Cass. Civ., Sez. I, 26 aprile 2023, n. 10997, ord.
L’art 67 della Legge Fallimentare ( ora ridefinita Legge della crisi d’impresa) esclude da revocabilità, in caso di insolvenza dichiara dell’impresa ( id est fallimento, concordato, liquidazione coatta amministrativa), il pagamenti operati dall’impresa insolvente anche nell’arco degli ultimi sei mesi che precedono la dichiarazione d’insolvenza, se i pagamenti stessi sono effettuati “nei termini d’uso”. La giurisprudenza si è cimentata, quindi, nel compito di interpretare tale espressione posto che accade sovente che le imprese in difficoltà pagano in modo irregolare. Accade nella prassi, infatti, che le imprese in difficoltà chiedano di modificare i termini di pagamento, peggio, adempiano in modo irregolare.
L’argomento è stato affrontato con un recentissimo arresto della Suprema Corte di Cassazione, la sentenza n. 10997/2023, con il quale è stato enunciato il seguente principio:
“L’effetto dell’esenzione dell’art. 67, terzo comma, lett. a), l. fall., è quello di rendere non revocabili quei pagamenti i quali, pur avvenuti oltre i tempi contrattualmente prescritti, siano stati di fatto eseguiti ed accettati in termini diversi, nell’ambito di plurimi adempimenti con le nuove caratteristiche, evidenziatesi già in epoca anteriore a quelli de quibus. Ai fini dell’accertamento, il Giudice dovrà valutare la sussistenza di una prassi invalsa tra le parti in epoca prossima ai pagamenti revocandi.”
IL CASO. La Corte d’Appello di Perugia, ribaltando la sentenza di primo grado resa dal Tribunale di Terni, dichiarava la revocabilità di una serie di pagamenti, escludendo l’applicabilità dell’esenzione di cui alla lett. a) del comma 3, dell’art. 67, l.fall. Per la Corte, infatti, la circostanza che i pagamenti fossero avvenuti con un ritardo sempre maggiore rispetto a quello ritenuto “solito”, portava ad escludere la possibilità di ritenere tali ritardi nei termini d’uso, come ulteriormente comprovato dai numerosi solleciti inviati dalla Società Alfa, creditrice, alla Società Beta, debitrice.
Sussisteva, inoltre, la scientia decoctionis dell’accipiens ( n.d.r. la consapevolezza dello stato di decozione da parte del creditore), comprovata da elementi presuntivi quali (i) articoli di stampa; (ii) risultanze di bilancio; (iii) rifiuto del revisore di esprimere il proprio parere sul bilancio; (iv) attivazione della cassa integrazione; (v) sospensione delle forniture e interruzione dell’attività produttiva.
La società Alfa, accipiens condannata alla restituzione degli importi ricevuti, ricorreva in cassazione, chiedendo la riforma della sentenza della Corte perugina, assumendo l’erroneità del decisum del Giudice nella misura in cui aveva escluso l’applicabilità dell’esenzione prevista dall’art. 67, co. 3, lett. a), l.fall.
La Corte di Cassazione, in accoglimento del ricorso della Società Alfa, ha cassato la sentenza impugnata e disposto il rinvio alla Corte d’Appello di Perugia, in diversa composizione.
In particolare, la Corte ha statuito che il giudice d’appello, pur essendo tenuto a verificare l’esistenza di una prassi anteriore, adeguatamente consolidata e stabile, non si è preoccupato di accertare quale fosse la consuetudine negoziale invalsa fra le parti in un’epoca prossima ai pagamenti revocandi, arrestando la propria analisi a condotte risalenti a quattro anni addietro e dunque non significative della “normalità” di un atto di adempimento compiuto in coerenza con la pratica esistente al momento della sua esecuzione. La motivazione del giudice a quo, che risultava contraddittoria e viziata dall’omesso esame della documentazione relativa ai pagamenti avvenuti in epoca più recente, doveva dunque essere riformata.
Il testo della sentenza
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
RILEVATO
che:
- Il Tribunale di Terni, con sentenza n. 355/2017, respingeva la domanda proposta D.Lgs. n. 270 del 1999, ex art. 49 e L.Fall., art. 67 da BETA s.p.a. in a.s. nei confronti di ALFA s.p.a., avente ad oggetto la revoca dei pagamenti effettuati dalla società in bonis in favore della convenuta nei sei mesi anteriori alla dichiarazione di insolvenza, ritenendo che gli stessi fossero stati effettuati nei termini d’uso fra le parti e rientrassero così nell’esenzione prevista dalla L.Fall., art. 67, comma 3, lett. a).
- La Corte d’appello di Perugia ha accolto l’appello proposto dall’A.S. contro la decisione. Ha rilevato che, benché sin dal 2005 BETA avesse iniziato a pagare le forniture con ritardo, contenuto però entro un termine di venti – trenta giorni, “al 2007, e quindi al semestre antecedente alla dichiarazione dello stato di insolvenza, i ritardi erano sempre aumentati, sino ad arrivare agli ottanta e ai novanta giorni delle fatture relative ai pagamenti oggetto del giudizio” (così, testualmente, la sentenza alla pag. 4, 2 cpv).
Ha quindi ritenuto che simili ritardi non rientrassero nei termini d’uso, come del resto comprovato dai numerosi solleciti (di cui avevano esaustivamente riferito i testi escussi) che ALFA, per il tramite di suoi dipendenti, aveva provveduto a inviare a BETA nell’ultimo periodo.
Ha poi affermato che i medesimi solleciti dimostravano la scientia decoctionis della compagine appellata.
Ha aggiunto che la prova della sussistenza del presupposto soggettivo dell’azione emergeva da ulteriori, plurime circostanze conosciute nel mondo produttivo (articoli di stampa che trattavano della precaria situazione della BETA; pubblicazione del bilancio al 31 dicembre 2008 della società; rifiuto di KPMG di esprimere il proprio parere sul bilancio per l’anno successivo; attivazione della cassa integrazione per i dipendenti; sospensione delle forniture e interruzione dell’attività produttiva).
Ha pertanto dichiarato l’inefficacia dei pagamenti dedotti in giudizio, per l’importo di Euro 41.600, e ha condannato ALFA a restituire alla procedura appellante la somma predetta, maggiorata degli interessi legali dalla data della domanda al saldo.
- ALFA s.p.a. ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza, pubblicata il 7 giugno 2019, prospettando sei motivi di doglianza, ai quali ha resistito con controricorso BETA s.p.a. in a.s..
Parte ricorrente ha depositato memoria ai sensi dell’art. 380-bis.1 c.p.c..
CONSIDERATO
che:
4.1 Il primo motivo di ricorso denuncia la violazione della L.Fall., art. 67, commi 2 e 3, lett. a): la corte d’appello, pur riconoscendo che i ritardi nei pagamenti di BETA risalivano al 2005, ed erano arrivati nel 2007 a 80/90 giorni, ha negato che rientrassero nei termini d’uso i pagamenti di cui era stata richiesta la revoca, che erano avvenuti con un ritardo della medesima consistenza; i giudici distrettuali, a dire della ricorrente, non hanno tenuto conto che la sentenza dichiarativa dell’insolvenza di BETA è stata emessa il 18 maggio 2011, e che dunque il cd. periodo sospetto non risaliva al 2007, ma, dovendo essere calcolato a ritroso da tale data, si arrestava al 17 novembre 2010, oppure hanno limitato la valutazione dei termini d’uso esistenti fra le parti al periodo anteriore al 2007.
4.2 Il secondo motivo di ricorso lamenta la violazione e falsa applicazione degli art. 116 c.p.c., L. fall., art. 67, commi 2 e 3, lett. a): la corte d’appello – in tesi – non avrebbe compiuto un prudente apprezzamento delle prove disponibili, omettendo di analizzare compiutamente tutti i pagamenti intervenuti fra le parti dal 2005 al 2010 ai fini della valutazione in concreto dei termini d’uso esistenti e limitando la propria disamina sino al 2007; i giudici distrettuali, inoltre, avrebbero dato indebita prevalenza, nella individuazione dei termini d’uso, alle dichiarazioni testimoniali rese dai soli testi della procedura appellante, escludendo invece la valutazione sia delle prove documentali, sia delle prove testimoniali offerte a tal fine da ALFA.
4.3 Il terzo motivo di ricorso denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omessa valutazione di fatti storici decisivi risultanti dagli atti di causa, costituiti, fra l’altro: i) dalla documentazione relativa a tempi e modalità di pagamento delle fatture adottati dalle parti nel periodo ricompreso fra il 2005 e il 2010; ii) dall’insussistenza di solleciti scritti; iii) dalle dichiarazioni testimoniali dei testi di ALFA.
4.4 Il sesto motivo di ricorso adduce la nullità della sentenza impugnata, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per violazione degli art. 116 c.p.c. e L.Fall., art. 67: la sentenza impugnata sarebbe viziata da incoerenza e illogicità nella parte in cui ha ritenuto i pagamenti tardivi come non rientranti nei termini d’uso, pur avendo riconosciuto che fra le parti i pagamenti avvenivano in ritardo sin dal 2005.
- I motivi, da esaminarsi congiuntamente e in via prioritaria, in applicazione del principio della ragione più liquida, sono fondati, nei termini che si vanno ad illustrare.
5.1 Questa Corte ha già avuto modo di precisare (cfr. Cass. 27939/2020), in termini che questo collegio condivide appieno, che l’eccezione posta dalla L.Fall., art. 67, comma 3, lett. a), va intesa “nel senso che, pur quando le modalità di pagamento siano estranee alla previsione della relativa clausola contrattuale, il pagamento resta fermo ed efficace tutte le volte che fra le parti si sia instaurata una prassi anteriore – adeguatamente consolidata e stabile, così da potersi definire tale – volta a derogare a quella clausola contrattuale ed introdurre, come nuova regola inter partes, il pagamento nei termini diversi e più lunghi”.
“L’effetto della disposizione di esonero e’, in definitiva, che non sono revocabili quei pagamenti i quali, pur avvenuti oltre i tempi contrattualmente prescritti, siano stati di fatto eseguiti ed accettati in termini diversi, nell’ambito di plurimi adempimenti con le nuove caratteristiche, evidenziatesi già in epoca anteriore a quelli de quibus:
tanto che non possano più, a quel punto, ritenersi pagamenti eseguiti “in ritardo”, ossia inesatti adempimenti, ma siano divenuti per prassi, proprio al contrario, esatti adempimenti: con tutte le conseguenze relative all’inesistenza di un inadempimento dell’altro contraente (in ordine alla mora, all’art. 1460 c.c., all’azione di risoluzione, al risarcimento del danno, ecc.)”.
La norma, quindi, richiede la dimostrazione “della consistenza della quotidianità sotto il profilo delle modalità di adempimento invalse fra le parti, al fine di consentire al giudice di apprezzare se le parti nel caso di specie si fossero scostate dai termini consueti fino ad allora seguiti” (Cass. 9851/2019).
5.2 La corte di merito, chiamata a verificare la revocabilità di due pagamenti effettuati all’interno del periodo sospetto (pacificamente decorrente a ritroso dal 18 maggio 2011), ha sovvertito la decisione di primo grado, che aveva ravvisato l’esistenza dei presupposti dell’esenzione prevista dalla L.Fall., art. 67, comma 3, lett. a), facendo riferimento al fatto che i ritardi invalsi nella prassi negoziale, sempre contenuti tra i venti e i trenta giorni a partire dal 2005, “approssimandosi, invece, al 2007” “erano sempre aumentati fino ad arrivare agli ottanta e ai novanta giorni delle fatture relative ai pagamenti oggetto del presente giudizio”.
Una simile valutazione risulta viziata, innanzitutto, perché il giudice d’appello, pur essendo tenuto a verificare l’esistenza di una prassi anteriore, adeguatamente consolidata e stabile, non si è preoccupato di accertare quale fosse la consuetudine negoziale invalsa fra le parti in un’epoca prossima ai pagamenti revocandi, arrestando la propria analisi a condotte risalenti a quattro anni addietro e dunque non significative della “normalità” di un atto di adempimento compiuto in coerenza con la pratica esistente al momento della sua esecuzione.
Risulta altresì fondata la doglianza concernente l’omesso esame della documentazione relativa ai pagamenti avvenuti in epoca più recente, che doveva essere esaminata dalla corte di merito al fine di verificare se la prassi seguita dalle parti a partire dal 2007 fosse proseguita anche nel periodo successivo o avesse registrato dei significativi mutamenti.
Per di più, la motivazione offerta si prospetta come contraddittoria (o quanto meno apodittica) laddove, da un lato, riconosce che i ritardi erano “sempre” aumentati fino ad arrivare “agli ottanta e ai novanta giorni delle fatture relative ai pagamenti oggetto del presente del giudizio”, dall’altro nega rilevanza a comportamenti coerenti con una simile consuetudine ai fini dell’applicazione dell’esenzione in discorso (senza spiegare perché la lievitazione dei tempi di pagamento riscontrata fin dal 2007 non fosse idonea ad assurgere a prassi consolidata).
Giova precisare, infine, come non assumesse rilievo, al fine di sminuire la rilevanza di un’attuale prassi di dilazione nei pagamenti eventualmente esistente nei rapporti fra le parti, il riferimento ai solleciti effettuati nei confronti della debitrice.
Questa Corte, infatti, ha già avuto modo di precisare che “se il ritardo rispetto alla scadenza pattiziamente convenuta sia divenuto una consuetudine, senza determinare una specifica reazione della controparte, a parte l’intimazione di solleciti, tale prassi deve ritenersi prevalente rispetto al regolamento negoziale” (Cass. 7580/2019).
- L’accoglimento dei motivi esaminati nei termini appena illustrati comporta l’assorbimento dei profili di censura riguardanti la scientia decoctionis nonché delle ulteriori doglianze prospettate.
- La sentenza impugnata va dunque cassata, con rinvio della causa alla Corte d’appello di Perugia in diversa composizione, la quale, nel procedere a un nuovo esame, si atterrà ai principi sopra illustrati, avendo cura anche di provvedere sulle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo, il secondo, il terzo e il sesto motivo di ricorso nei termini di cui in motivazione, dichiara assorbiti gli altri, cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia la causa alla Corte d’appello di Perugia in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, il 15 marzo 2023.
Depositato in Cancelleria il 26 aprile 2023