funzionalità globale dell’immobile stesso”. Per contro, prosegue la sentenza, “nessun valore può essere attribuito con riguardo alla responsabilità di cui all’art. 1669 c. c. alle classificazioni urbanistiche predisposte dal legislatore al diverso fine del recupero di manufatti preesistenti: la differenza dei parametri di riferimento giustifica l’integrale responsabilità dell’appaltatore sia in presenta di interventi di manutenzione straordinaria sia in ipotesi di manutenzione ordinaria ai sensi dell’art. 31 della legge n. 457 del 1978”. 3.3. – Invece, Cass. n. 18046/12, richiamata tra altre nel motivo di ricorso, non pare prendere posizione nell’un senso piuttosto che nell’altro, sebbene in quel caso fosse sul tappeto, perché dedotta dalla ricorrente venditrice – (ri)costruttrice, la differenza tra l’imperfetta realizzazione di immobili di nuova costruzione, rientrante nell’art. 1669 c.c., e i difetti di specifici lavori di ristrutturazione, che sosteneva non riconducibili alla norma. In detta sentenza, infatti, questa Corte ha ritenuto la censura non accoglibile in parte per difetto di autosufficienza, e in parte perché la pronuncia impugnata faceva riferimento all’inadeguatezza sia dei lavori di completa ristrutturazione compiuti dai venditori a stregua della concessione, sia di quelli di rifinitura, mentre le censure della ricorrente attenevano alla configurabilità, affermata dalla Corte territoriale, della violazione dell’art. 1669 c.c. in relazione solo a tali ultimi lavori. 4. – Queste Sezioni unite aderiscono all’orientamento meno restrittivo, ritenendolo sostenibile sulla base di ragioni d’interpretazione storico-evolutiva, letterale e teleologica. 4.1. – In primo luogo vale premettere e chiarire che anche opere più limitate, aventi ad oggetto riparazioni straordinarie, ristrutturazioni, restauri o altri interventi di natura immobiliare, possono rovinare o presentare evidente pericolo di rovina del manufatto, tanto nella porzione riparata o modificata, quanto in quella diversa e preesistente che ne risulti altrimenti coinvolta per ragioni di statica. L’attenzione va, però, soffermata principalmente sull’ipotesi dei “gravi difetti”, sia perché confinaria rispetto al regime ordinario degli artt. 1667 e 1668 c.c., sia per il rilievo specifico che i “gravi difetti” assumono nel caso in oggetto, sia per le ragioni di carattere generale che emergeranno più chiaramente di seguito. 4.2. – Innumerevoli altre volte la giurisprudenza di questa Corte, pur non esaminando in maniera immediata e consapevole la questione in esame, si è occupata dell’art. 1669 c.c., presupponendone (per difetto di contrasto fra le parli o per altre ragioni) l’applicabilità anche in riferimento ad opere limitate. Ed è pervenuta a soluzioni applicative di detta norma che appaiono poter prescindere dalla necessità logica di un’edificazione ab imo o di una costruzione ex novo. Si è ritenuto, infatti, che sono gravi difetti dell’opera, rilevanti ai fini dell’art. 1669 c.c., anche quelli che riguardano elementi secondari ed accessori (come impermeabilizzazioni, rivestimenti, infissi ecc.) purché tali da compromettere la funzionalità globale dell’opera stessa e che, senza richiedere opere di manutenzione straordinaria, possono essere eliminati solo con interventi di manutenzione ordinaria ai sensi dell’art. 31 legge n. 457/78 e cioè con “opere di riparazione, rinnovamento e sostituzione delle finiture degli edifici” o con “opere necessarie per integrare o mantenere in efficienza gli impianti tecnologici esistenti” (sentenze nn. 1164/95 e 14449/99; in senso del tutto analogo e con riferimento a carenze costruttive anche di singole unità immobiliari, v. n. 8140/04, che ha ritenuto costituire grave difetto lo scollamento e la rottura, in misura percentuale notevole rispetto alla superficie rivestita, delle mattonelle del pavimento dei singoli appartamenti; da premesse conformi procedono le nn. 11740/03, 81/00, 456/99, 3301/96 e 1256/95; di un apprezzabile danno alla funzione economica o di una sensibile menomazione della normale possibilità di godimento dell’immobile, in relazione all’utilità cui l’opera è destinata, parlano le sentenze nn. 1393/98, 1154/02, 7992/97, 5103/95, 1081/95, 3644/89, 6619/88, 6229/83, 2523/81, 1178/80, 839/80, 1472/75 e 1394/69). Esemplificando, sono stati inquadrati nell’ambito della norma in oggetto i gravi difetti riguardanti: la pavimentazione interna ed esterna di una rampa di scala e di un muro di recinzione (sentenza n. 2238/12); opere di pavimentazione e di impiantistica (n. 1608/00); infiltrazioni d’acqua, umidità nelle murature e in generale problemi rilevanti d’impermeabilizzazione (nn. 84/13, 21351/05, 117/00, 4692/99, 2260/98, 2775/97, 3301/96, 10218/94, 13112/92, 9081/92, 9082/91, 2431/86, 1427/84, 6741/83, 2858/83, 3971/81, 3482/81, 6298/80, 4356/80, 206/79, 2321/77, 1606/76 e 1622/72); un ascensore panoramico esterno ad un edificio (n. 20307/11); l’inefficienza di un impianto idrico (n. 3752/07); l’inadeguatezza recettiva d’una fossa biologica (n. 13106/95); l’impianto centralizzato di riscaldamento (nn. 5002/94, 7924/92, 5252/86 e 2763/84); il crollo o il disfacimento degli intonaci esterni dell’edificio (nn. 6585/86, 4369/82 e 3002/81, 1426/76); il collegamento diretto degli scarichi di acque bianche e dei pluviali discendenti con la condotta fognaria (n. 5147/87); infiltrazioni di acque luride (n. 2070/78). Se ne ricava, inconfutabile nella sua oggettività, un dato di fatto. Nell’economia del ragionamento giuridico sotteso ai casi sopra menzionati, che fa leva sulla compromissione del godimento dell’immobile secondo la sua propria destinazione, è del tutto indifferente che i gravi difetti riguardino una costruzione interamente nuova. La circostanza che le singole fattispecie siano derivate o non dall’edificazione primigenia di un fabbricato non muta i termini logico-giuridici dell’operazione ermeneutica compiuta in ormai quasi mezzo secolo di giurisprudenza, perché non preordinata al (né dipendente dal) rispetto dell’una o dell’altra opzione esegetica in esame. Spostando l’attenzione sulle componenti non strutturali del risultato costruttivo e sull’incidenza che queste possono avere sul complessivo godimento del bene, la giurisprudenza ha mostrato di porsi dall’angolo visuale degli elementi secondari ed accessori. Questo non implica di necessità propria che si tratti della prima realizzazione dell’immobile, essendo ben possibile che l’opus oggetto dell’appalto consista e si esaurisca in questi stessi e soli elementi. Ferma tale angolazione, a fortiori deve ritenersi che ove l’opera appaltata consista in un intervento di più ampio respiro edilizio (come, appunto, una ristrutturazione), quantunque non in una nuova costruzione, l’art. 1669 c.c. sia ugualmente applicabile. In conclusione, considerare anche gli elementi “secondari” ha significato distogliere il focus dal momento “fondativo” dell’opera per direzionarlo sui “gravi difetti” di essa; per desumere i quali è stato necessario indagare altro, vale a dire l’aspetto funzionale del prodotto conseguito. 5. – Come la previsione dei “gravi difetti” dell’opera sia il risultato d’un progressivo allontanamento del precetto dal suo nucleo originario, lo dimostra la storia della norma. Derivata dall’art. 1792 del codice napoleonico (il quale stabiliva che “Si l’edifice construit a prix fait, perit en tout ou en partie par le vice de la construction, meme par le vice du sol, les architecte et entrepreneur en sont roonsables pendant dix ans”), essa così recitava sotto l’art. 1639 del c.c. del 1865: “Se nel corso di dieci anni dal giorno in cui fu compiuta la fabbricazione di un edificio o di altra opera notabile, l’uno o l’altra rovina in tutto o in parte, o presenta evidente pericolo di rovinare per difetto di costruzione o per vizio del suolo, l’architetto e l’imprenditore ne sono responsabili”. Rispetto all’ascendente francese, la norma aveva, dunque, aggiunto un quid pluris (cioè le altre opere notabili e il pericolo di rovina). Ma – si noti – aveva mantenuto inalterato il soggetto della seconda proposizione subordinata (“…l’uno o l’altra…”), cioè l’edificio, cui appunto aveva aggiunto “altra opera notabile”. Un ulteriore e consapevole passo in avanti è stato operato dal codice civile del 1942, il quale prevede che quando si tratta di edifici o di altre cose immobili destinate per la loro natura a lunga durata, se, nel corso di dieci anni dal compimento, l’opera, per vizio del suolo o per difetto della costruzione, rovina in tutto o in parte, ovvero presenta evidente pericolo di rovina o gravi difetti, l’appaltatore è responsabile nei confronti del committente e dei suoi aventi causa, purché sia fatta la denunzia entro un anno dalla scoperta. Si legge nella relazione del Guardasigilli (par. 704): “Innovando poi al codice del 1865 si è creduto di non dover limitare la sfera di applicazione della norma in questione alle sole ipotesi di rovina di tutto o parte dell’opera o di evidente pericolo di rovina, ma si è estesa la garanzia anche alle ipotesi in cui l’opera presenti gravi difetti. Naturalmente questi difetti devono essere molto gravi, oltre che riconoscibili al momento del collaudo, e devono incidere sempre sulla sostanza e sulla stabilità della costruzione, anche se non minacciano immediatamente il crollo di tutta la costruzione o di una parte di essa o non importano evidente pericolo di rovina. Non vi è dubbio che la giurispruden.za farà un’applicazione cauta di questa estensione, in conseguenza del carattere eccezionale della responsabilità dell’appaltatore”. (Il riferimento alla riconoscibilità dei gravi difetti al momento del collaudo è, ad evidenza, un fuor d’opera. Concessa per un decennio, la garanzia ex art. 1669 c.c. copre anche e soprattutto i gravi difetti che si manifestino soltanto in progresso di tempo). Come si è visto, però, la postulata eccezionalità dell’art. 1669 c.c. non è valsa ad arginarne l’applicazione. Chiamata a dotare il sintagma “gravi difetti” di un orizzonte di senso, la giurisprudenza ha ovviamente seguito l’unica strada percorribile, quella di stemperare la vaghezza del concetto giuridico al calore dei fatti. 5.1. – Il mutamento di prospettiva nel codice del 1942 è evidente per due ragioni. La prima, d’ordine logico, è che la nozione di “gravi difetti” per la sua ampiezza è omogenea a qualunque opera, edilizia e non, per cui meglio si presta al riferimento, del pari generico, alle altre cose immobili. In secondo luogo, e l’argomento è di indole letterale, mentre nel testo del 1865 il soggetto della seconda proposizione subordinata era l’edificio o altra opera notabile (“l’uno o l’altra”), nella frase che vi corrisponde nell’art. 1669 c.c. il soggetto diviene “l’opera”, nozione che rimanda al risultato cui è tenuto l’appaltatore (art. 1655 c.c.). E dunque qualsiasi opera su di un immobile destinato a lunga durata, a prescindere dal fatto che, ove di natura edilizia, essa consista o non in una nuova fabbrica. Ben si comprende, allora, che nell’ampliare il catalogo dei casi di danno rilevante ai sensi dell’art. 1669 c.c., l’aggiunta dei “gravi difetti” ha comportato per trascinamento l’estensione dell’area normativa della disposizione, includendovi qualsiasi opera immobiliare che (per traslato) sia di lunga durata e risulti viziata in grado severo per l’inadeguatezza del suolo o della costruzione. Ne è seguita, coerente nel suo impianto complessivo, l’interpretazione teleologica fornita dalla giurisprudenza, che è andata oltre l’originaria visione dell’art. 1669 c.c. come norma di protezione dell’incolumità pubblica, valorizzando la non meno avvertita esigenza che l’immobile possa essere goduto ed utilizzato in maniera conforme alla sua destinazione. Completano e confermano la validità di tale esito ermeneutico, l’irrazionalità (non conforme ad un’interpretazione costituzionalmente orientata) di un trattamento diverso tra fabbricazione iniziale e ristrutturazione edilizia, questa non diversamente da quella potendo essere foriera dei medesimi gravi pregiudizi; e la pertinente osservazione (v. la richiamata sentenza n. 22553/15) per cui costruire, nel suo significato corrente (oltre che etimologico) implica non l’edificare per la prima volta e dalle fondamenta, ma l’assemblare tra loro parti convenientemente disposte (cum struere, cioè ammassare insieme). 6. – Così ricomposta (la storia e) l’esegesi della norma, il vincolo letterale su cui l’interpretazione restrittiva dell’art. 1669 c.c. pretende di fondarsi perde la propria base logico-giuridica. Infatti, riferire l’opera alla “costruzione” e questa a un nuovo fabbricato, inteso quale presupposto e limite della responsabilità aggravata dell’appaltatore (come ritiene Cass. n. 24143/07), non sembra possibile proprio dal punto di vista letterale. Si noti che nel testo della norma il sostantivo “costruzione” rappresenta un nomen actionis, nel senso che sta per “attività costruttiva”; e non potrebbe essere altrimenti, visto che se esso valesse (come mostra d’intendere la sentenza appena citata) quale specificazione riduttiva del soggetto (l’opera) della (terza, nel testo vigente) proposizione subordinata, si avrebbe una duplicazione di concetti ad un tempo inutile e fuorviante. Inoltre, il supposto impiego sinonimico di “costruzione” quale nuovo edificio, porterebbe a intendere la norma come se affermasse che l’opera può rovinare per difetto suo proprio. Lettura criptica, questa, che restituirebbe inalterato all’interprete il problema ermeneutico, dovendosi stabilire cosa sia il vizio proprio di un’opera; salvo convenire che esso è quello che deriva (da un vizio del suolo o) dal difetto di costruzione, così confermandosi che quest’ultimo sostantivo allude, appunto, all’attività dell’appaltatore. Non senza aggiungere che supponendo la tesi qui non condivisa, a) sarebbe stato ben più logico un diverso incipit della norma (e cioè, “Quando si tratta (della costruzione) di edifici…”); e b) il termine “costruzione” risulterebbe irriferibile agli altri immobili di lunga durata, pure contemplati dall’art. 1669 c.c., per i quali, paradossalmente, questa sarebbe applicabile solo se rovina, evidente pericolo di rovina o gravi difetti dipendessero da vizio del suolo, cioè da una soltanto delle due cause ivi indicate (e, per soprammercato, proprio quella che naturaliter fa pensare alle opere murarie). Ancora. Incentrando l’interpretazione dell’art. 1669 c.c. sul concetto di “costruzione” quale nuova edificazione, diverrebbe (se non automatico, almeno) spontaneo il rinvio al concetto normativo di costruzione così come elaborato dalla giurisprudenza di questa Corte in materia di distanze. E, in effetti, Cass. n. 24143/07 sembra presupporlo lì dove afferma (cosa in sé condivisibile) che la norma in commento ricomprende la sopraelevazione, la quale è costruzione nuova ed autonoma rispetto all’edificio sopraelevato. Ma è una tematica del tutto estranea, quella degli artt. 873 e ss. c.c., il rimando alla quale sortirebbe effetti contraddittori e inaccettabili anche per la tesi seguita dal citato precedente, sol che si consideri che ai fini delle distanze è costruzione un balcone (v. sentenza n. 18282/16), ma non la ricostruzione fedele, integrale e senza variazioni plano-volumetriche di un edificio preesistente (v. ordinanza S.U. n. 21578/11 e sentenza n. 3391/09). 6.1. – Non meno controvertibile l’altro argomento – la specialità o l’eccezionalità della norma – utilizzato dall’interpretazione restrittiva dell’art. 1669 c.c. per escluderne l’applicazione analogica. In disparte il fatto che (i) solo di specialità potrebbe trattarsi, nel senso che la responsabilità aggravata prevista da detta disposizione è speciale rispetto al regime ordinario del risarcimento del danno per colpa ai sensi dell’art. 1668, 1 comma c.c.; che (ii) tale specialità si è già attenuata fortemente allorché la giurisprudenza di questa Corte ha ammesso, oltre all’azione risarcitoria, quella di riduzione del prezzo, di condanna specifica all’eliminazione dei difetti dell’opera e di risoluzione, che costituiscono il contenuto della garanzia ordinaria cui è tenuto l’appaltatore (per l’affermativa, che sembra ormai consolidata, cfr. nn. 815/16, 8140/04, 8294/99, 10624/96, 1406/89 e 2763/84; contra, le più risalenti sentenze nn. 2954/83, 2561/80 e 1662/68); e che (iii) l’analogia serve a disciplinare ciò che non è positivizzato, non a riposizionare i termini di una regolamentazione data; tutto ciò a parte, quanto fin qui considerato dimostra come l’art. 1669 c.c. includa a pieno titolo gli interventi manutentivi o modificativi di lunga durata, la cui potenziale incidenza tanto sulla rovina o sul pericolo di rovina quanto sul normale godimento del bene non opera in modo dissimile dalle ipotesi di edificazione ex novo. Pertanto, la pur indubbia specialità della protezione di lunga durata accordata al committente (protezione che resiste anche al collaudo: cfr. Cass. nn. 7914/14, 1290/00 e 4026/74), non interferisce con la questione in oggetto. 7. – Poco o punto rilevante, e dunque non decisiva ai fini in esame, la natura extracontrattuale della responsabilità ex art. 1669 c.c. – con carattere di specialità rispetto alla previsione generale dell’art. 2043 c.c. – costantemente affermata dalla giurisprudenza (tanto che Cass. nn. 4035/17 e 1674/12 hanno escluso che la relativa controversia possa rientrare nell’ambito della clausola che si limiti a compromettere in arbitri le liti nascenti da un contratto d’appalto). Tutt’altro che monolitica, invece, è al riguardo la dottrina. Ammessa anche dalle sentenze nn. 24143/07 e 10658/15, che come detto escludono l’applicazione dell’art. 1669 c.c. alle ipotesi di riparazioni o modificazioni, la tesi della natura extracontrattuale di detta responsabilità; qualificata come ex lege (cfr. Cass. n. 261/70 e il brano della relazione al c.c. del 1942 riportato supra al paragrafo 5) e prevista per ragioni di ordine pubblico e di tutela dell’incolumità personale dei cittadini, quindi, inderogabile e irrinunciabile (v. Cass. n. 81/00), ha anch’essa origini remote, essendo stata altrettanto costantemente affermata dalla giurisprudenza sotto l’impero del c.c. del 1865 a partire dagli anni venti del XX secolo. Ciò allo scopo di riconoscere l’azione risarcitoria anche agli acquirenti del costruttore-venditore, essendo invalsa già in allora, con lo sviluppo delle attività edilizie, l’unificazione delle due figure. 7.1. – Ai limitati fini che qui rilevano può solo osservarsi che, come sopra detto, la categoria dei gravi difetti tende a spostare il baricentro dell’art. 1669 c.c. dall’incolumità dei terzi alla compromissione del godimento normale del bene, e dunque da un’ottica pubblicistica ed aquiliana ad una privatistica e contrattuale. Oltre a ciò, va considerata la maggior importanza che sul tema della tutela dei terzi ha assunto, invece, l’esperienza dell’appalto pubblico; l’espresso riconoscimento dell’azione anche agli aventi causa del committente (i quali possono agire anche contro il costruttore-venditore: fra le tante, v. Cass. nn. 467/14, 9370/13 e 2238/12 e 4622/02), il che ha privato del suo principale oggetto la teoria della responsabilità extracontrattuale ex art. 1669 c.c.; i più recenti approdi della dottrina sull’efficacia ultra partes del contratto; e – da ultima, ma non ultima – la possibilità che tale efficacia operi in favore dei terzi nei casi previsti dalla legge (art. 1372, cpv. c.c.). Tutto ciò rende ormai meno attuale il tema della natura extracontrattuale della responsabilità di cui all’art. 1669 c.c., che se non ha esaurito la propria funzione storica (per difetto di rilevanza non è questa la sede per appurarlo), di sicuro ha perso l’originaria centralità che aveva nell’interpretazione della norma. 8. – Per le considerazioni svolte l’unico motivo di ricorso deve ritenersi fondato. Consegue la cassazione della sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Ancona, che nel decidere il merito si atterrà al seguente principio di diritto: “l’art. 1669 c.c. è applicabile, ricorrendone tutte le altre condizioni, anche alle opere di ristrutturazione edilizia e, in genere, agli interventi manutentivi o modificativi di lunga durata su immobili preesistenti, che (rovinino o) presentino (evidente pericolo di rovina o) gravi difetti incidenti sul godimento e sulla normale utilizzazione del bene, secondo la destinazione propria di quest’ultimo”. 9. – Al giudice di rinvio è rimessa, ai sensi dell’art. 385, terzo comma, c.p.c., anche la statuizione sulle spese del presente giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso e cassa la sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Ancona, che provvederà anche sulle spese di cassazione.

 

 

 

 

Tutela de credito. Quale il rimedio se il debitore cede l’azienda a terzi ?

Sovente capita di imbattersi in casi di cessione d’azienda o di ramo d’azienda strumentali  posti in essere da società o imprese indebitate.

In questo caso ai creditori insoddisfatti non resta sovente altra alternativa che rivolgersi al cessionario per riscuotere i loro crediti.

E’ altrettanto frequente, tuttavia, soprattutto quando l’operazione è finalizzata ad eludere la garanzia del credito, che il cessionario tenda a sottrarsi .

Per inciso e brevemente riepilogando la disciplina civilistica,  occorre sottolineare che ai sensi dell’articolo 2560 c.c. – fermo restando che l’alienante non è liberato dai debiti, inerenti l’esercizio dell’azienda ceduta anteriori al trasferimento, se non risulta che creditori vi abbiano consentito –  nel trasferimento dell’azienda commerciale, l’acquirente dell’azienda stessa risponde dei debiti suddetti a condizione che essi risultino dai libri contabili obbligatori.

Proprio questo è il punto. Infatti, spesso accade che il cessionario corresponsabile non collabori e resista, mentre l’onere della prova (che il debito risulti dei libri contabili) grava sul creditore.

Può accadere quindi che il dì cessionario affermi di non avere ricevuto la copia delle scritture contabili perché, ad esempio, le stesse sono andate smarrite (tra l’altro i piccoli imprenditori non sono obbligati alla tenuta delle scritture contabili).

Ora, la giurisprudenza interpreta la norma dell’articolo 2560 c.c. in maniera restrittiva, nel senso che non consente di ovviare altrimenti alla prova dell’annotazione del debito sulle scritture contabili (ad esempio per via testimoniale o anche semplicemente dimostrando che il cessionario sapeva). Lo stesso consolidato indirizzo tende a ritenere che “i libri contabili obbligatori” sono soltanto quelli previsti dall’articolo 2214 cpc vale a dire il libro giornale e il libro inventari e non altri tra i quali ad esempio registro Iva acquisti, e   persino che la inesistenza per qualunque ragione delle scritture contabili preclude il sorgere della responsabilità del cessionario.

Aggiungersi che i libri contabili non sono documenti pubblici e per questo i terzi non possono accedervi.

In questo quadro complesso si inserisce la sentenza che si annota, di indubbio interesse perché suggerisce una  soluzione per aggirare gli ostacoli che la  rigida normativa civilistica ( applicata in maniera, per lo più intransigente , dalla giurisprudenza)  detta per disciplinare il regime dei crediti nel contesto della cessione d’azienda.

Secondo il Tribunale di Parma, infatti, il giudice può desumere argomenti di prova ai sensi dell’articolo 116 cpc in pregiudizio della parte ( in genere il cessionario)  che non abbia ottemperato ( e quindi si sia sottratto)  all’ordine  di esibizione  in giudizio delle scritture contabili dell’azienda ceduta), dovendosi ritenere ammessi i fatti che avrebbero dovuto essere dimostrati attraverso le scritture contabili non esibite.

A tale proposito la Corte territoriale richiama anche un precedente conforme della Corte di Cassazione (Cass. n. 188 del 1996) .

Altri rimedi esperiti, da creditori che hanno subito il depauperamento del patrimonio aziendale, per contrastare manovre elusive della garanzia del credito, nella casistica sono l’azione revocatoria del contratto di  cessione d’azienda e l’azione di responsabilità dei creditori verso gli amministratori che hanno ceduto l’azienda.

V’è da osservare, per inciso, che la soluzione suggerita da questa sentenza non può trovare applicazione laddove la cessione d’azienda riguarda la piccola impresa per la quale non vige l’obbligo della tenuta delle scritture contabili civilistiche.

Testo della sentenza

Tribunale Parma, 23 agosto 2016 – Giud. Cicriò – Euroaudiomedical Service 2008 seri (avv. Borri) – BT Enia Telecomunicazioni spa (avv. Cantelli).

Azienda – Cessione di ramo – Omessa esibizione dei libri contabili – Responsabilità per debiti

Omissis.Motivi della decisione.

L’appello non è fondato. Con ordinanza del 6 luglio 2010 il giudice di pace ordinò ad EuroAudioMedical srl in liqui­dazione c all’attuale appellante Euroaudiomedical Service 2008 seri {rispettivamente cedente e cessionario del ramo di azienda giusta atto del 15 gennaio 2009) l’esibizione in giudizio dei libri contabili obbligatori relativi agli esercizi 2003 – 2005 della società cedente. Risulta pacifico, per quanto rileva in questa sede, che l’appellante non ebbe ad ottemperare a tale richiesta (correttamente notificata presso la sua sede legale) e la sua asserzione di non esserne nella disponibilità della documentazione richiesta è del tut­to destituita di credibilità posto che in base a minimi criteri di avvedutezza nelle transazioni commerciali, è da ritenere che una società che acquisisca un ramo di azienda, rispon­dendo dei debiti sociali dell’alienante ove risultanti dai libri contabili obbligatori ex art. 2560 secondo comma cc, ne­cessariamente si premunirà di acquisire e compulsare gli stessi prima di determinarsi a procedere alla stipula per poi conservarli al fine di poterli opporre ad eventuali cre­ditori. Ciò secondo l’appellante non sarebbe avvenuto nel caso in esame e la deduzione di essersi accontentata delle dichiarazioni del legale rappresentante della cedente circa l’inesistenza di debiti a carico del ramo di azienda non è minimamente credibile, se non volendo ritenere, anche alla luce degli stretti rapporti di parentela tra gli amministratori delle due società, che la cessione sia stata architettata al fine di frodare i creditori della cedente. Si può quindi condividere la valutazione operata dal giudice di prime cure se­condo cui l’appellante volontariamente abbia omesso di procedere alla produzione in giudizio delle scritture conta­bili, con la conseguenza che tale condotta possa assurgere quale argomento di prova ai sensi dell’art. 116 secondo comma epe, dovendosi ritenere ammessi i fatti che avreb­bero dovuto essere dimostrati attraverso le scritture conta­bili non esibite.

La giurisprudenza intatti (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 188 del 1996), dall’ingiustificata inottemperanza all’ordine di esibizione emesso ai sensi dell’art. 210 cod. proc. civ, ha ritenuto che il giudice possa desumere argomenti di prova, ai sensi dell’art. 116 c.p.c, in pregiudizio della parte che non vi abbia ottemperato, in base al principio della vici­nanza della prova (Sez. 2, Sentenza n. 20110 del 02/09/ 2013) ed alla leale collaborazione delle parti con il giudice.

L’appello deve pertanto essere respinto dovendosi ritenere sussistente la responsabilità dell’appellante per i debiti re­lativi all’azienda ceduta ai sensi dell’art. 2560 secondo com­ma ce, il che assorbe il secondo motivo di appello. – Omìssis

 

 

Novità dal mondo legislativo. Riforma giustizia penale; Fondi per le vittime dell’amianto; Tabelle in materia di danno non patrimoniale

  • Riforma della giustizia penale   
  • E’ stata approvata dal Senato alcuni giorni orsono la nuova riforma della giustizia penale. Il progetto di legge che ha suscitato la reazione dell’avvocatura soprattutto per l’allungamento dei tempi della prescrizione (che determinerebbe una dilatazione dei tempi dei processi per l’inevitabile “rilassamento” che comporterebbe in un contesto giudiziario già inefficiente) con quel che ne consegue per le persone sottoposte a processo portatori di legittime aspettative di vedere risolti in tempi “ragionevoli” le vicende giudiziarie che li riguardano)
  • Questi in sintesi i tratti salienti della riforma.
  • Prescrizione più lunga – per i nuovi processi – e sospensione del decorso della prescrizione in caso di sentenze di condanna di primo e secondo grado; stretta sulla diffusione delle intercettazioni (un archivio riservato, sotto la responsabilità del pm, custodirà i contenuti delle intercettazioni inutilizzabili a qualunque titolo o contenenti dati personali, e che non siano inseriti nelle richieste cautelari. I difensori potranno esaminarle o ascoltarle ma non trascriverle), inoltre è prevista anche la legittimazione dell’uso dei trojan (meglio noti come virus informatici) per le intercettazioni; pene più alte per i reati contro il patrimonio; aumento del numero dei reati procedibili a querela, con possibilità di redenzione tramite condotte riparatorie; maggiori facoltà nel procedimento per le persone offese; potenziamento dell’aspetto rieducativo e di risocializzazione dell’esecuzione penale; reintroduzione del concordato in appello.
  • Per effetto di alcune modifiche introdotte sino all’ultimo momento il progetto di legge dovrà tornare alla camera.

 

I fondi a favore degli eredi di coloro che sono deceduti pere esposizione all’amianto

L’auspicio è che il legislatore, come già accade in altri  paesi europei ( tra i quali Francia, Belgio e Olanda), riconosca  che le malattie dell’amianto rappresentano un problema  di natura sociale  che va affrontato sul piano del welfare, e alimenti i fondi destinati a erogare prestazioni aggiuntive a carico dello Stato, a favore degli eredi dei lavoratori vittime dell’esposizione ad amianto.

E’ stato pubblicato sulla G.U. n. 1 del 2 gennaio 2017 il decreto interministeriale del 27/10/2016 (dei ministeri del lavoro e delle politiche sociali e delle finanze) che prevede prestazioni economiche erogabili a favore degli eredi di coloro che sono deceduti a seguito di patologie asbesto-correlate per esposizione all’amianto, nell’esecuzione delle operazioni portuali nei porti nei quali hanno trovato applicazione le disposizioni della legge 27 marzo 1992, n. 257.

Il decreto è stato emanato in attuazione dell’art. 1, comma 278, della Legge 28/12/2105 n. 208 (stabilità 2016) che aveva “istituito nello stato di previsione del Ministero  del  lavoro  e delle politiche sociali il Fondo  per  le  vittime  dell’amianto,  in favore degli eredi di coloro che sono deceduti a seguito di patologie asbesto-correlate per esposizione all’amianto  nell’esecuzione  delle operazioni portuali nei porti nei quali hanno trovato applicazione le disposizioni della legge 27 marzo 1992, n. 257, con una dotazione  di 10 milioni di euro per ciascuno degli anni  2016,  2017  e  2018”.

Il nuovo Fondo ha una dotazione di 10 milioni di euro per ciascuno degli anni 2016, 2017 e 2018.

IL decreto segue quello del 29/4/2016 (su G.U. n. 134 del 10/6/2016), emanato in attuazione del comma 277, dello stesso articolo 1 della legge di stabilità 2016, istitutivo di un Fondo (con una dotazione pari a 2  milioni  di  euro per  ciascuno  degli  anni  2016,  2017  e   2018) finalizzato   ad accompagnare alla quiescenza, entro l’anno 2018, i  lavoratori  del  settore  della  produzione  di materiale rotabile ferroviario che hanno prestato la loro  attività  nel  sito produttivo, senza essere dotati degli equipaggiamenti  di  protezione adeguati  all’esposizione  alle  polveri  di  amianto.

Il provvedimento legislativo dovrebbe entrare in vigore il quindicesimo giorno successivo alla pubblicazione (il 17/1/2017), oppure lo stesso giorno se ritenuto a efficacia immediata (il 2/1/2017).

Negli anni recenti il legislatore è ritornato più volte sulla questione dei benefici previdenziali e degli indennizzi dei danni conseguenti all’utilizzo dell’amianto (ormai generalmente vietato dal 1992) con provvedimenti contenuti in diverse Leggi finanziarie e di stabilità e altri provvedimenti.

 Risarcimento danni. Sì della Camera al d.d.l. sul risarcimento del danno non patrimoniale

 La Camera dei deputati ha approvato il 21 marzo 2017 il d.d.l. recante «modifiche alle disposizioni per l’attuazione del codice civile in materia di determinazione e risarcimento del danno non patrimoniale». Se anche il Senato darà la sua approvazione si applicheranno, per legge, le tabelle milanesi.

La proposta di legge stabilisce che tanto il danno non patrimoniale derivante dalla lesione temporanea o permanente dell’integrità psico-fisica, quanto il danno non patrimoniale derivante dalla perdita del rapporto di tipo familiare, devono essere liquidati dal giudice, con valutazione equitativa, sulla base delle tabelle, che vengono allegate alle disposizioni di attuazione del codice civile.

Si tratta delle tabelle elaborate dall’Osservatorio sulla Giustizia civile di Milano. La Commissione Giustizia ha modificato la tabella relativa al danno non patrimoniale per la morte del congiunto, aggiungendo al riferimento al coniuge un richiamo alla parte dell’unione civile.

In base alla proposta di legge, il giudice può, tenuto conto delle condizioni soggettive del danneggiato, aumentare l’ammontare della liquidazione fino al 50% dovendo motivare la propria decisione.

Inoltre, le nuove disposizioni potranno essere applicate ai procedimenti in corso all’entrata in vigore della legge, qualora il risarcimento non sia stato ancora determinato in via transattiva oppure non sia già stato liquidato dal giudice con sentenza, anche non definitiva.

Con decreto del Ministro della salute i valori di liquidazione del danno stabiliti dalle tabelle dovranno essere aggiornati ogni anno, in misura corrispondente alle variazioni degli indici ISTAT dei prezzi al consumo.

Locazioni commerciali, deposito cauzionale. E’ legittimo il rifiuto della restituzione da parte del locatore al termine della locazione ? Corte di Cassazione, ord.3882.2014–

Secondo la Corte l’obbligo della restituzione del deposito cauzionale sorge nel momento del rilascio dell’immobile e, nel caso di specie, ritenuta la inappropriata applicazione degli articoli 11 della legge 27 luglio 1978, n. 392, e 416 del codice di procedura civile, invocata dalla difesa del ricorrente, ha  osservato  che la Corte d’Appello confermando la decisione del giudice di primo grado aveva  affermato [erroneamente] che , nella fattispecie, l’obbligo di restituzione del deposito cauzionale non era configurabile, “in capo al locatore, perché dalla corrispondenza esistente tra le parti risultava che il medesimo aveva  lamentato l’esistenza di danni cagionati dal conduttore, avanzandone anche generica richiesta di risarcimento”. Ha  ritenuto  per contro, il giudice di legittimità, che è da condividereil rilievo della società ricorrente secondo cui, una volta che la locazione si è conclusa con la restituzione del bene, il locatore non può rifiutarsi di restituire il deposito sulla base di generiche contestazioni o, semplicemente, riservandosi di agire in un separato giudizio per il risarcimento dei danni. Valgono, al riguardo, le sentenze di questa Corte secondo le quali l’obbligazione del locatore di restituire al conduttore il deposito cauzionale dal medesimo versato in relazione gli obblighi contrattuali sorge al termine della locazione non appena avvenuto il rilascio dell’immobile locato, con la conseguenza che, ove il locatore trattenga la somma anche dopo il rilascio dell’immobile da parte del conduttore, senza proporre domanda giudiziale per l’attribuzione, in tutto o in parte, della stessa a copertura di specifici danni subiti, il conduttore può esigerne la restituzione

Testo del provvedimento

Testo dell’ordinanza

Corte di Cassazione, sezione VI Civile – 3,  Ordinanza 13 novembre 2014 – 25 febbraio 2015, n. 3882 Presidente Finocchiaro – Relatore Cirillo Svolgimento del processo

È stata depositata la seguente relazione.

«1. La Serranò Scavi s.r.l., nella qualità di conduttrice di un immobile ad uso diverso da quello di abitazione, propose opposizione al decreto col quale il Presidente del Tribunale di Monza le aveva ingiunto il pagamento della somma di euro 14.581 in favore del locatore M.I.. Costituitosi il locatore, il Tribunale rigettò l’opposizione.

  1. Proposto appello dalla Serranò Scavi s.r.l., la Corte d’appello di Milano, con sentenza depositata il 17 aprile 2013, in parziale accoglimento del gravame, ha revocato il decreto ingiuntivo, condannando la parte appellante al pagamento della minore somma di euro 5.882,80 – così indicata nella motivazione, a correzione di un errore materiale di cui al dispositivo letto in udienza – nonché al pagamento della metà delle spese dei due gradi di giudizio. 3. Contro la sentenza d’appello ricorre la Serranò Scavi s.r.l., con atto affidato a due motivi. M.I. non ha svolto attività difensiva in questa sede.
  2. Osserva il relatore che il ricorso può essere trattato in camera di consiglio, in applicazione degli artt. 375, 376 e 380-bis cod. proc. civ., in quanto appare destinato ad essere parzialmente accolto. 5. Il primo motivo di ricorso denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 112 cod. proc. civ., sul rilievo che la sentenza in esame avrebbe riconosciuto, a favore del locatore, alcuni importi da questo mai richiesti. Tanto in base al rilievo che, essendo il locatore rientrato in possesso del bene alla data del 30 giugno 2008, residuava in suo favore solo il diritto a percepire i canoni dei mesi di maggio e giugno 2008, mentre la sentenza avrebbe riconosciuto una somma maggiore per altri titoli estranei al pagamento del canone.

5.1. Il motivo è inammissibile, in quanto pone all’esame di questa Corte un profilo nuovo, non discusso in sede di merito. Risulta dall’atto di appello, il cui contenuto la società ricorrente riporta, che le contestazioni oggetto di causa riguardavano altri profili (la presunta nullità del contratto, il carattere consensuale della risoluzione, la restituzione del deposito cauzionale e l’imposta di registro). Nulla risulta essere stato eccepito in sede di merito relativamente alle ulteriori voci che il locatore avrebbe asseritamente richiesto col decreto ingiuntivo (v. p. 5 del ricorso). Sicché la novità della questione ne determina l’inammissibilità. 6. Con il secondo motivo di ricorso si lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 11 della legge 27 luglio 1978, n. 392, e dell’art. 416 del codice di procedura civile.

6.1. Il motivo è fondato.

La Corte d’appello, infatti, nel confermare sul punto la decisione del Tribunale, ha osservato che l’obbligo di restituzione del deposito cauzionale non era configurabile, nella specie, in capo al locatore, perché dalla corrispondenza esistente tra le parti risultava che il medesimo aveva lamentato l’esistenza di danni cagionati dal conduttore, avanzandone anche «generica richiesta di risarcimento». È tuttavia da condividere il rilievo della società ricorrente secondo cui, una volta che la locazione si è conclusa con la restituzione del bene, il locatore non può rifiutarsi di restituire il deposito sulla base di generiche contestazioni o, semplicemente, riservandosi di agire in un separato giudizio per il risarcimento dei danni. Valgono, al riguardo, le sentenze di questa Corte secondo le quali l’obbligazione del locatore di restituire al conduttore il deposito cauzionale dal medesimo versato in relazione gli obblighi contrattuali sorge al termine della locazione non appena avvenuto il rilascio dell’immobile locato, con la conseguenza che, ove il locatore trattenga la somma anche dopo il rilascio dell’immobile da parte del conduttore, senza proporre domanda giudiziale per l’attribuzione, in tutto o in parte, della stessa a copertura di specifici danni subiti, il conduttore può esigerne la restituzione (sentenze 15 ottobre 2002, n. 14655, e 21 aprile 2010, n. 9442). 7. Si ritiene, pertanto, che il ricorso vada trattato in camera di consiglio per essere dichiarato inammissibile quanto al primo motivo e per essere viceversa accolto quanto al secondo».

Motivi della decisione

  1. La società ricorrente non ha presentato memoria in riferimento alla relazione depositata, mentre il suo difensore ne ha contestato il contenuto nel corso dell’udienza camerale fissata. A seguito della discussione sul ricorso, tenuta nella camera di consiglio, ritiene il Collegio di condividere i motivi in fatto e in diritto esposti nella relazione medesima e di doverne fare proprie le conclusioni. 2. Il ricorso, pertanto, è dichiarato inammissibile quanto al primo motivo ed è accolto quanto al secondo. La sentenza impugnata è cassata nei limiti del motivo accolto ed il giudizio rinviato alla Corte d’appello di Milano, in diversa composizione personale, anche per la liquidazione delle spese del presente giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il primo motivo di ricorso, accoglie il secondo, cassa la sentenza impugnata nei limiti del motivo accolto e rinvia alla Corte d’appello di Milano, in diversa composizione personale, anche per la liquidazione delle spese del giudizio di cassazione.

 

Responsabilità medica. Trib.le di Reggio Emilia. Responsabilità della struttura sanitaria per omessa o inesatta esecuzione di  intervento di sterilizzazione

Tribunale di Reggio Emilia Sent.1298 del 07.10.15

La norma: Art. 1227 c.c : se il fatto colposo del creditore ha concorso a cagionare il danno, il risarcimento è diminuito secondo la gravità della colpa e l’entità delle conseguenze che ne sono derivate. Il risarcimento non è dovuto per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza. 

Il secondo comma dell’art. 1227 c.c., pone come condizione per il risarcimento dei danni patiti, l’inevitabilità dei danni stessi da parte del creditore- danneggiato.

Impone cioè a quest’ultimo una condotta attiva diretta ad impedire le conseguenze dell’altrui comportamento dannoso, ma nei limiti dell’ordinaria diligenza che, deve intendersi nell’ambito di attività o scelte che non abbiano carattere di eccezionalità o che comportino rischi o sacrifici.

Pertanto, il dovere di usare l’ordinaria diligenza non implica l’obbligo della paziente danneggiata dalla omessa o inesatta esecuzione di un intervento di sterilizzazione di sottoporsi ad interruzione volontaria della gravidanza al fine di evitare i danni conseguenti all’inadempimento, comportando l’intervento abortivo un evidente e rilevante sacrificio alla salute e alla libertà di autodeterminazione della madre.

Occorre precisare, infatti, che in ambito medico, non trova applicazione il principio noto come concorso del fatto colposo del creditore-danneggiato, previsto dal secondo comma dell’art. 1227 c.c..  per il quale la risarcibilità per i danni occorsi al creditore è esclusa qualora questi avrebbe potuto evitarli usando l’ordinaria diligenza, intesa quale condotta non gravosa oltre modo o non eccezionale per il danneggiato-creditore.

Nel caso di specie, è pacifico che il rimedio abortivo esuli dalle attività di ordinaria diligenza afferenti al novero di cui all’art. 1227 c.c. risultando lesivo del diritto di autodeterminazione della gestante.

 Il caso di specie

 Una paziente in occasione di un parto cesareo richiedeva che in tale sede venisse eseguito anche un intervento volto a scongiurare gravidanze future e indesiderate.

Successivamente però, la stessa rimaneva nuovamente incinta e scopriva che non le era stata eseguita alcuna sterilizzazione nonostante ne avesse fatto richiesta scritta. Lamentava, quindi, che la nascita indesiderata le aveva comportato un concreto ed effettivo peggioramento della propria qualità di vita.

Il Giudice preso atto anche che la stessa si era tempestivamente attivata per scongiurare tale evento, ha ritenuto la struttura sanitaria responsabile dei danni patiti dalla gestante.

Testo della sentenza 

R E P U B B L I C A   I T A L I A N A

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

TRIBUNALE ORDINARIO DI REGGIO EMILIA

SEZIONE SECONDA CIVILE

Il Tribunale, nella persona del Giudice dott.ssa Chiara Zompi

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa civile di I Grado iscritta al n. r.g. 564/2012 promossa

da:

Mu. Iq. (C.F. –omissis–) e Pa. Sa. (C.F. –omissis–), con il

patrocinio dell’avv. INTAGLIATA MAURO e dell’avv. INTAGLIATA DOMENICO

(–omissis–) VIA PANSA, 55/I 42100 REGGIO NELL’EMILIA; elettivamente

domiciliati in VIA PANSA, 55/I 42100 REGGIO NELL’EMILIA presso il

difensore avv. INTAGLIATA MAURO

ATTORI

contro

AZIENDA USL DI REGGIO EMILIA, con il patrocinio dell’avv. MAZZA

FRANCO, elettivamente domiciliata in VIA EMILIA SAN PIETRO 27 42100

REGGIO EMILIA presso il difensore avv. MAZZA FRANCO

CONVENUTA

CONCLUSIONI

Il procuratore di parte attrice chiede e conclude come da fogli

allegati al verbale d’udienza di precisazione delle conclusioni.

Il procuratore di parte convenuta chiede e conclude come da memoria

ex art. 183 co. 6, n. 1, c.p.c..

 Fatto

FATTO E DIRITTO

Con atto di citazione ritualmente notificato, Iq. Mu. e Sa. Pa. convenivano in giudizio, innanzi all’intestato Tribunale, l’Azienda USL di Reggio Emilia, in persona del suo legale rappresentante pro – tempore, per sentirla condannare al risarcimento dei danni, patrimoniali e non patrimoniali, sofferti in conseguenza della nascita indesiderata del loro sesto figlio.

In particolare, gli attori esponevano che Pa. Sa., in occasione del suo quinto parto, programmato col taglio cesareo, aveva comunicato al ginecologo la scelta di procedere al contestuale intervento di sterilizzazione tubarica, a tal fine sottoscrivendo, in data 23.02.2007, l’apposito modulo di manifestazione del consenso c.d. informato.

Proseguivano gli attori esponendo che, in data 08.03.2007, la sig.ra Pa. Sa. si era quindi sottoposta, previa esecuzione di anestesia spinale, all’intervento di “taglio cesareo tradizionale” a seguito del quale era stata dimessa, in data 11.03.2007, con diagnosi di “V gravida alla 39 settimana, precesarizzata, presentazione cefalica”, con prescrizione di terapia medica e controllo dopo 6 settimane.

Fatto sta che, nel mese di dicembre 2008, l’attrice si era accorta di essere restata nuovamente incinta e, avendo deciso di portare a termine anche questa gravidanza, in data 10.08.2009 aveva partorito il suo sesto figlio. Ciò posto, deducevano gli attori che i sanitari dell’Ospedale dl Guastalla avevano del tutto omesso di provvedere, successivamente all’effettuazione del taglio cesareo, alla sterilizzazione tubarica, benché espressamente richiesta e autorizzata dalla paziente.

Lamentavano che la nascita del sesto figlio aveva messo a dura prova la situazione economica ed umana della famiglia e aveva esposto la madre un elevato stress fisico e mentale, certificato dalla comparsa di “evidente edema al dorso delle mani e dei piedi, alla regione orbitaria bilateralmente” e di “orticaria allergica ed edema diffuso sottocutaneo”.

Assumevano, quindi, gli attori che la nascita indesiderata aveva cagionato alla madre un danno biologico, nonché ad entrambi i genitori un grave pregiudizio, patrimoniale e non patrimoniale, danni quantificati in complessivi E. 490.206,50. Si costituiva in giudizio la Azienda USL convenuta, contestando la fondatezza della domanda risarcitoria ex adverso formulata e chiedendone l’integrale reiezione. In particolare, la Azienda convenuta negava che la Parveen, all’atto del “prericovero” avvenuto in data 23.02.2007, avesse formulato la richiesta di essere sottoposta a sterilizzazione tubarica. Eccepiva che, in ogni caso, dalla lettera di dimissioni emergeva chiaramente il fatto che tale intervento non era stato eseguito.

Infine, deduceva che l’attrice, scoperta la gravidanza nel dicembre 2008, ben avrebbe potuto ricorrere all’interruzione volontaria della stessa ai sensi della L. n. 194/78.

Nel corso del giudizio, espletati gli incombenti di cui all’art. 183 c.p.c., il G.I. ammetteva le prove orali richieste dalle parti. Infine, all’udienza del 21.5.2015, il G.I., in funzione di Giudice Unico, sulle conclusioni precisate dai procuratori delle parti, tratteneva la causa in decisione a norma dell’art. 190 c.p.c.

Ritiene questo Giudice che, alla luce delle acquisite risultanze processuali, la domanda risarcitoria così come formulata dagli attori sia, almeno in parte, meritevole di accoglimento.

Giova anzitutto osservare che, nella fattispecie, non si verte nell’ipotesi, più ricorrente nella realtà giudiziaria, in cui il paziente allega di aver patito un danno alla salute in conseguenza di azioni od omissioni del medico ovvero di non avere conseguito alcun miglioramento delle proprie condizioni di salute nonostante il suo intervento, ma si verte invece nell’ipotesi, assolutamente diversa, in cui una paziente, premesso di aver concordato con i medici l’esecuzione, in occasione di un parto cesareo, di un intervento volto a scongiurare gravidanze indesiderate, lamenta di essere restata nuovamente incinta a distanza di pochi mesi, in quanto, come accertato in seguito, il programmato intervento di sterilizzazione tubarica non era stato affatto eseguito dai sanitari operanti.

Ebbene, come di recente chiarito dalla Suprema Corte in relazione ad ipotesi del tutto analoga (Cass. n. 24109/2013), deve trovare anche in questo caso applicazione il consolidato principio giurisprudenziale secondo cui il creditore, ossia il paziente che agisca in giudizio deducendo l’inesatto adempimento dell’obbligazione sanitaria, è tenuto a dimostrare l’esistenza del contratto e ad allegare l’inadempimento del sanitario, incombendo sul sanitario (o sulla struttura ospedaliera) l’onere di provare che la prestazione professionale sia stata eseguita in modo diligente. Ciò posto, nel caso che occupa tra le parti non vi è alcuna contestazione in ordine alla sussistenza del rapporto professionale – negoziale dedotto in giudizio e ai fatti descritti in citazione, e, segnatamente, in ordine al ricovero dell’attrice presso l’Unità Operativa di Ostetricia dell’Ospedale di Guastalla per l’esecuzione del programmato intervento di parto cesareo e alla mancata esecuzione, a seguito del predetto parto mediante taglio cesareo, dell’ulteriore intervento di sterilizzazione tubarica. La Azienda USL convenuta si è infatti limitata ad eccepire che “nessuna richiesta in tal senso” sarebbe stata formulata dall’odierna attrice in sede di raccolta anamnestica. L’assunto difensivo risulta tuttavia smentito dall’istruttoria.

Ed invero, com’è pacifico e documentato, in data 23.2.2007, all’atto del “prericovero” per fine gravidanza, la Pa. sottoscrisse apposito modulo di consenso cd informato, con cui dichiarava di autorizzare il personale medico del reparto di ostetricia a praticare sulla sua persona l’intervento di sterilizzazione tubarica, inteso a prevenire ulteriori gravidanze (doc. 1 att.). Come è stato riferito dal teste di parte convenuta dott. Be. Cl., medico ginecologo che raccolse il consenso della paziente, “quella di essere sottoposta a sterilizzazione tubarica è una specifica richiesta della paziente che il medico raccoglie e poi inserisce in cartella clinica, come richiesta accessoria a quella di parto cesareo”. Il teste ha altresì precisato che “se ci sono due moduli di consenso, uno relativo al parto cesareo e l’altro relativo alla sterilizzazione, è perché la paziente ha specificamente richiesto la sterilizzazione”. Sulla scorta del chiaro tenore letterale del documento prodotto da parte attrice sub doc. 1 e della sopra riportata deposizione testimoniale, non può seriamente dubitarsi che la Parveen abbia manifestato in modo inequivoco ai sanitari del nosocomio di Guastalla la sua volontà di essere sottoposta a sterilizzazione tubarica.

Ne è riprova la circostanza che anche il diario infermieristico contenuto al foglio 40 della cartella clinica riporta la annotazione “programma taglio cesareo + S.T.” laddove la sigla S.T., come è stato confermato dai testi Ventura Alessandro e Barbara Dallatomasina, sta per “Sterilizzazione Tubarica” (doc. 2 conv.).

Ciò posto, dovendo ritenersi provato che l’attrice abbia espresso, in occasione della visita ginecologica del 23.2.2007, una chiara volontà di essere sottoposta a sterilizzazione tubarica, del tutto irrilevante appare la circostanza che ella non abbia ribadito tale richiesta “contemporaneamente all’esecuzione del programmato taglio cesareo” ai sanitari presenti in sala operatoria.

Neppure può condividersi la difesa di parte convenuta secondo cui gli attori avrebbero dovuto avvedersi del fatto che la sterilizzazione non era stata praticata, in quanto la stessa non era indicata nella lettera di dimissioni dell’11.3.2007 (pag. 48 doc. 2 conv.).

Sul punto basti osservare che la mera circostanza che la lettera di dimissioni riportasse come intervento praticato sulla paziente (solo) il taglio cesareo non può certo ritenersi di per sé sufficiente a mettere gli attori, peraltro stranieri, in condizione di comprendere che il richiesto intervento di sterilizzazione – per ragioni che erano e sono rimaste sconosciute – non era stato eseguito. Sotto altro profilo, eccepisce la Azienda USL che la Parveen, venuta a conoscenza nel dicembre 2008 di essere rimasta nuovamente incinta, “ben avrebbe potuto legittimamente ricorrere, in forza delle disposizioni della Legge n. 194/78, all’interruzione di gravidanza”.

Anche tale eccezione non merita accoglimento. L’esistenza, nel nostro ordinamento, di un diritto all’aborto non comporta che tale diritto debba essere esercitato, ben potendo sussistere ragioni etiche, morali o religiose che impediscono tale scelta.

D’altra parte, altro è la scelta di non procreare, altro è quella di porre termine ad una gravidanza già in corso, decisione quest’ultima che risulta carica di ripercussioni, fisiche e psicologiche, per la donna.

Ciò detto, deve rammentarsi che, secondo consolidata giurisprudenza, il secondo comma dell’art. 1227 cod. civ., nel porre come condizione per il risarcimento dei danni l’inevitabilità degli stessi da parte del creditore, impone a quest’ultimo una condotta attiva o positiva diretta ad impedire le conseguenze dell’altrui comportamento dannoso ma nei limiti dell’ordinaria diligenza, laddove si intendono comprese nell’ambito dell’ordinaria diligenza, all’uopo richiesta, soltanto quelle attività che non siano gravose o eccezionali o tali da comportare notevoli rischi o rilevanti sacrifici.

Nella fattispecie, non può certo richiedersi alla danneggiata di sottoporsi ad intervento di interruzione volontaria della gravidanza al fine di evitare i danni conseguenti alla mancata esecuzione della sterilizzazione, comportando l’intervento abortivo un evidente e rilevante sacrificio alla salute e alla libertà di autodeterminazione della madre. Sulla scorta delle predette considerazioni, ritenuti sussistenti i dedotti profili di colpa nell’operato dei sanitari del nosocomio di Guastalla, i quali hanno totalmente omesso l’esecuzione dell’intervento di sterilizzazione tubarica richiesto dalla Parveen, va pertanto affermata la responsabilità dell’Azienda USL convenuta, e, per l’effetto, quest’ultima deve essere condannata al risarcimento dei danni sofferti dagli attori. Venendo alla quantificazione dei predetti danni, deve in primo luogo essere rigettata la domanda di risarcimento del danno biologico asseritamente sofferto dalla Parveen. Sul punto occorre infatti rilevare che, com’è pacifico e come emerge dalla cartella clinica prodotta dalla convenuta sub doc. 3, la gravidanza indesiderata ebbe un decorso regolare e si concluse con un intervento di parto cesareo (e sterilizzazione tubarica, richiesta e questa volta eseguita) privo di complicanze, tant’è che nessun profilo di danno alla salute viene dedotto con riferimento al periodo di gestazione.

Piuttosto, lamenta l’attrice che, successivamente al parto, avvenuto in data 10.8.2009, ella aveva sofferto di edema al volto e alle mani e di orticaria, sintomi di uno stato di “elevato stress psicologico”. Tuttavia, è la stessa attrice a riferire che, sottopostasi a visita psichiatrica per i predetti disturbi somatici, non emersero patologie psichiatriche, “ma soltanto un elevato stress psicologico, dovuto allo stravolgimento della qualità della vita” (doc. 3 att.).

Date tali risultanze, non può darsi ingresso alla C.T.U. medico-legale su cui parte attrice ha insistito anche in sede di precisazione delle conclusioni, trattandosi di indagine del tutto esplorativa.

Sotto altro profilo, lamentano gli attori di aver sofferto un danno non patrimoniale conseguente alla lesione del diritto di “autodeterminazione della propria esistenza” da quantificarsi, in via equitativa, in E 110.000,00 in favore della madre Pa. Sa. e in E.70.000,00 in favore del padre Mu. Iq..

Sul punto si osserva che può dirsi ormai acquisito nel nostro ordinamento il riconoscimento della posizione di tutela conseguente alla lesione del diritto all’autodeterminazione della coppia nella scelta di procreare in modo “cosciente e responsabile” (art. 1 L. n. 194 del 1978) che, se frustrato, costituisce un danno ingiusto meritevole di risarcimento, trattandosi di un diritto di libertà che trova tutela nel testo costituzionale (artt. 2 e 13 Cost.).

Come più volte riconosciuto dalla giurisprudenza di merito (Trib. Milano 20.10.1997; Trib. Tolmezzo 7.6.2011, Trib. Latina 21.7.2011; Trib. Busto Arsizio 17.7.2001), se dall’inadempimento del sanitario agli obblighi di diligenza a suo carico consegue la lesione del diritto della paziente di decidere liberamente se procreare o meno, tale inadempimento genera un danno che deve essere risarcito anche nella sua componente non patrimoniale e ciò malgrado il fatto non costituisca reato, trattandosi della lesione di diritti inviolabili della persona riconosciuti dalla Costituzione ed essendosi in presenza di una grave lesione dell’interesse tutelato e di un danno certamente non futile (cfr Cass. S.U. n. 26972/2008).

Inoltre, come chiarito dalla Suprema Corte in fattispecie analoghe, deve ritenersi che entrambi i genitori, e non solo la madre, siano legittimati a richiedere il risarcimento del danno non patrimoniale, essendo anche il padre tra i soggetti protetti dal contratto col medico (cfr. Cass. n. 6735/2002, secondo cui, in tema di responsabilità del medico per omessa diagnosi di malformazioni del feto e conseguente nascita indesiderata, il risarcimento dei danni che costituiscono conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento del ginecologo spetta non solo alla madre, ma anche al padre, “atteso il complesso di diritti e doveri che, secondo l’ordinamento, si incentrano sul fatto della procreazione, non rilevando, in contrario, che sia consentito solo alla madre (e non al padre) la scelta in ordine all’interruzione della gravidanza, atteso che, sottratta alla madre la possibilità di scegliere a causa dell’inesatta prestazione del medico, agli effetti negativi del comportamento di quest’ultimo non può ritenersi estraneo il padre, che deve perciò ritenersi tra i soggetti protetti dal contratto col medico e quindi tra coloro rispetto ai quali la prestazione mancata o inesatta può qualificarsi come inadempimento, con tutte le relative conseguenze sul piano risarcitorio”). Sennonché non è l’inadempimento del sanitario che è di per sé oggetto di risarcimento, ma il danno consequenziale, secondo i principi di cui all’art. 1223 c.c..

Tali principi trovano applicazione anche nel caso di danno non patrimoniale che deve sempre essere provato, trattandosi di danno – conseguenza e non di danno – evento, giacché, come più volte chiarito dalla Suprema Corte, “il danno non patrimoniale, anche nel caso di lesione di diritti inviolabili, non può mai ritenersi in re ipsa, ma va debitamente allegato e provato da chi lo invoca, anche attraverso il ricorso a presunzioni semplici” (tra le tante, Cass. 10527/2011; Cass. 13614/2011; Cass. 7471/2012). Venendo al caso che occupa, ritiene questo giudice che l’onere di allegazione e prova posto a carico del danneggiato dalla giurisprudenza sopra richiamata sia stato adeguatamente assolto soltanto dall’attrice Pa. Sa..

Ed invero, quest’ultima ha domandato il risarcimento del danno cd da nascita indesiderata dedotto con riferimento allo stress ed al disagio conseguente allo stravolgimento delle proprie aspettative e della “qualità” della propria vita a seguito e per l’effetto della nascita del sesto figlio allegando, in particolare, di aver vissuto un periodo di elevato stress fisico e mentale cagionato dalla difficoltà di accudire tre bambini in tenera età “che riposano pochissimo la notte”.

Tale circostanza, non fatta oggetto di specifica contestazione da parte della convenuta, appare altresì comprovata dalla documentazione prodotta in atti dalla attrice, da cui risultano, nel periodo immediatamente successivo al sesto parto, ben due accessi al Pronto Soccorso per disturbi tipicamente psicosomatici (edema ed orticaria). Sulla scorta di tali elementi può ragionevolmente presumersi che la Parveen, già madre di cinque figli, abbia subito un concreto ed effettivo peggioramento della propria qualità di vita per effetto della nascita “indesiderata” del suo sesto figlio, anche ove si consideri che la stessa si era tempestivamente attivata proprio per evitare tale evento.

Si ravvisano pertanto i presupposti richiesti dalla citata giurisprudenza di legittimità per riconoscere la risarcibilità del danno non patrimoniale. Considerati tutti gli acquisiti elementi di giudizio, appare equo riconoscere a tale titolo all’attrice la somma di E. 20.000 liquidata all’attualità comprensiva, cioè, di rivalutazione ed interessi. A diverse conclusioni deve invece pervenirsi con riferimento alla analoga domanda promossa dall’attore Iqbal Muhammad.

Ed invero, quest’ultimo non ha specificamente allegato né provato quali siano stati i concreti riflessi della nascita del suo sesto figlio sulle sue abitudini e su i suoi ritmi di vita.

La difesa dell’attore si è infatti limitata ad argomentare, in modo del tutto generico, che la violazione del diritto alla procreazione si traduce in un danno evento “che si ritiene presuntivamente esistente e consiste nello stravolgimento della vita di più persone, con abitudini, passatempi, ritmi biologici, forzatamente mutati, nella perdita di chance lavorative, nella modifica della vita di relazione, insomma nel totale cambiamento della abitudini di vita”.

Sennonché tali considerazioni di carattere generale, oltre che contrastare con i principi enunciati dalla prevalente giurisprudenza di legittimità la quale, come già si è detto, esclude la configurabilità danno – evento anche nell’ipotesi di danno non patrimoniale, mal si attagliano alla fattispecie concreta ove si consideri che l’attore era già padre di cinque figli, di tal che appare inverosimile ritenere che la nascita del sesto possa aver comportato un radicale mutamento delle sue abitudini di vita. Sulla scorta delle predette considerazioni, la domanda dell’Iqbal di risarcimento del danno non patrimoniale non può trovare accoglimento, non avendo l’attore fornito alcun concreto elemento che consenta di ritenere provato il lamentato pregiudizio, neppure mediante il ricorso a presunzioni.

Resta da esaminare la domanda di risarcimento del danno patrimoniale proposta da entrambi gli attori. Superando un orientamento più risalente che limitava il danno risarcibile solo a quello dipendente dal pregiudizio alla salute fisio – psichica della donna specificamente tutelata dalla legge 194/1978 (Cass. 6464/1994), la recente giurisprudenza di legittimità ha più volte affermato la risarcibilità anche del danno patrimoniale che sia conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento del sanitario, in termini di causalità adeguata (Cass. n. 12195/1998; Cass. n. 14488/2004; Cass. n. 13/2010).

Ciò posto, è indubbio che la nascita di un figlio comporti delle spese, necessarie per il suo mantenimento e la sua educazione fino a raggiungimento della sua indipendenza economica, le quali costituiscono conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento medico e soddisfano l’ulteriore requisito della prevedibilità del danno ai sensi dell’art. 1225 c.c.. Deve pertanto ritenersi che, come allegato dagli attori, il danno economico risarcibile sia costituito dalle spese che i due genitori dovranno sostenere per il mantenimento del figlio fino alla sua indipendenza economica, che può presuntivamente farsi coincidere con il compimento del 23 esimo anno di età (Trib. Cagliari 23 febbraio 1995; Trib. Tolmezzo 7 giugno 2011). Venendo alla quantificazione del predetto pregiudizio, la stessa non può che essere effettuata in via equitativa, data l’oggettiva difficoltà di fornire la prova del danno.

Non avendo gli attori fornito alcuna informazione circa la loro situazione reddituale o l’attività lavorativa svolta, alla liquidazione dovrà procedersi con riferimento al criterio generale ed astratto del costo minimo per il mantenimento di un figlio che può essere individuato nell’importo di E. 300,00 mensili (comprensivo d’interessi legali e rivalutazione monetaria).

Tale importo appare congruo anche ove si consideri che il sesto figlio, normalmente, può utilizzare il vestiario, le attrezzature e i libri già acquistati per i fratelli maggiori, consentendo ai genitori di giovarsi, in qualche misura, di “economie di scala”. Moltiplicando la suddetta somma di E.300,00 per 12 mesi e per 23 anni, agli attori deve essere riconosciuto, a titolo di risarcimento del danno patrimoniale, il complessivo importo di E. 82.800,00.

Quanto invece alle spese anticipate nel corso del tentativo di mediazione obbligatoria (E. 1.293,00 doc. 9 att.), le stesse non possono essere considerate come autonoma voce di danno risarcibile, dovendo invece essere liquidate tra le spese di lite (per tutte, Cass. n. 3523 del 27/10/1969). Sulle somme come sopra liquidate a titolo di danni patrimoniali e non patrimoniali sono dovuti gli ulteriori interessi di legge dalla decisione al saldo.

Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo, sulla base dei parametri di cui al DM 55/2014, avuto riguardo alla somma attribuita alla parte vincitrice piuttosto che a quella domandata.

PQM

P.Q.M.

Il Tribunale, definitivamente pronunciando, reietta o assorbita ogni altra domanda, eccezione o conclusione:

1) – dichiara la convenuta Azienda Unità Sanitaria Locale di Reggio Emilia responsabile dei danni sofferti dagli attori in conseguenza dei fatti oggetto di causa e, per l’effetto

2) – condanna la convenuta al pagamento, in favore dell’attrice Sa. Pa., a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale, della somma, liquidata all’attualità, di E 20.000,00, nonché al pagamento in favore di entrambi gli attori, a titolo di risarcimento del danno patrimoniale, dell’ulteriore somma, sempre all’attualità, di E. 82.800,00, oltre interessi di legge dalla decisione al saldo;

3) – condanna la AUSL convenuta al rimborso in favore degli attori delle spese di lite liquidate in E. 2357,00 per esborsi (di cui E.1.293,00 per spese di tentativo obbligatorio di conciliazione) e in E. 13.430,00 per compensi di avvocato, oltre rimborso spese generali, IVA e CPA come per legge.

REGGIO EMILIA, 7 ottobre 2015

 

 

Locazione ad uso diverso. E’ valida la clausola che prevede l’aumento del canone nel corso del rapporto locatizio ?

Corte di Cassazione, Sezione 3 civile, Sentenza 11 ottobre 2016, n. 20384

In tema di locazione di immobili adibiti ad uso diverso da quello abitativo, ogni pattuizione avente ad oggetto non gia’ l’aggiornamento del corrispettivo ai sensi della L. 27 luglio 1978, n. 392, articolo 32, ma veri e propri aumenti del canone, deve ritenersi nulla ex articolo 79, comma 1, della stessa legge, in quanto diretta ad attribuire al locatore un canone piu’ elevato rispetto a quello legislativamente previsto, senza che il conduttore possa, neanche nel corso del rapporto, e non soltanto in sede di conclusione del contratto, rinunciare al proprio diritto di non corrispondere aumenti non dovuti.

La clausola che preveda la determinazione del canone in misura differenziata e crescente per frazioni successive di tempo nell’arco del rapporto e’ valida a condizione che si tratti, non gia’ di un vero e proprio “aumento”, bensi’ di un “adeguamento” del canone al mutato valore locativo dell’immobile volto a ripristinare il sinallagma originario, evitando uno squilibrio a vantaggio del conduttore altrimenti determinato dal canone fisso ovvero di una limitata e iniziale “riduzione” del canone convenuto, sempre che nell’uno, come nell’altro caso, tanto emerga da elementi obiettivi e predeterminati cui sia affidata “la scaletta” del canone.

Testo della sentenza

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. VIVALDI Roberta – Presidente
Dott. AMBROSIO Annamaria – rel. Consigliere
Dott. BARRECA Giuseppina Luciana – Consigliere
Dott. SCRIMA Antonietta – Consigliere
Dott. TATANGELO Augusto – Consigliere

ha pronunciato la seguente:
SENTENZA

sul ricorso 5498/2014 proposto da:

(OMISSIS), elettivamente domiciliata in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), rappresentata e difesa dall’avvocato (OMISSIS) giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

COSTRUZIONI SANTA CHIARA SRL, in persona del suo amministratore e legale rappresentante Dott.ssa (OMISSIS), elettivamente domiciliata in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), rappresentata e difesa dall’avvocato (OMISSIS) giusta procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1354/2013 della CORTE D’APPELLO di CATANIA, depositata il 12/07/2013;

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza in data 07.12.2010 il Tribunale di Catania, sez. di Mascalucia, in accoglimento dell’opposizione proposta dalle odierne ricorrenti, (OMISSIS) e (OMISSIS) s.r.l., avverso il decreto ingiuntivo di pagamento emesso ad istanza della s.r.l. (OMISSIS) per la somma di Euro 8.223,11 a titolo di differenze canoni insoluti, revocava il decreto ingiuntivo e condannava le opponenti al pagamento della minor somma di Euro 489,11 per oneri condominiali e quota parte dell’imposta di registro.

Con sentenza n. 1354 in data 12.07.2013, la Corte di appello di Catania – accogliendo l’appello proposto dalla s.r.l. (OMISSIS) avverso detta decisione – rigettava l’opposizione, condannando le opponenti al pagamento delle spese del doppio grado.

Avverso detta sentenza hanno proposto ricorso per cassazione (OMISSIS) e la s.r.l. (OMISSIS), svolgendo cinque motivi.

Ha resistito la s.r.l. (OMISSIS), depositando controricorso e memoria.

MOTIVI DELLA DECISIONE

  1. La controversia e’ incentrata sulla pretesa di pagamento di maggiori canoni di locazione rispetto a quello inizialmente convenuto tra le parti, secondo “una scaletta” prevista con scrittura modificativa in data 1 aprile 2009, registrata in data 18.04.2010 (“scaletta”, pacificamente diversa da quella stabilita dalle stesse parti con il contratto originario in data 30 marzo 2009).

La Corte di appello – muovendo dalla considerazione dell’autonomia delle parti, vuoi nella determinazione del canone di locazione ad uso non abitativo, vuoi nella successiva modificazione dell’accordo originario – ha ritenuto legittima la pretesa della locatrice ai maggiori importi pretesi con il decreto ingiuntivo opposto, sulla base delle seguenti argomentazioni:

– innanzitutto era indifferente la circostanza che la modifica del canone iniziale di locazione avvenisse con accordo successivo alla sua stipulazione e con atto non avente contenuto transattivo: tanto per il rilievo che la nullita’ predicata dalla giurisprudenza di legittimita’ si verifica solo se sussiste una violazione (o elusione) della L. n. 392 del 1978, articolo 32, in comb. disp. con l’articolo 79, stessa legge a prescindere dal tempo in cui intervengono e per l’ulteriore considerazione che si e’ ritenuto simmetricamente di trarne e, cioe’, che all’inverso, la validita’ del patto prescinde dal fatto che si verta in ipotesi di accordo contestuale o modificativo;

– non esiste un sistema di blocco del canone nelle locazioni non abitative, essendo vietato dall’articolo 32 cit. unicamente di perseguire lo scopo di neutralizzare gli effetti eccedenti i limiti della svalutazione monetaria; di conseguenza – in dichiarato dissenso con la giurisprudenza di legittimita’ – occorreva ritenere che, una volta stabilita l’inesistenza di tale scopo elusivo, non era consentita una lettura dell’articolo 79 cit. in termini di nullita’ di protezione, nell’indimostrato presupposto di una posizione del conduttore piu’ debole rispetto a quella del locatore; anche perche’ la lettera della legge e i principi in tema di autonomia contrattuale non consentivano deroghe in mancanza di esplicita previsione;

– l’accordo modificativo recante la data del 1 aprile 2009 con il quale era stato variato in aumento il canone stabilito (previsto gia’ a scaletta, in quanto convenuto in Euro 1.600,00 e quindi fissato in Euro 1.100,00 iniziali “al solo fine di agevolare la crisi economica attuale” nel contratto del 30 marzo 2009) era valido, cosi’ come era valido il contratto originario; e cio’ perche’ anche in questo contratto il canone era stato pattuito “a scaletta”; in particolare i contraenti, considerata la rilevante superficie del locale e al “al solo fine di agevolare la crisi economica attuale” stabilivano che il canone iniziale sarebbe stato di Euro 1.590,00; si trattava di un aumento non elusivo, perche’ del tutto indipendentemente dalle variazioni della moneta, era stato ancorato a predeterminati elementi incidenti sull’equilibrio economico del sinallagma contrattuale e legato a una giustificata riduzione del canone per un limitato periodo iniziale, senza che, di per se’, la pattuizione incorresse nel divieto di cui all’articolo 32 cit..

1.1. Con il primo motivo di ricorso si denuncia violazione o falsa applicazione degli articoli 112, 342 e 434 c.p.c. (ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., n. 3). Al riguardo parte ricorrente lamenta che la Corte di appello abbia violato il principio del tantum devolutum, quantum appellatum, avendo posto a fondamento delle sua decisione circostanze di fatto (e, cioe’, l’assenza di contestualita’ delle due scritture negoziali del 30.03.2009 e del 01.04.2009 intervenute dalle parti) diverse da quelle allegate dalla locatrice, secondo cui dette scritture erano state redatte nello stesso momento.

1.2. Con il secondo motivo di ricorso si denuncia violazione della L. n. 392 del 1978, articoli 32 e 79, per aver ritenuto legittimo il patto contenuto nella scrittura del 01.04.2009 in forza del quale le parti avevano stabilito il canone in misura diversa da quella del contratto di locazione stipulato in data 30.03.2009, in palese difformita’ con l’orientamento di legittimita’ consolidato nel senso della nullita’ dei patti modificativi della misura del canone sottoscritti nel corso del rapporto locativo. A tal riguardo le ricorrenti osservano che le clausole che prevedono aumenti progressivi “a scaletta” sono valide a tre condizioni e, cioe’, che siano fissate ab initio, che siano ancorate ad elementi oggettivi e predeterminati e che prevedano un canone finale fisso rispetto al quale i canoni minori costituiscano stadi intermedi per giungere al corrispettivo effettivo prefissato; rilevano, quindi, nello specifico che, ove la scrittura integrativa racchiudesse una modalita’ di aggiornamento del canone, sarebbe illegittima in quanto costituirebbe una modalita’ di elusione della L. n. 392 del 1978, articolo 32; che ove la stessa scrittura (pacificamente successiva alla conclusione del contratto iniziale) fosse interpretabile come una “scaletta” di aumenti progressivi che conducano gradualmente alla cifra del canone di locazione definitivo e concordato, essa sarebbe ugualmente illegittima perche’ mancano le condizioni sopra indicate, per l’assenza di elementi oggettivi e predeterminati, tali non essendo il fine generico di “agevolare il superamento della crisi economica attuale”: denunciano, infine, che – sebbene si tratti di valutazioni riservate al giudice del merito – nella specie non e’ stata operata alcuna verifica sul punto.

1.3. Con il terzo motivo di ricorso si denuncia omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che e’ stato oggetto di discussione tra le parti (ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., n. 5) nonche’ violazione o falsa applicazione dell’articolo 112 c.p.c. (ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., n. 3). Al riguardo parte ricorrente lamenta che la Corte territoriale non si sia pronunciata sulle proprie argomentazioni, laddove evidenziava il carattere “di stile” della clausola che faceva riferimento “al solo fine di agevolare la crisi economica attuale”, ripetuta nei due contratti e quindi tale da non potere giustificare una diversa “scaletta”.

1.4. Con il quarto motivo di ricorso si denuncia omesso esame dell’appello incidentale nullita’ della sentenza (ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., n. 4) e violazione o falsa applicazione dell’articolo 112 c.p.c. (ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., n. 3), per non essersi la Corte di appello pronunciata sull’appello incidentale condizionato, con cui si deduceva la violazione della L. n. 311 del 2004, articolo 1, comma 346, e la nullita’ ex articoli 1344 e 1345 c.c..

1.5. Con il quinto motivo si denuncia omesso esame dell’appello incidentale nullita’ della sentenza (ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., n. 4) e violazione o falsa applicazione dell’articolo 112 c.p.c. (ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., n. 3) per non essersi la Corte di appello pronunciata sul secondo motivo di appello incidentale relativo all’erronea condanna al pagamento degli oneri accessori.

  1. Il primo motivo e’ infondato.

Le ricorrenti si dolgono che il giudice di appello abbia fondato la decisione sulla considerazione dell’intervenuta modificazione dell’originario contratto di locazione del 30 marzo 2009 con la scrittura privata del 1 aprile 2009, sebbene la tesi dell’appellante postulasse la contestualita’ delle due scritture. Senonche’ tutto cio’ attiene all’interpretazione dei fatti oggetto d’esame e non ridonda nel vizio di ultrapetizione.

Invero e’ pacifico (ex plurimis: Cass., n. 11455/2004; Cass., n. 8218/2002) che il principio della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato, fissato dall’articolo 112 cod. proc. implica il divieto per il giudice di attribuire alla parte un bene non richiesto o, comunque, di emettere una statuizione che non trovi corrispondenza nella domanda. Il suddetto principio e’, quindi, violato ogni qual volta il giudice, interferendo nel potere dispositivo delle parti, alteri alcuno degli elementi obiettivi di identificazione dell’azione, attribuendo o negando ad alcuno dei contendenti un bene diverso da quello richiesto e non compreso, nemmeno implicitamente o virtualmente, nella domanda, ovvero, nell’ambito del petitum, rilevi d’ufficio un’eccezione in senso stretto che puo’ essere sollevata soltanto dall’interessato, oppure ponga a fondamento della decisione fatti e situazioni estranei alla materia del contendere, introducendo nel processo un titolo nuovo e diverso da quello enunciato dalla parte a sostegno della domanda; mentre non osta a che – come e’ avvenuto nella decisione in esame – il giudice renda la pronuncia richiesta in base ad una ricostruzione o ad una interpretazione dei fatti autonoma rispetto a quella prospettata dalle parti.

Il motivo va, dunque, rigettato.

2.2. Il secondo motivo e’ fondato e assorbente rispetto agli altri motivi.

2.2.1. Innanzitutto va ribadito che in tema di immobili adibiti ad uso diverso da abitazione, ogni pattuizione avente ad oggetto non gia’ l’aggiornamento del corrispettivo ai sensi della L. n. 392 del 1978, articolo 32, ma veri e propri aumenti del canone, deve ritenersi nulla, ex articolo 79, comma 1, della stessa legge, in quanto diretta ad attribuire al locatore un canone piu’ elevato rispetto a quello previsto dalla norma. (cfr., in particolare, Cass., 11 aprile 2006, n. 8410; Cass., 27 luglio 2001, n. 10286).

E’ ben vero che – come evidenziato nella decisione impugnata – questa Corte, con riferimento ai contratti di locazione ad uso non abitativo, in virtu’ del principio della libera determinazione convenzionale del canone locativo, ha ritenuto legittima la clausola che preveda la determinazione del canone in misura differenziata e crescente per frazioni successive di tempo nell’arco del rapporto; ma tutto cio’ a condizione che l’aumento sia ancorato ad elementi predeterminati ed idonei ad influire sull’equilibrio del sinallagma contrattuale, ovvero appaia giustificata la riduzione del canone per un limitato periodo che la suddetta clausola non costituisca un aggirare la norma imperativa di cui alla L. n. 392, articolo 32, circa le modalita’ e aggiornamento del canone in relazione alle iniziale, salvo espediente per 27 luglio 1978, la misura di variazioni del potere d’acquisto della moneta (ex plurimis, cfr. Cass. 30 settembre 2014, n. 20553).

In sostanza tale principio – lungi dal postulare simmetricamente la legittimita’ di una pattuizione che intervenga nel corso del rapporto, come opinato dalla Corte territoriale – obbliga il giudice a verificare se la previsione di “una scaletta” del canone non sia volta ad eludere la norma di cui all’articolo 32 cit., occorrendo che si tratti – non gia’ di un aumento che non sarebbe, comunque consentito (sia esso convenuto ab origine ovvero nel corso del rapporto) – bensi’ di un “adeguamento” del canone al mutato valore locativo dell’immobile volto a ripristinare il sinallagma originario, evitando uno squilibrio a vantaggio del conduttore altrimenti determinato dal canone fisso ovvero di una limitata e iniziale “riduzione” del canone convenuto, sempre che nell’uno, come nell’altro caso, tanto emerga da elementi obiettivi e predeterminati cui sia affidata “la scaletta” del canone.

2.2.2. La decisione impugnata appare ispirata a un risalente orientamento secondo cui il divieto posto dalla L. n. 392 del 1972, articolo 79 (comminante la nullita’ delle pattuizioni dirette ad attribuire al locatore un canone maggiore rispetto a quello dovuto) e’ da intendersi come diretto ad evitare una elusione solamente di tipo preventivo dei diritti del locatario, e, attesa la desunta possibilita’ di disporre dei diritti una volta sorti e quindi suscettibili di essere fatti valere, ritiene valido il patto avente ad oggetto l’aumento del canone convenuto nel corso del rapporto (v. Cass., 19 novembre 993, n. 11402).

In contrario senso – argomentando dal complessivo tenore della norma di cui all’articolo 79 – si e’ peraltro posto in rilievo che il citato articolo 79, comma 1, sanziona di nullita’ un’ampia gamma di pattuizioni, comprensiva di quelle volte a limitare la durata legale del contratto; ad attribuire al locatore un canone maggiore rispetto al canone di legge ovvero anche altro vantaggio in contrasto con le disposizioni della legge sull’equo canone; mentre al comma 2 (secondo cui “Il conduttore, con azione proponibile fino a sei mesi dopo la riconsegna dell’immobile locato, puo’ ripetere le somme sotto qualsiasi forma corrisposte in violazione dei divieti e dei limiti previsti dalla presente legge”) e’ dettata una specifica disciplina circa i modi ed i tempi per far valere la nullita’, con riferimento alle sole pattuizioni dalle quali consegua la corresponsione di somme di denaro, tra le quali sono ovviamente comprese le pattuizioni aventi ad oggetto la determinazione del canone in difformita’ da quanto previsto dalla legge. Se ne trae quale necessario corollario, che il diritto a non erogare somme in misura eccedente il canone legalmente dovuto sorge al momento della conclusione del contratto; persiste durante tutto il corso del rapporto; puo’ essere fatto valere, in virtu’ di espressa disposizione legislativa, dopo la riconsegna dell’immobile locato, entro il termine di decadenza di sei mesi (v. Cass., 27 luglio 2001, n. 10286). Se il diritto in esame puo’ essere fatto valere dopo la riconsegna dell’immobile, non e’ sostenibile – si e’ osservato, con argomento che va qui ribadito – che di esso possa disporre il conduttore in corso di rapporto, accettando aumenti non dovuti.

La validita’ di una rinunzia espressa o tacita del medesimo ad avvalersi del diritto a non subire aumenti non dovuti, eventualmente intervenuta in corso di rapporto, appare, infatti, inconciliabile, con la facolta’ attribuita al conduttore di ripetere “le somme sotto qualsiasi forma corrisposte in violazione dei divieti e dei limiti previsti dalla presente legge” entro sei mesi dalla riconsegna dell’immobile. E’ pertanto la riconsegna dell’immobile (con conseguente cessazione del rapporto di fatto tra il conduttore e la cosa locata) ad individuare, per espressa scelta del legislatore, il momento dal quale il diritto alla ripetizione di quanto indebitamente pagato puo’ essere fatto valere dal conduttore “liberamente”, e cioe’ senza la “remora” che il locatore possa agire in ritorsione nei suoi confronti (v. Cass. n. 10286/2001 cit.).

2.2.3. Se, dunque, puo’ convenirsi con la Corte territoriale laddove ha ritenuto indifferente il momento della stipulazione della clausola comportante un aumento del canone, cio’ va affermato in un’ottica diametralmente opposta a quella seguita dal giudice di appello; nel senso, cioe’, che e’ da escludere che il conduttore possa, neanche nel corso del rapporto, e non soltanto in sede di conclusione del contratto, rinunziare al proprio diritto di non corrispondere aumenti non dovuti.

Soprattutto gli argomenti su cui fa leva la Corte territoriale essenzialmente riconducibili alla valorizzazione dell’autonomia contrattuale nella determinazione del canone e, quindi, anche della sua modificazione nel corso del rapporto – finiscono per collidere con l’interpretazione assunta dalla consolidata giurisprudenza di questa Corte del comb. disp. della L. n. 392 del 1978, articoli 32 e 79; in particolare detti argomenti – proprio perche’ affidati al rilievo dell’esistenza, tanto nel contratto originario, quanto nella scrittura modificativa (peraltro vicinissimi di data) di una (diversa) “scaletta” del canone, giustificata, nell’una come nell’altra scrittura, dal dichiarato “solo fine di agevolare la crisi economica attuale” – obliterano un dato fondamentale e, cioe’, che, per escludere l’intento elusivo del divieto di veri e propri aumenti del canone, occorre che vi siano elementi obiettivi e predeterminati da cui emerga che la previsione di un canone crescente nell’arco del rapporto sia finalizzato a mantenere integra l’originario sinallagma ovvero che diano contezza di una iniziale riduzione del canone.

  1. In definitiva il primo motivo va rigettato; va invece accolto il secondo motivo, risultando assorbiti gli altri motivi; cio’ comporta la cassazione della sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e il rinvio alla Corte di appello di Catania in diversa composizione, che dovra’ dare applicazione dei seguenti principi:

in tema di locazione di immobili adibiti ad uso diverso da quello abitativo, ogni pattuizione avente ad oggetto non gia’ o’ l’aggiornamento del corrispettivo ai sensi della L. 27 luglio 1978, n. 392, articolo 32, ma veri e propri aumenti del canone, deve ritenersi nulla ex articolo 79, comma 1, della stessa legge, in quanto diretta ad attribuire al locatore un canone piu’ elevato rispetto a quello legislativamente previsto, senza che il conduttore possa, neanche nel corso del rapporto, e non soltanto in sede di conclusione del contratto, rinunciare al proprio diritto di non corrispondere aumenti non dovuti;

la clausola che preveda la determinazione del canone in Misura differenziata e crescente per frazioni successive di tempo nell’arco del rapporto e’ valida a condizione che si tratti, non gia’ di un vero e proprio “aumento”, bensi’ di un “adeguamento” del canone al mutato valore locativo dell’immobile volto a ripristinare il sinallagma originario, evitando uno squilibrio a vantaggio del conduttore altrimenti determinato dal canone fisso ovvero di una limitata e iniziale “riduzione” del canone convenuto, sempre che nell’uno, come nell’altro caso, tanto emerga da elementi obiettivi e predeterminati cui sia affidata “la scaletta” del canone.

Il giudice del rinvio provvedera’ anche alla regolazione delle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte rigetta il primo motivo di ricorso; accoglie il secondo, assorbiti gli altri; cassa la sentenza impugnata in relazione e rinvia anche per le spese del giudizio di cassazione alla Corte di appello di Catania in diversa composizione.

Omesso versamento di ritenute previdenziali.La Cassazione conferma che la nuova soglia di punibilità non abroga il reato.

(Cassazione Penale, sez. III, n. 649/17; depositata il 9 gennaio)

“Deve ritenersi che il legislatore non abbia affatto inteso abrogare il reato di cui all’art. 2, comma 1 bis, legge n. 638 del 1983 ma, lasciandone immutata la condotta omissiva, abbia inteso introdurre la necessità del superamento di un importo di per sé significativo, anche in ragione della mutata realtà socio – economica, caratterizzata da maggiori difficoltà di liquidità e del contemperamento con le esigenze connesse al sistema previdenziale – pensionistico, dell’indice di necessaria offensività della condotta.”

 La sentenza riguarda il reato di omesso versamento di ritenute previdenziali  che il Legislatore, con il D. Lgs. n. 8 del 2016, ha riformato introducendo una soglia di punibilità..

Allo stato, l’omesso versamento di ritenute previdenziali integra il reato ove l’importo non versato sia superiore a Euro 10.000 annui. La riforma, dunque, non solo ha introdotto una soglia di punibilità, ma ha ricollegato tale superamento al periodo temporale dell’anno.

La diversa struttura del reato determina un diverso momento consumativo che incide sul calcolo del termine di prescrizione: mentre nel precedente assetto normativo il reato si consumava in corrispondenza di ogni omesso versamento mensile, nell’attuale struttura la consumazione appare coincidere, alternativamente, o con il superamento, a partire dal mese di gennaio, dell’importo di Euro 10.000, ove allo stesso non faccia più seguito alcuna ulteriore omissione, o con l’ulteriore o le ulteriori omissioni successive sempre riferite al medesimo anno ovvero, definitivamente e comunque, laddove anche il versamento del mese di dicembre sia omesso, con la data del 16 gennaio dell’anno successivo.

Ciononostante, con la sentenza in epigrafe la Suprema Corte di Cassazione ha chiarito che le modifiche  introdotte con il D. Lgs. n. 8 del 2016 non hanno determinato l’introduzione di una fattispecie di reato totalmente nuova e diversa rispetto a quella di cui al precedente assetto normativo.

La Corte giunge a tale conclusione osservando che la nuova formulazione mantiene inalterato il nucleo caratterizzante il reato, ovvero la condotta omissiva del mancato versamento di ritenute previdenziali.

Inoltre, i Giudici di legittimità osservano che a tale esito deve giungersi in ragione del mantenimento della stessa sanzione già originariamente prevista.

Dott. Matteo Gambarati (Studio Legale Orlandi)

 

Testo della sentenza

Cassazione penale sez. III 20/10/2016 n. 649

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

  SEZIONE TERZA PENALE

  Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:              Dott. DI NICOLA Vito           –  Presidente   –                    Dott. ROCCHI   Giacomo    –  rel. Consigliere  –                    Dott. LIBERATI Giovanni        –  Consigliere  –                    Dott. GAI       Emanuela        –  Consigliere  –                    Dott. SCARCELLA Alessio         –  Consigliere  –                    ha pronunciato la seguente:                                                                      SENTENZA

sul ricorso proposto da:

             M.F. nato il (OMISSIS); avverso la sentenza del 26/02/2016 della CORTE APPELLO di PALERMO; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita in PUBBLICA UDIENZA del 20/10/2016, la relazione svolta dal Consigliere GIACOMO ROCCHI; Udito il Procuratore Genera e in persona del PASQUALE FIMIANI, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.

Fatto RITENUTO IN FATTO

  1. Con la sentenza indicata in epigrafe, la Corte di appello di Palermo, in riforma di quella del Tribunale di Trapani emessa nei confronti di M.F. ed appellata dal Procuratore della Repubblica di Trapani, dichiarava non doversi procedere nei confronti dell’imputato per l’omesso versamento delle ritenute previdenziali operate nei mesi di gennaio e febbraio 2007 perchè reato estinto per prescrizione; assolveva l’imputato dallo stesso reato per l’omesso versamento relativo agli anni 2006 e 2008 perchè il fatto non è più previsto dalla legge come reato, disponendo la trasmissione degli atti all’I.N.P.S.; dichiarava l’imputato colpevole del reato di omesso versamento delle ritenute previdenziali operate nel periodo da marzo a dicembre 2007 e lo condannava alla pena di mesi due di reclusione ed Euro 200,00 di multa.

La Corte osservava che il totale delle ritenute mensilmente non versate nel 2007 superava la somma di 10.000 Euro, cosicchè la condotta non poteva ritenersi depenalizzata; negava il decorso della prescrizione per il periodo marzo – dicembre 2007, ricordando che il reato si consuma il giorno 16 del mese successivo a quello della ritenuta, che il termine di prescrizione è sospeso durante i tre mesi successivi alla diffida e che, sia nel corso del giudizio di primo grado che in quello di appello, il termine era stato ulteriormente sospeso.

La Corte ricordava che la diffida INPS era stata notificata in carcere all’imputato unitamente all’avviso di conclusione delle indagini preliminari.

Venivano negate all’imputato le attenuanti generiche; la pena base veniva fissata, per il mese di giugno 2007, in mesi uno e giorni sei di reclusione ed Euro 120,00 di multa, con aumento di giorni sei di reclusione ed Euro 20 di multa per ciascuno dei reati relativi agli altri mesi in contestazione.

  1. Ricorre per cassazione il difensore di M.F., deducendo violazione dell’art. 157 c.p., e del D.L. n. 463 del 1983, art. 2, comma 1 bis.

La Corte territoriale avrebbe dovuto dichiarare prescritti anche gli omessi versamenti relativi ai mesi di marzo, aprile e maggio 2007 e, quindi, assolvere l’imputato per quelli dei mesi successivi, tenuto conto che il totale delle ritenute evase dal giugno al dicembre 2007 non superava la somma di 10.000 Euro.

Il ricorrente contesta che la prescrizione rimanga sospesa durante i tre mesi successivi alla diffida ed osserva che, con riferimento all’omesso versamento relativo al mese di marzo 2007, il decreto di citazione era stato emesso dopo il decorso del termine ordinario di prescrizione.

In un secondo motivo, il ricorrente deduce violazione di legge e vizio di motivazione.

La diffida da parte dell’I.N.P.S. non era stata notificata regolarmente all’imputato che, pertanto, non ne era venuto a conoscenza; la Corte aveva ritenuto superato il dato in conseguenza della notifica dell’avviso di cui all’art. 415 bis c.p.p.: ma non si trattava di atto equipollente.

Di conseguenza non era preclusa la facoltà di ricorrere alla causa di non punibilità prevista dall’art. 2, comma 1 bis cit..

In un terzo motivo il ricorrente deduce violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento alla mancata concessione delle attenuanti generiche e alla quantificazione della pena.

Diritto CONSIDERATO IN DIRITTO

  1. Il ricorso è infondato.

In primo luogo deve affermarsi che, a seguito della riforma della norma incriminatrice operata dal D.Lgs. n. 8 del 2016, la soglia di punibilità di riferimento è stabilita in Euro 10.000 Euro annui; ciò comporta che, anche se i reati relativi ad alcuni mesi sono estinti per prescrizione, per valutare la punibilità della condotta, occorre ugualmente avere riguardo alla somma delle ritenute non versate nel corso dell’intero anno (Sez. 3, n. 14729 del 09/02/2016 – dep. 11/04/2016, Ratti, Rv. 26663301).

In realtà, la riforma operata ha inciso in maniera rilevante sulla struttura del reato e, quindi, anche sulla data della consumazione e della conseguente decorrenza della prescrizione.

Stabilendo che l’omesso versamento delle ritenute previdenziali integra reato ove l’importo sia superiore a quello di 10.000 Euro annui, il legislatore non si è limitato semplicemente ad introdurre un limite di “non punibilità” delle condotte lasciando inalterato, per il resto, l’assetto della precedente figura normativa (che, come noto, nessun limite prevedeva), ma ha configurato tale superamento, strettamente collegato al periodo temporale dell’anno, quale vero e proprio elemento caratterizzante il disvalore di offensività che viene a segnare, tra l’altro, il momento consumativo dello stesso; in altri termini, il reato deve ritenersi già perfezionato, in prima battuta, nel momento e nel mese in cui l’importo non versato, calcolato a decorrere dalla mensilità di gennaio dell’anno considerato, superi l’importo di 10.000 Euro senza che, peraltro, attesa, come si è detto, la necessaria connessione con il periodo temporale dell’anno, le ulteriori omissioni che seguano nei mesi successivi dello stesso anno sino al mese finale di dicembre possano “aprire” un nuovo periodo e, dunque, dare luogo, in caso di secondo superamento, ad un ulteriore reato. Tali omissioni, infatti, contribuiscono ad accentuare la lesione inferta al bene giuridico per effetto del già verificatosi superamento dell’importo di legge sicchè, da un lato, non possono semplicemente atteggiarsi quale post factum penalmente irrilevante e, dall’altro, approfondendo il disvalore già emerso, non possono segnare, in corrispondenza di ogni ulteriore mensilità non versata, un ulteriore autonomo momento di disvalore (che sarebbe infatti assorbito da quello già in essere).

Ricorre, in realtà dunque, a ben vedere, alla stessa stregua di altre figure criminose (come, ad esempio, le fattispecie di corruzione o di usura: cfr. rispettivamente, per la prima, Sez. 6, n. 49226 del 25/09/2014, Chisso, Rv.261352; per la seconda, da ultimo, Sez. 2, n. 40380 del 11/06/2015, P.G., Tiesi in proc. Cardamone, Rv.264887), una fattispecie caratterizzata dalla progressione criminosa nel cui ambito, una volta superato il limite di legge, le ulteriori omissioni nel corso del medesimo anno si atteggiano a momenti esecutivi di un reato unitario a consumazione prolungata la cui definitiva cessazione viene a coincidere con la scadenza prevista dalla legge per il versamento dell’ultima mensilità, ovvero, come noto, con il termine del 16 del mese di gennaio dell’anno successivo.

Quanto sopra comporta dunque che, rispetto alla precedente figura di reato, il momento consumativo sia evidentemente diverso: mentre nel precedente assetto normativo il reato si consumava in corrispondenza di ogni omesso versamento mensile (cfr., da ultimo, Sez. 3, n. 26732 del 05/03/2015, P.G. in proc. Bongiorno, Rv. 264031), nell’attuale e nuovo la consumazione appare coincidere, secondo una triplice diversa alternativa, o con il superamento, a partire dal mese di gennaio, dell’importo di Euro 10.000 ove allo stesso non faccia più seguito alcuna ulteriore omissione, o con l’ulteriore o le ulteriori omissioni successive sempre riferite al medesimo anno ovvero, definitivamente e comunque, laddove anche il versamento del mese di dicembre sia omesso, con la data del 16 gennaio dell’anno successivo.

La struttura del “nuovo” reato come tratteggiata sopra, impone inoltre di tenere conto, al fine dell’individuazione o meno del superamento del limite di legge di 10.000 Euro, di tutte le omissioni verificatesi nel medesimo anno e, dunque, nella specie, anche di quelle eventualmente estinte per prescrizione: del resto, la mera declaratoria di estinzione del reato per ragioni connesse al decorso del tempo non può significare elisione della materiale sussistenza del fatto di omesso versamento.

La diversa strutturazione del reato comporta dunque che, con riferimento ai fatti pregressi, laddove l’omissione annuale non abbia superato l’importo di 10.000 Euro, debba applicarsi, in quanto norma sicuramente più favorevole, la nuova previsione normativa alla stregua dell’art. 2 c.p., comma 4, mentre, laddove l’importo sia stato superato, previgente norma e nuova norma debbano essere poste a confronto tra loro onde verificare quale delle due sia concretamente più favorevole con riferimento, in particolare, al momento consumativo determinante al fine di individuare la decorrenza del termine di prescrizione (tenuto conto peraltro, in entrambe le fattispecie, del periodo di sospensione di mesi tre di cui al D.L. n. 463 del 1983, art. 2, comma 1 quater, non inciso infatti dalle modifiche di cui sopra).

Nè le modifiche poste in essere dal D.Lgs. n. 8 del 2016, sono state di tale segno da avere comportato l’introduzione di una fattispecie di reato totalmente nuova e diversa rispetto a quella di cui al precedente assetto ed incompatibile rispetto a quest’ultima, con conseguente implicita abrogazione della stessa ex art. 15 preleggi, sì che dovrebbe, nella specie, farsi applicazione non già dell’art. 2 c.p., comma 4, bensì dell’art. 2 c.p., comma 2. In senso chiaramente ostativo rispetto a tale conclusione deve infatti essere evidenziato il mantenimento, in entrambe le figure, del medesimo nucleo caratterizzante il reato, ovvero la condotta omissiva del mancato versamento, rimasta chiaramente inalterata, senza che il mutamento del momento consumativo, inevitabilmente discendente, per quanto già spiegato, dalla diversa strutturazione quantitativo – temporale, possa condurre ad esiti diversi.

Nè può sottovalutarsi, nel senso concorrente alla conclusione qui esposta, il mantenimento della medesima sanzione già originariamente prevista.

In definitiva, per concludere sul punto, deve ritenersi che il legislatore non abbia affatto inteso abrogare il reato di cui alla L. n. 638 del 1983, art. 2, comma 1 bis, ma, lasciandone immutata la condotta omissiva, abbia inteso introdurre la necessità del superamento di un importo di per sè significativo, anche in ragione della mutata realtà socio – economica, caratterizzata da maggiori difficoltà di liquidità e del contemperamento con le esigenze connesse al sistema previdenziale – pensionistico, dell’indice di necessaria offensività della condotta.

  1. Nel caso in esame, l’importo delle ritenute non versate nell’anno 2007 è in ogni caso superiore a 10.000 Euro, dovendosi prescindere dalla declaratoria di prescrizione effettuata per i primi mesi dell’anno.

Sempre rimanendo al tema della prescrizione, il ricorrente sostiene che il termine di prescrizione non è sospeso nei tre mesi successivi alla diffida da parte dell’I.N.P.S.: ma tale sospensione è espressamente prevista dal D.L. n. 463 del 1983, art. 2, comma 1 quater, fin dalla riforma operata nel 1994; il testo è rimasto identico anche a seguito della ulteriore riforma operata dal D.Lgs. n. 8 del 2016.

Di conseguenza, il termine di prescrizione non era decorso nemmeno per il mese di marzo 2007 e con riferimento a tutte le mensilità per le quali la Corte territoriale ha confermato la condanna.

E’ errata anche la deduzione in ordine alla tardività della notifica del decreto di citazione a giudizio rispetto al decorso del termine di prescrizione ordinario di sei anni quanto all’omesso versamento relativo al mese di marzo 2007: in effetti, alla luce della diversa struttura del reato all’epoca vigente, il reato si era consumato il 16/4/2007, cosicchè il deposito del decreto di citazione a giudizio, avvenuto il 4/4/2013, era tempestivo (per di più dovendosi tenere conto anche dei tre mesi di sospensione successivi alla diffida di cui si è già trattato).

  1. Anche il secondo motivo di ricorso è infondato: infatti, la diffida dell’I.N.P.S. era stata notificata unitamente all’avviso di conclusione delle indagini preliminari a cura del P.M..

Non si tratta affatto, come sembra ritenere il ricorrente, di valutare se l’avviso ex art. 415 bis c.p.p., fosse atto equipollente alla diffida, perchè, appunto, il P.M., avvedutosi che la raccomandata dell’Istituto previdenziale non era andata a buon fine, aveva provveduto a notificarla fisicamente all’imputato detenuto.

Anche il terzo motivo di ricorso è infondato: la motivazione della sentenza è ampia e logica nel giustificare il diniego delle attenuanti generiche e la quantificazione della pena.

PQM P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, il 20 ottobre 2016.

Depositato in Cancelleria il 9 gennaio 2017

 

 

Fondo patrimoniale. Il debito tributario sorto per l’esercizio dell’attività imprenditoriale può gravare sul fondo patrimoniale solo se contratto per soddisfare i bisogni della famiglia.

Cassazione Civ. n. 3600 del 24.02.16

La norma: Art.170 c.c.: l’esecuzione sui beni del fondo e sui frutti di essi non può avere luogo per debiti che il creditore conosceva essere stati contratti per scopi estranei ai bisogni della famiglia.

Con la sentenza che si annota la Corte di Cassazione non ha  escluso la possibilità di procedere a esecuzione forzata  per i debiti che il creditore non conosceva essere stati contratti per gli stessi scopi.

Infatti, in tema di fondo patrimoniale, il criterio identificativo dei debiti per i quali può avere luogo l’esecuzione sui beni del fondo va ricercato non già nella natura dell’obbligazione, contrattuale o extracontrattuale, ma nella relazione tra il fatto generatore di essa e i bisogni della famiglia, sicché anche un debito di natura tributaria sorto per l’esercizio dell’attività imprenditoriale potrebbe ritenersi contratto per soddisfare tale finalità.

In sostanza per la Cassazione, i beni vincolati al fondo patrimoniale ben possono essere soggetti all’azione esattoriale per un credito del fisco. Dunque anche un debito tributario sorto per l’esercizio dell’impresa può ritenersi contratto per soddisfare i bisogni della famiglia.

L’onere di fornire la prova – possibile anche mediante presunzioni semplici o ricorrendo a criteri logici e di comune esperienza – che il debito per cui l’ente di riscossione intende procedere è stato contratto per scopi estranei ai bisogni della famiglia e che il creditore ne era consapevole, grava sul debitore, ovvero sulla parte che intende avvalersi del regime di impignorabilità dei beni costituiti in fondo patrimoniale.

Il caso di specie

L’ente di riscossione iscriveva ipoteca legale sull’immobile di Tizio per un debito che lo stesso aveva contratto nel corso della sua attività d’impresa. Tizio, avendo conferito tale immobile in fondo patrimoniale, proponeva opposizione all’esecuzione deducendo l’impignorabilità del bene. Il Giudice accoglieva l’opposizione di Tizio perché, in considerazione delle prove fornite, della sua attività lavorativa e dell’elevato importo del debito maturato, ha ritenuto provata la estraneità dei debiti ai bisogni familiari e la consapevolezza del creditore.

La Corte di cassazione, trattandosi di valutazione che atteneva al merito della controversia, ha affermato di non poter interferire sul pronunciamento del primo giudice.

Occorre osservare, tuttavia, che in precedenti pronunce la Cassazione aveva affermato che, anche un debito di natura tributaria, sorto per l’esercizio dell’attività imprenditoriale, può ritenersi contratto per soddisfare i bisogni della famiglia, fermo restando che l’obbligazione sia effettivamente sorta per il soddisfacimento di tali esigenze, non potendosi dirsi sussistente il collegamento per il solo fatto che il debito derivi dall’attività professionale o d’impresa del coniuge (cfr. Cassazione civile sez. VI  24 febbraio 2015 n. 3738).

(Dr.ssa Eleonora Panini) 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BIELLI   Stefano                            –  Presidente   –

Dott. CIRILLO Ettore                             –  Consigliere  –

Dott. OLIVIERI Stefano                          –  Consigliere  –

Dott. TRICOMI Laura                         –  rel. Consigliere  –

Dott. VELLA   Paola                              –  Consigliere  –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 16715/2009 proposto da:

EQUITALIA POLIS SPA in persona del Direttore Operativo pro  tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA VIA EUDO GIULIOLI 47/B/18,  presso

lo studio dell’avvocato GIUSEPPE MAZZITELLI, rappresentato e  difeso

dall’avvocato BARBARO CIRO GENNARO, giusta delega a margine;

– ricorrente –

contro

I.A., elettivamente domiciliato in ROMA VIA ALESSANDRO

MANZONI 81, presso lo studio dell’avvocato DONATO SENA, rappresentato

e difeso dall’avvocato ORLANDELLA LIBERO, giusta delega in calce;

– controricorrente –

avverso la  sentenza n. 346/2008 del TRIBUNALE  di  SANT’ANGELO  DEI

LOMBARDI, depositata l’08/07/2008;

udita la  relazione  della causa svolta nella pubblica  udienza  del

24/03/2015 dal Consigliere Dott. LAURA TRICOMI;

udito per  il  controricorrente l’Avvocato RANIERI  delega  Avvocato

ORLANDELLA che ha chiesto il rigetto;

udito il  P.M.  in persona del Sostituto Procuratore Generale  Dott.

BASILE Tommaso, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso e

in subordine rigetto.

Fatto

RITENUTO IN FATTO

  1. I.A. a seguito della comunicazione dell’avviso di iscrizione di ipoteca legale sul bene di sua proprietà iscritto nel N.C.T. del Comune di Bisaccia, fol. 47, p.lla 218, proponeva opposizione all’esecuzione con ricorso depositato il 03.07.2006 dinanzi al Tribunale ordinario di Sant’Angelo dei Lombardi deducendo l’impignorabilità del bene esecutato ai sensi dell’art. 170 c.c., in quanto costituito in fondo patrimoniale, e chiedendo dichiararsi nullo l’atto di pignoramento.

L’opposta G.E.I. SPA si costituiva chiedendo il rigetto dell’avversa domanda per non aver operato alcun atto di pignoramento, sostenendo altresì la inoperatività dell’art. 170 c.c., per i crediti tributari.

  1. Con la sentenza n. 346/2008 del 03.07.08, depositata il 08.07.08 e non notificata, il G.M. del Tribunale di Sant’Angelo dei Lombardi preliminarmente qualificava l’opposizione avverso l’iscrizione ipotecaria operata dal Concessionario alla riscossione quale “opposizione alla esecuzione” ex art. 615 c.p.c., comma 2, e D.P.R. n. 602 del 1973, art. 57, lett. a; quindi riteneva la propria competenza quale giudice dell’esecuzione, trattandosi di opposizione proposta anteriormente alle modifiche apportate dalla L. n. 248 del 2006. Ne affermava quindi l’ammissibilità perchè spiegata nei limiti del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 57, lett. a), trattandosi di questione attinente alla pignorabilità del bene esecutato.

Di seguito affermava che l’esecutato poteva opporsi alla procedura esecutiva esattoriale anche prima della notifica dell’atto di pignoramento, che nel caso non era ancora avvenuta, e sulla scorta di tale considerazione qualificava diversamente la domanda.

Concludeva il G.O. affermando che il bene era stato sottoposto illegittimamente ad una procedura esecutiva in violazione dell’art. 170 c.c., non risultando il credito riconducibile ai bisogni familiari, e che in questi termini la domanda doveva essere accolta:

dichiarava pertanto l’illegittimità della iscrizione ipotecaria eseguita in data 07.03.06 ai danni di I.A. su istanza della GEI SPA di Avellino al n. di rep. 215/2006 e ne ordinava la cancellazione.

  1. Avverso tale decisione propone ricorso per cassazione Equitalia Polis SPA (di seguito Equitalia) affidato a quattro motivi. Il contribuente resiste con controricorso e deposita memorie ex art. 378 c.p.c..

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

1.1. Preliminarmente va respinta la eccezione di improponiblità, inammissibilità ed improcedibilità della domanda sollevata dall’intimato nel controricorso, assumendo che la ricorrente avrebbe illegittimamente adito la Suprema Corte per saltum, senza interporre appello.

1.2. Al riguardo la Corte ha già avuto modo di chiarire che le sentenze che abbiano deciso opposizioni all’esecuzione, pubblicate successivamente al 1 marzo 2006 e fino al 4 luglio 2009, non sono appellabili, in forza dell’art. 616 c.p.c., ultimo periodo, come modificato dalla L. 24 febbraio 2006, n. 52, art. 14, (“ratione temporis” applicabile), ma solo ricorribili per cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost., comma 7, qualunque sia il contenuto della decisione o il motivo d’impugnazione (cfr. Cass. n. 19160/2014, n.18261/2014): questa è la disciplina applicabile alla sentenza di primo grado in esame, depositata l’08.07.2008 e l’eccezione va respinta.

2.1. Con il primo motivo l’Equitalia lamenta la violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Sostiene che il G.O. non aveva qualificato diversamente la domanda, ma impropriamente aveva modificato il petitum e formula il seguente quesito “Dica la Suprema Corte di cassazione se nell’ipotesi in cui venga spiegata domanda giudiziale volta alla declaratoria di nullità di un pignoramento, il Giudice di merito, assumendo di qualificare diversamente la domanda, possa dichiarare la nullità dell’iscrizione ipotecaria, ovvero, se trattandosi di modifica del petitum, in applicazione dell’art. 112 c.p.c., non possa pronunciarsi su una domanda diversa da quella introdotta dal ricorrente”.

2.1. Il motivo è infondato e va respinto.

2.2. Innanzi tutto va ricordato che, come questa Corte ha già affermato, qualora sia controversa la qualificazione dell’azione in sede di procedimento esecutivo, assume rilievo decisivo quella data, in modo implicito od esplicito, dal giudice del merito al rapporto controverso, con la conseguenza che è esperibile l’impugnazione conseguente a tale qualificazione, indipendentemente dalla esattezza dell’inquadramento effettuato (Cass. n. 21683/2009, n. 8103/2007). Ne consegue che legittimamente il giudice dell’esecuzione esercita il potere di qualificazione dell’azione, in presenza di una prospettazione della parte che presenti aspetti di contraddittorietà o di incertezza tra il contenuto della domanda e l’azione esercitata.

2.3. Ciò premesso, va altresì considerato che, a tali fini, occorre tenere presente che l’opposizione all’esecuzione investe il diritto della parte istante di agire in executivis, mentre l’opposizione agli atti esecutivi consiste nella contestazione della regolarità formale dei singoli atti del procedimento esecutivo (cfr. Cass. n. 21683/2009). Poichè nella specie, come risulta dalla sentenza impugnata senza che sul punto sia stata sollevata censura, l’opposizione è stata proposta deducendo la impignorabilità dei beni costituiti in fondo patrimoniale, quale unica ragione impeditiva della iscrizione ipotecaria, correttamente il giudice dell’esecuzione ha qualificato l’opposizione come “opposizione all’esecuzione” ( cfr.

Cass. sent. n. 11534/2014, n. 23891/2012) e la ha ritenuta ammissibile ai sensi del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 57, lett. a), senza che sia ravvisabile alcuna modifica del petitum, contrariamente a quanto sostenuto, in modo peraltro assertivo, dalla ricorrente che ha valorizzato con la sua censura l’utilizzo improprio del termine “atto di pignoramento” della parte privata, trascurando di considerare il contenuto dell’opposizione sul quale, correttamente, il giudice di primo grado ha fondato la riqualificazione dell’azione.

3.1. Con il secondo motivo la ricorrente lamenta la violazione dell’art. 170 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, sostenendo che tale disposizione normativa introduce una limitazione al diritto del creditore di procedere in via esecutiva, ma non ha ricadute in tema di iscrizione ipotecaria. Formula a corredo il seguente quesito “Dica la Suprema Corte di cassazione se nella ipotesi di beni costituiti in fondo patrimoniale sia preclusa al creditore, in applicazione dell’art. 170 c.c., la possibilità di procedere ad iscrizione ipotecaria, ovvero, se l’art. 170 c.c., precluda, in presenza di determinati presupposti, al creditore solo l’espropriazione e non anche la facoltà di iscrivere ipoteca.”.

3.2. Il motivo è inammissibile.

Va rilevato che lo stringato motivo e la formulazione del quesito, astratto, generico e indeterminato nel suo contenuto, impongono la declaratoria di inammissibilità.

3.3. Pur ricordando che questa Corte ha avuto modo di chiarire che “L’art. 170 c.c., nel disciplinare le condizioni di ammissibilità dell’esecuzione sui beni costituiti nel fondo patrimoniale, detta una regola applicabile anche all’iscrizione di ipoteca non volontaria, ivi compresa quella di cui al D.P.R. 3 marzo 1973, n. 602, art. 77” (Cass. n. 5385/2013; cfr anche n. 3738/2015, n. 13622/2010), va tuttavia osservato che la ricorrente nel formulare il quesito richiama, quale elemento – a suo parere – condizionante la risposta, la “presenza di determinati presupposti” che tuttavia rimangono vaghi e privi di individuazione con riferimento alla fattispecie in esame, di guisa che alla indeterminatezza del quesito consegue l’inammissibilità.

4.1. Con il terzo motivo la ricorrente lamenta la violazione dell’art. 170 c.c. (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) in quanto sostiene che la disciplina, che preclude al creditore l’aggressione dei beni destinati al fondo patrimoniale, troverebbe applicazione solo per le obbligazioni di natura contrattuale. Formula il seguente quesito “Dica la Suprema Corte di cassazione se nella ipotesi di credito di natura tributaria possa trovare applicazione l’art. 170 c.c., che richiede la prova della consapevolezza del creditore in ordine alla contrazione del debito per scopi estranei ai bisogni familiari, ovvero, se l’art. 170 c.c., non sia applicabile nei casi in cui l’obbligazione abbia natura extracontrattuale”.

4.2. Il motivo è infondato e va respinto.

4.3. E’ opportuno ricordare il dettato dell’art. 170 c.c., che così recita “L’esecuzione sui beni del fondo e sui frutti di essi non può aver luogo per i debiti che il creditore conosceva essere stati contratti per scopi estranei ai bisogni della famiglia”.

La norma si occupa della possibilità dell’esecuzione, e nei termini prima ricordati sub 3.3. anche dell’iscrizione di ipoteca, su beni e sui frutti del fondo e sotto tale profilo evoca chiaramente l’iniziativa di un terzo estraneo al fondo. Essa esclude non in modo assoluto l’esecuzione, ma solo nel caso in cui la situazione per cui si procede sia insorta “per scopi estranei ai bisogni della famiglia” e conosciuta dal creditore come tale.

4.4. Come questa Corte ha di recente chiarito l’evocazione nella sostanza 11 di tre distinte situazioni, quella dei “debiti che il creditore conosceva essere stati contratti per scopi estranei ai bisogni della famiglia” e, a contrario, quella dei “debiti che il creditore non conosceva essere stati contratti per scopi estranei ai bisogni della famiglia”, nonchè quella dei “debiti contratti per scopi non estranei ai bisogni della famiglia” e, quindi, assunti per soddisfare tali bisogni evidentemente dal soggetto che ha costituito il fondo conferendovi un bene e che normalmente dovrebbe rispondere, secondo la regola generale dell’art. 2740 c.c., con il suo patrimonio e, quindi, anche con esso, evidenzia che in realtà il legislatore ha voluto dettare una regola che non riguarda tanto l’inizio dell’esecuzione, bensì la forza stessa del titolo che potrebbe astrattamente svolgere la funzione di titolo per l’esecuzione sul bene facente parte del fondo patrimoniale, perchè, evidentemente, formatosi contro il coniuge o contro il terzo che costituì il fondo (Cass. n. 5385/2013).

4.5. Sulla scorta di tali considerazioni va quindi ribadito che, in tema di fondo patrimoniale, il criterio identificativo dei debiti per i quali può avere luogo l’esecuzione sui beni del fondo va ricercato non già nella natura dell’obbligazione, contrattuale o extracontrattuale, ma nella relazione tra il fatto generatore di essa e i bisogni della famiglia, sicchè anche un debito di natura tributaria sorto per l’esercizio dell’attività imprenditoriale potrebbe ritenersi contratto per soddisfare tale finalità (cfr.

Cass. n. 11230/2003, n. 12998/2006, n. 3738/2015).

Il motivo va pertanto respinto.

5.1. Con il quarto motivo la ricorrente lamenta ancora la violazione dell’art. 170 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, e sostiene che il giudice di primo grado aveva superato la questione della conoscibilità della contrazione del debito per scopi estranei alle esigenze familiari, escludendo ogni relazione tra l’obbligazione tributaria ed i bisogni familiari, pur in assenza di prova, assumendo che il creditore avrebbe dovuto trarre consapevolezza della estraneità del debito alle esigenze familiari dalla natura tributaria dell’obbligazione riconducibile alla attività lavorativa autonoma del debitore.

Formula il seguente quesito “Dica la Suprema Corte di cassazione se nella ipotesi in cui l’obbligazione abbia natura tributaria e sia inerente all’attività lavorativa autonoma del debitore, debbano presumersi sussistenti i requisiti, richiesti, dall’art. 170 c.c., della estraneità dell’obbligazione ai bisogni familiari e della consapevolezza da parte del creditore di tale estraneità, ovvero, se in applicazione dell’art. 170 c.c., debba essere fornita la prova positiva della rottura della relazione che intercorre fra la produzione di reddito da parte del capofamiglia e la sua destinazione al sostentamento e allo sviluppo della famiglia nonchè della consapevolezza del creditore”.

5.2. Il motivo è inammissibile in quanto non coglie la ratio decidendi della sentenza impugnata e non risulta pertinente al decisum.

Il giudice di primo grado, contrariamente a quanto assume la ricorrente, non ha deciso in assenza di prova ed anzi si è attenuto al principio (cfr. Cass. n. 5385/2013) secondo il quale l’onere della prova dei presupposti di applicabilità dell’art. 170 c.c., grava sulla parte che intende avvalersi del regime di impignorabilità dei beni costituiti in fondo patrimoniale, e quindi, nel caso, sul debitore opponente, che deve provare che il debito per cui si procede venne contratto per scopi estranei ai bisogni della famiglia e che il creditore ne era consapevole, ed ha precisato che la, prova può consistere anche in “presunzioni semplici o nel ricorso a criteri logici e di comune esperienza” (fol. 4 della sent.).

Il giudice di merito ha quindi sviluppato il suo ragionamento giuridico su più elementi, puntualmente indicati, e cioè la fonte dell’obbligazione, costituita dall’attività lavorativa del contribuente, e l’elevato importo del debito tributario, ed ha ritenuto provata la estraneità dei debiti ai bisogni familiari e la consapevolezza del creditore. Sul punto, giova ricordare peraltro che questa Corte ha già affermato che la prova di applicabilità dell’art. 170 c.c., alla stregua dei principi generali, ben può essere fornita anche avvalendosi di presunzioni ai sensi dell’art. 2729 c.c., gravando comunque sull’opponente l’onere di allegare e dimostrare i fatti noti, da cui desumere, in via presuntiva, i fatti oggetto di prova (cfr. Cass. n. 4011/2013).

5.3. La censura pertanto appare non pertinente alla decisione.

La statuizione è basata su un accertamento in fatto. Questo, in quanto relativo alla riconducibilità o meno dei debiti alle esigenze della famiglia, è istituzionalmente riservato al giudice del merito e non è censurabile in cassazione, se congruamente motivato (cfr., da ultimo, Cass. n. 12730/07, n. 933/12): la statuizione avrebbe, eventualmente, potuto essere censurata sotto il profilo del vizio motivazionale.

6.1. In conclusione, il ricorso va rigettato, infondati i motivi primo e terzo ed inammissibili i motivi secondo e quarto.

6.2. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano a carico della Equitalia nella misura stabilita in dispositivo.

PQM

P.Q.M.

La Corte di Cassazione:

– rigetta il ricorso, infondati i motivi primo e terzo ed inammissibili i motivi secondo e quarto;

– condanna la ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità che liquida nel compenso di Euro.7.000,00, oltre spese borsuali per Euro.150,00, IVA e CASSA. Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 24 marzo 2015.

Depositato in Cancelleria il 24 febbraio 2016