“Il reato di emissione di fatture od altri documenti per operazioni inesistenti […] ricorra, da un lato, ove i beni o i servizi siano effettivamente entrati nella sfera giuridico-patrimoniale dell’impresa utilizzatrice delle fatture e, dall’altro lato, ove sussista l’elemento della simulazione soggettiva, ossia la rappresentazione documentale della provenienza della prestazione oggetto dell’imposizione, da un soggetto giuridico differente da quello indicato in fattura il quale, dunque, l’abbia effettivamente erogata”.
Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza n. 24307/17; depositata il 17 maggio
Testo della sentenza
Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 19 gennaio – 17 maggio 2017, n. 24037
Presidente Amoroso – Relatore Renoldi
Ritenuto in fatto
1. A seguito di una verifica fiscale effettuata dall’Agenzia Entrate – Direzione Regionale della Liguria nei confronti della società E.R.M. S.p.A. era emerso che in occasione della cessione, da parte della predetta società, del 49% delle quote della partecipata I. S.r.l. a favore di una società olandese del gruppo russo L., era stata indicato, quale onere accessorio, il versamento della somma di 3.368.750 euro di imponibile quale corrispettivo dell’attività di mediazione svolta da F.C., legale rappresentante della F. S.r.I., la quale svolgeva attività di commercio al dettaglio di articoli di cancelleria e che in data 3/12/2008 aveva emesso, in relazione a tale operazione, la fattura n. 111 (per un importo di 4.042.500 euro, pari alla somma di 3.368.750 euro di imponibile maggiorata del 20% a titolo di IVA da corrispondere).
Il successivo controllo, eseguito nei confronti della società F. S.r.l., aveva consentito di appurare che sul conto corrente bancario alla stessa intestato era stata effettivamente accreditata, in data 18/12/2008, la somma di 3.655.093,75 euro (divergente dalla somma indicata in fattura in quanto comprensiva anche di una ritenuta di acconto a favore della F.); e che i risultati dell’operazione non erano stati, però, riportati nella dichiarazione IVA, presentata dalla società di capitali di cui era legale rappresentante l’odierno imputato.
Inoltre, da ulteriori accertamenti eseguiti dalla Guardia di Finanza era, altresì, emerso che le somme corrisposte per la ricordata provvigione erano successivamente affluite, nell’arco di circa un trimestre, sui conti personali di C., il quale aveva successivamente eseguito una serie di prelievi da tali conti. E tuttavia, lo stesso C. non aveva indicato, nella propria dichiarazione dei redditi, le somme percepite per la mediazione svolta, sicché la Guardia di finanza aveva calcolato in 1.732.661 euro l’imposta da costui evasa a titolo di IRPEF.
1.1. A seguito di tali accertamenti, la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Genova aveva, quindi, chiesto il rinvio a giudizio di F.C., ipotizzando, nei suoi confronti, i delitti di cui agli artt. 81 cpv. cod. pen., 4 del D.Igs. n. 74/2000 (capo 1), 8 comma 1 del D.Igs. n. 74/2000 (capo 2), 4 del D.Igs. n. 74/2000 (capo 3). Secondo l’ipotesi accusatoria, infatti, C., in esecuzione di un medesimo disegno criminoso, nella sua qualità di legale rappresentante della F. S.r.l. ed al fine di evadere le imposte sui redditi e l’IVA, aveva per un verso omesso di indicare, nella dichiarazione annuale della società relativa all’anno 2008, le somme dalla stessa percepite ed attestate dalla fattura n. 111 del 3/12/2008 per 3.678.750,00 euro, con Iva non versata pari a 673.750,00 euro e IRES a 926.406,25 euro, e, dunque, elementi attivi per un ammontare superiore al 10% di quelli dichiarati, realizzando così un’evasione dell’imposta superiore a 103.291,38 euro (capo 1); e, per altro verso, egli aveva omesso di indicare, nella propria dichiarazione dei redditi relativa all’anno 2008, al fine di evadere le imposte Irpef, le somme percepite a titolo di provvigione per la ricordata attività di mediazione (costituenti elementi attivi di ammontare superiore 103.91,38 euro ed al 10% di quelli dichiarati), realizzando così un’evasione Irpef pari a 1.732.661 euro (capo 3). Inoltre, secondo la tesi accusatoria, al fine di realizzare quest’ultima attività illecita a proprio personale vantaggio, C. aveva fittiziamente emesso, nella sua qualità di legale rappresentante della Fin cor S.r.I., la fattura n. 111 del 3/12/2008 per 3.678.750 euro in relazione ad un’operazione soggettivamente inesistente (capo 2).
1.2. Con sentenza in data 15/01/2015, emessa all’esito di giudizio abbreviato, il Giudice dell’udienza preliminare presso il Tribunale di Genova aveva, quindi, condannato F.C., con la diminuente del rito e con la recidiva reiterata infraquinquennale, alla pena di quattro anni e sei mesi di reclusione, riconoscendolo colpevole dei reati, unificati dal vincolo della continuazione, contestati ai capi 2) e 3) dell’imputazione; e disponendo, altresì, la confisca per equivalente degli immobili e delle somme di denaro in sequestro fino alla concorrenza del valore di € 1.732.661,00. Con lo stesso provvedimento C. era stato, invece, assolto, con la formula “perché il fatto non sussiste”, in relazione al delitto di cui all’art. 4 del D.Igs. n. 74/2000, contestato al capo 1);
ciò sul presupposto che l’attività di mediazione, dal lato della società, configurasse un’operazione inesistente e che, di conseguenza, la F. S.r.l. non avesse, in realtà, percepito alcun reddito da tale attività.
2. Con sentenza in data 10/12/2015 la Corte di appello di Genova riformò, solo in parte, la pronuncia di primo grado, ritenendo che la E.R.M. S.p.A. avesse versato una somma pari a 387.406,25 euro a titolo di ritenuta d’acconto e che, pertanto, la somma evasa a titolo di IRPEF fosse pari a soli 1.345.254,75 euro, per l’effetto riducendo la confisca all’importo corrispondente.
3. Avverso la sentenza di appello ha proposto ricorso per cassazione lo stesso C., a mezzo del proprio difensore, sollecitando il suo proscioglimento in relazione al reato di cui al n. 2) del capo di imputazione, nonché l’accoglimento delle doglianze relative al trattamento sanzionatorio e la limitazione dell’ammontare dell’imposta evasa a soli 1.055.542,30 euro.
A sostegno dell’impugnazione C. ha dedotto sei motivi di censura.
3.1. Con il primo di essi, il ricorrente denuncia, ex art. 606, comma 1, lett. e) cod. proc. pen., la mancanza di motivazione in relazione al fatto che l’attività di mediazione svolta dalla E. dissimulasse, fin dall’inizio, un meccanismo volto a consentire a C. di non pagare le imposte sul reddito delle persone fisiche.
3.2. Con il secondo motivo deduce, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. e) cod. proc. pen., la contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione per avere la sentenza affermato che l’intera operazione sarebbe stata realizzata da C. attraverso lo schermo costituito dalla società di capitali F. S.r.l. in modo da garantire il patrimonio personale dell’imputato ed in quanto la sanzione prevista per l’omessa dichiarazione era più lieve rispetto a quella per la frode fiscale. In realtà ove C. avesse agito, fin dal principio, con il proposito di evadere le imposte sui futuri emolumenti, avrebbe operato come persona fisica e non per il tramite della società, atteso che in caso di accertamento fiscale egli sarebbe incorso soltanto nella violazione dell’art. 4 D.Igs. n. 74/2000, laddove operando, invece, come amministratore della F. sarebbe incorso, come poi avvenuto, anche nella violazione dell’art. 8 del predetto decreto.
3.3. Con il terzo motivo, il ricorrente deduce, ex art. 606, comma 1, lett. b) ed e) cod. proc. pen., l’erronea interpretazione dell’art. 530 cod. proc. pen. nonché l’illogicità della motivazione con riferimento al principio dell’oltre ogni ragionevole dubbio. Dopo avere ribadito le ragioni per le quali la condotta di C., quale legale rappresentante della F., avrebbe configurato una violazione della normativa fiscale IVA ed IRES e non una evasione IRPEF dello stesso imputato, realizzata quale persona fisica, il ricorso argomenta in ordine al fatto che la fattura n. 111 non sarebbe riferibile ad una operazione soggettivamente inesistente; ciò sul presupposto che tale situazione ricorrerebbe quando “uno dei soggetti dell’operazione sia rimasto del tutto estraneo alla stessa”, laddove, nel caso di specie, la F. avrebbe realmente percepito le somme pattuite per l’attività di mediazione, la quale ovviamente non avrebbe potuto che essere svolta, concretamente, da una persona fisica, individuata proprio in F.C.. Il fatto che, poi, quest’ultimo avesse effettuato una serie di prelievi dai conti correnti della società, avrebbe potuto, al più, rilevare come inadempienza ai doveri impostigli dalla sua qualità di Amministratore Unico della F. S.r.l..
3.4. Con il quarto motivo, il ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b) cod. proc. pen., l’inosservanza e/o erronea applicazione degli artt. 220 disp. att. cod. proc. pen., 191 cod. proc. pen., 234 cod. proc. pen. in relazione alla prova della sussistenza del reato di cui all’art. 8, comma 1, d.lgs. n. 74/2000. Ciò in quanto l’Agenzia delle Entrate – Direzione Regionale della Liguria, dopo che era emersa l’esistenza di indizi di reità aveva, comunque, proseguito nell’attività amministrativa di indagine ed accertamento, laddove il citato art. 220 dispone che, in tal caso, le operazioni debbano proseguire con l’osservanza delle disposizioni del codice di procedura penale. Per tale motivo, le risultanze contenute nella nota in data 6/07/2011, inviata dalla Agenzia delle Entrate, acquisite dopo la data del 16/05/2011 e fino a quella dell’inoltro della stessa, sarebbero state inutilizzabili ex art. 234, comma 2 cod. proc. pen..
3.5. Con il quinto motivo il ricorrente censura, ex art. 606, comma 1, lett. e) cod. proc. pen., la manifesta illogicità della motivazione della sentenza impugnata in ordine alla eccesiva severità del trattamento sanzionatorio, fondata sul presupposto che l’imputato non avesse riparato l’illecito, senza però tenere conto sia del suo precedente stato detentivo, sia della sottoposizione dei suoi beni a sequestro preventivo, sia della brevità dei tempi processuali, che non gli avrebbero permesso, suo malgrado, di attivare alcuna iniziativa riparatoria.
3.6. Con il sesto motivo si lamenta, ex art. 606, comma 1, lett. b) ed e) cod. proc. pen., la erronea applicazione dell’art. 4 d.lgs. n. 74/2000 e la contraddittorietà e/o manifesta illogicità della motivazione per avere la sentenza impugnata ritenuto che, quale base imponibile, sia stata correttamente indicata (ai fini delle imposte dirette), la somma di 4.042.500,00 euro comprensiva di IVA, avendo C. introitato tutto quanto aveva percepito. In realtà, dal momento che all’imputato era stata contestata la sola evasione IRPEF, non si sarebbe dovuto tenere conto dell’IVA, pari a 673.750,00 euro.
Considerato in diritto
1. Il ricorso è manifestamente infondato.
2. Occorre muovere, secondo l’ordine logico, dal quarto motivo di impugnazione, con il quale si censura la violazione dell’art. 220 disp. att. cod. proc. pen..
2.1. Sul punto, rileva preliminarmente il Collegio come la nota in data 6/07/2011 dell’Agenzia Entrate – Direzione Regionale della Liguria sia stata trasmessa, secondo quanto ammesso dalla stessa difesa dell’imputato, ex art. 331 cod. proc. pen., sicché è innanzitutto infondata la tesi secondo cui essa configuri un documento extraprocessuale ricognitivo di natura amministrativa, dovendo essa essere qualificata, ai sensi del comma 4 del citato art. 331, quale denuncia, presentata dall’autorità amministrativa, di un reato perseguibile di ufficio.
Nondimeno, è invece corretto il richiamo difensivo alla previsione dell’art. 220 disp. att. cod. proc. pen., secondo cui quando nel corso di attività ispettive o di vigilanza previste da leggi o decreti emergono indizi di reato e non meri sospetti, “gli atti necessari per assicurare le fonti di prova e raccogliere quant’altro possa servire per l’applicazione della legge penale sono compiuti con l’osservanza delle disposizioni del codice”.
Pertanto, come riconosciuto dallo stesso ricorrente, la parte di documento, compilata prima dell’insorgere degli indizi, ha sempre efficacia probatoria ed è come tale utilizzabile, mentre non può assumere una siffatta valenza quella redatta successivamente, qualora non siano state rispettate le disposizioni del codice di procedura penale (v. Sez. 3, n. 7930 del 30/01/2015, Marchetti e altro, Rv. 262518).
A tale proposito questa Corte ha pure osservato come, dalla semplice lettura della norma, emerga che la stessa presuppone, per la sua applicazione, la sussistenza della mera possibilità di attribuire rilevanza penale al fatto riscontrato nel corso dell’inchiesta amministrativa e, nel momento in cui esso viene rilevato, a prescindere dalla circostanza che esso possa essere riferito ad una persona determinata (Sez. 2, n. 2601 del 13/12/2005, Cacace, Rv. 233330;
Sez. U, n. 45477 del 28/11/2001, Raineri, Rv. 220291).
Ove le richiamate condizioni si verifichino, è dunque necessario che, a pena di inutilizzabilità, vengano osservate le disposizioni del codice di rito, ma soltanto per il compimento degli atti necessari all’assicurazione delle fonti di prova ed alla raccolta di quant’altro necessario per l’applicazione della legge penale (Sez. 3, n. 7930 del 30/01/2015, Marchetti e altro, Rv. 262518; Sez. 3, n. 27682 del 17/06/2014, Palmieri, Rv. 259948). Epperaltro, se le forme del codice di procedura penale devono essere osservate soltanto ove si faccia luogo al compimento degli atti necessari alla raccolta ed all’assicurazione delle fonti di prova, ciò significa che ogni qual volta non si debba fare luogo all’espletamento di atti garantiti, non è necessario osservare le norme del codice di rito.
Al fine di stabilire quando tale condizione sussista, l’art. 114 disp. att. cod. proc. pen. prevede che “nel procedere al compimento degli atti indicati nell’art. 356 [cod. proc. pen.], la polizia giudiziaria avverte la persona sottoposta alle indagini, se presente, che ha facoltà di farsi assistere dal difensore di fiducia”.
Ciò posto, dal contenuto testuale della norma in esame emerge con chiarezza che le attività ispettive fiscali non rientrano tra quelle indicate dall’art. 356 cod. proc. pen., che l’art. 114 disp. att. cod. proc. pen., espressamente richiama. In altre parole, la disposizione in esame impone l’avviso del diritto all’assistenza del difensore solo ed esclusivamente nel caso in cui si proceda al compimento di uno degli atti indicati dall’art. 356 cod. proc. pen., il quale, a sua volta, stabilisce che il difensore della persona nei cui confronti vengono svolte le indagini ha facoltà di assistere, senza diritto di essere preventivamente avvisato, agli atti previsti dagli artt. 352 (perquisizioni) e 354 (accertamenti urgenti sui luoghi, sulle cose e sulle persone e sequestro) oltre che all’immediata apertura del plico autorizzata dal pubblico ministero a norma dell’art. 353, comma 2, cod. proc. pen.. E’ questa una elencazione tassativa, come si desume dal puntuale richiamo ai singoli atti elencati.
Consegue alle considerazioni fin qui svolte che non avendo la Corte di legittimità la possibilità di un accesso indiscriminato agli atti del procedimento penale, al fine di verificare la utilizzabilità del risultato di singole attività di acquisizione di elementi indiziari è indispensabile che il ricorso specifichi quali risultati dell’attività investigativa debbano ritenersi, per le ragioni più sopra esposte, inutilizzabili.
2.2. Orbene, nel caso di specie, la difesa di C. si è limitata a censurare tutte le attività di accertamento e di acquisizione di documenti compiute successivamente alla data del 16/05/2011, allorché l’Agenzia delle entrate aveva instaurato il contraddittorio con la Società E.R.M. allo scopo di ottenere chiarimenti in merito alla natura ed al contenuto delle mediazioni oggetto di fatturazione, ritenendosi che da tale momento potesse ritenersi acclarata l’esistenza di reati tributari quali quelli previsti dagli artt. 4 e 8, comma 1 del D.Lgs. n. 74/2000. Sotto altro profilo, poi, il ricorso non contiene alcuna indicazione in ordine alla rilevanza della dedotta inutilizzabilità del materiale probatorio, non specificando quali conseguenze deriverebbero sotto il profilo della complessiva inidoneità del materiale probatorio residuo a dimostrare la responsabilità dell’imputato per i reati a lui ascritti.
Del resto, come osservato dalla sentenza impugnata, successivamente all’inoltro della notizia di reato, il Pubblico ministero aveva conferito una delega di indagini, ai sensi dell’art. 370 cod. proc. pen., alla Guardia di Finanza, sicché i riscontri rispetto all’originaria segnalazione era provenuti, soprattutto, dall’attività investigativa successivamente posta in essere; a nulla rilevando che detta delega, come osservato dalla difesa, fosse stata rilasciata in data 27/09/2011, non essendo tale circostanza indicativa, come invece opina il ricorrente, di un’affermazione di responsabilità basata su atti d’indagine inutilizza bili.
A fronte di doglianze formulate, in sede di ricorso, in maniera del tutto generica e non essendo, dunque, possibile, alla stregua di censure assolutamente aspecifiche verificare l’incidenza, sul materiale probatorio raccolto, dei lamentati vizi di inutilizzabilità di alcuni atti (cd. prova di resistenza), deve conclusivamente rilevarsi la manifesta infondatezza della questione dedotta con il quarto motivo di impugnazione.
3. Venendo, quindi, al terzo motivo di ricorso, giova in premessa ricordare che al giudice di legittimità non è consentito ipotizzare alternative opzioni ricostruttive della vicenda fattuale, sovrapponendo la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi, saggiando la tenuta logica della pronuncia portata alla sua cognizione mediante un raffronto tra l’apparato argomentativo che la sorregge ed eventuali altri modelli di ragionamento mutuati dall’esterno (Sez. Un., n. 12 del 31/05/2000, Jakani, Rv. 216260; in termini v. Sez. 2, n. 20806 del 5/05/2011, Tosto, Rv. 250362). Ne consegue che, quando i giudici di merito abbiano motivato, alla stregua di un percorso argornentativo scevro da profili di illogicità, le ragioni di fatto poste a fondamento della propria decisione, al giudice di legittimità non è consentito censurarne, sul piano della ricostruzione dei fatti, le scelte compiute accedendo ad ipotesi alternative, ove anche dotate di un maggiore grado di persuasività.
3.1. Tanto premesso, osserva il Collegio che, nel caso di specie, i giudici di merito hanno offerto una spiegazione perfettamente logica e plausibile del complesso delle ragioni per cui si è ritenuto che C. avesse svolto l’attività di intermediazione tra la ERG e la L. non come legale rappresentante della F. S.r.I., sottolineando, in primo luogo, come le due società non avrebbero potuto certo rivolgersi, per lo svolgimento di un’attività così peculiare, che certamente richiedeva competenze anche specialistiche, ad una società costituita per commerciare, al dettaglio, articoli di cancelleria; come le somme percepite da F. fossero successivamente confluite su conti riconducibili a C. o, comunque, fatte oggetto di prelievi in contanti da parte dell’imputato; come un altro degli intermediari coinvolti nell’operazione avesse avviato una causa civile nei confronti della persona fisica di C. in relazione ad una quota della provvigione pagata da E. S.p.A. e come lo stesso C. avesse avviato, personalmente e non nella qualità di amministratore unico della F. S.r.l., un’analoga iniziativa giudiziaria nei confronti della società L.. Elementi dai quali i giudici di merito hanno tratto, in maniera del tutto logica, il convincimento, criticato genericamente con il primo motivo di ricorso, secondo cui “il meccanismo ideato nascondeva ab initio un interesse di C. a non pagare le imposte come persona fisica”, sicché la F. S.r.l. fosse servita a realizzare un’operazione fraudolenta per il fisco venendo, non a caso, subito posta in liquidazione, il 31/12/2009, una volta esaurito l’affare.
3.2. A fronte di tale ricostruzione dei fatti, attraverso cui la sentenza impugnata ha adeguatamente esplicato, con percorso motivazionale coerente ed immune da censure logiche, le ragioni per le quali ha ritenuto che C. avesse agito in proprio e non nella qualità di legale rappresentante della società formalmente investita dell’attività di mediazione, il ricorso per un verso articola delle mere censure in fatto e, per altro verso, si limita a prospettare una ipotesi alternativa e, dunque, una differente lettura del materiale probatorio, sottolineando come fosse lecito che la società avesse compiuto atti giuridici esulanti dal suo oggetto sociale (circostanza mai messa in dubbio dai giudici di merito, i quali avevano, invece, rilevato come fosse del tutto inverosimile che una società che commerciava in articoli di cancelleria fosse stata incaricata di gestire una delicata operazione di mediazione, per svariati milioni di euro, tra società operanti nel settore petrolifero) o come potessero darsi altre possibili spiegazioni della condotta tenuta da C., il quale aveva effettuato ripetuti prelievi dai conti della società.
Ne consegue, dunque, sotto il profilo illustrato, la declaratoria di manifesta infondatezza della censura, atteso che il ricorso finisce per sollecitare un controllo da parte del giudice di legittimità che pacificamente esorbita, per le ragioni già illustrate, dagli stretti confini assegnati alla sua cognizione.
3.3. Sotto altro e concorrente profilo, è manifestamente infondata l’ulteriore questione, dedotta dal ricorrente, in relazione alla non configurabilità, nel caso di specie, di operazioni soggettivamente inesistenti.
In proposito, infatti, la difesa di C., dopo avere premesso che l’operazione di mediazione nella compravendita Erg-L. era stata prevista contrattualmente, atteso che F. S.r.l. era stata incaricata con il Mediation and Service Agreement del 21/06/2008, ha sottolineato altresì come fosse destituita di fondamento l’affermazione secondo cui la stessa F. non avesse percepito alcun effettivo reddito dall’operazione, avendo la E. effettivamente versato, in data 19/12/2008, l’importo dovuto sul c/c 437380 intestato a F. S.r.I., acceso presso la Banca C.. E per tale motivo, dal momento che nessuno dei soggetti dell’operazione era rimasto del tutto estraneo alla stessa, avrebbe fatto difetto il presupposto indispensabile per configurare una operazione soggettivamente inesistente, così come richiesto dalla giurisprudenza di legittimità.
3.3.1. Tale ricostruzione è, però, giuridicamente infondata.
Ritiene, infatti, il Collegio che il reato di emissione di fatture od altri documenti per operazioni inesistenti, previsto dall’art. 8 del D.Lgs. n. 74 del 2000, pacificamente configurabile anche in caso di fatturazione solo soggettivamente falsa, ricorra, da un lato, ove i beni o i servizi siano effettivamente entrati nella sfera giuridico-patrimoniale dell’impresa utilizzatrice delle fatture (in questo caso la Erg) e, dall’altro lato, ove sussista l’elemento della simulazione soggettiva, ossia la rappresentazione documentale della provenienza della prestazione oggetto dell’imposizione, da un soggetto giuridico differente da quello indicato in fattura, il quale, dunque, l’abbia effettivamente erogata.
Tale interpretazione, infatti, è consentita, innanzitutto, sia dall’argomento testuale, fondato sull’ampiezza della previsione normativa, la quale si riferisce genericamente ad “operazioni inesistenti”; sia dall’argomento teleologico, fondato sulla considerazione per cui, anche in tali casi, è possibile conseguire il fine illecito indicato dalla norma in esame, ovvero consentire ai terzi l’evasione delle imposte sui redditi e sul valore aggiunto (cfr. Sez. 3, n. 20353 del 17/03/2010, dep. 28/05/2010, Bizzozzero e altro, Rv. 247110; Sez. 3, n. 14707 del 14/11/2007, dep. 09/04/2008, Rossi e altri, Rv. 239658). Inoltre, lo stesso art. 1, comma 1, lett. a) del d.lgs. n. 74 del 2000 stabilisce che “per “fatture o altri documenti per operazioni inesistenti” si intendono le fatture o gli altri documenti aventi rilievo probatorio analogo in base alle norme tributarie, emessi a fronte di operazioni non realmente effettuate in tutto o in parte o che indicano i corrispettivi o l’imposta sul valore aggiunto in misura superiore a quella reale, ovvero che riferiscono l’operazione a soggetti diversi da quelli effettivi”.
Ne consegue che le operazioni soggettivamente inesistenti devono ritenersi configurabili anche quando, come nel caso di specie, la fattura rechi l’indicazione di un soggetto erogatore della prestazione imponibile (nel caso di specie la F.) diverso da quello effettivo (individuato nello stesso C.). Anche in una siffatta ipotesi, del resto, il documento esprime una chiara capacità decettiva, idonea a impedire la identificazione degli attori effettivi delle operazioni commerciali, precludendo o comunque ostacolando la possibilità dell’accertamento tributario e palesando, in questo modo, un nucleo di disvalore che ne giustifica pienamente la riconducibilità all’area del penalmente rilevante.
Sulla base delle considerazioni che precedono, il terzo motivo deve ritenersi manifestamente infondato, così come i primi due motivi di ricorso, i quali attengono a profili di ricostruzione della complessiva vicenda, con particolare riguardo al carattere fraudolento dell’intera operazione, secondo il ricorrente rimasto indimostrato; sicché gli stessi debbono ritenersi confutati alla stregua delle considerazioni svolte nell’analisi del terzo motivo.
3.4. Quanto, poi, al sesto motivo di ricorso, con il quale C. lamenta l’indebito computo, ai fini della evasione Irpef contestata al capo 3) dell’imputazione, delle somme dovute a titolo di IVA, ritiene il Collegio che le censure difensive siano totalmente inconferenti.
Infatti, nel caso di specie all’imputato non è stato contestato, al predetto capo di imputazione, il mancato versamento dell’IVA, quanto piuttosto, come ben evidenziato dai giudici di merito, il fatto che l’intera somma, comprensiva anche dell’IVA al 20%, fosse stata interamente introitata dall’imputato, sicché correttamente il calcolo dell’evasione dell’imposta sui redditi delle persone fisiche ha tenuto conto anche dell’ulteriore somma percepita e non dichiarata.
Ne consegue la manifesta infondatezza del relativo motivo di censura.
3.5. Venendo, infine, al quinto motivo di impugnazione, relativo alle questioni poste con riferimento al trattamento sanzionatorio, con l’atto di appello il ricorrente ne aveva chiesto il sensibile contenimento, sollecitando una rideterminazione della pena base a partire dal minimo edittale nonché il riconoscimento delle attenuanti generiche, da considerare equivalenti alla recidiva contestata. Ed a tal fine aveva sottolineato l’illogicità della decisione del giudice di prime cure, il quale aveva attribuito rilevanza al fatto che C. non avesse attivato alcuna iniziativa riparatoria, ciò che, tuttavia, l’imputato non sarebbe stato nelle condizioni di fare, dal momento che egli era stato dapprima detenuto in Svizzera, quindi aveva patito il sequestro preventivo dei beni e, infine, si era trovato, a seguito della rapida chiusura delle indagini preliminari ed alla immediata instaurazione del giudizio abbreviato, di fronte a cadenze processuali contratte e, comunque, assai ravvicinate.
Nel rispondere a tali doglianze, la sentenza impugnata aveva affermato che C. aveva chiesto di essere giustificato dalla predetta condizione, laddove “dalle proprie colpe non si può trarre un beneficio”; ciò che, si duole oggi il ricorrente, non sarebbe stato in realtà mai sostenuto in sede di impugnazione.
Similmente, il ricorso opina che il primo gravame non abbia mai affermato, diversamente da quanto riportato nella sentenza di secondo grado, che la condizione di contumacia dell’imputato non potesse giustificare l’asserito atteggiamento “di disinteresse del C. alle conseguenze del reato”.
3.5.1. In proposito, rileva nondimeno il Collegio che la Corte territoriale ha sviluppato, a partire dalla prima censura dell’imputato, una più articolata valutazione, fondata sul fatto che, da un lato, non possa invocarsi una situazione di asserita inesigibilità di condotte riparatorie da parte di chi vi abbia dato causa e che, dall’altro lato, C. non si fosse comunque attivato, sul piano riparatorio, successivamente alla sua liberazione. Tale apprezzamento deve ritenersi del tutto immune da vizi di natura logica e, come tale, non censurabile in questa sede, essendo la valutazione compiuta dai giudici genovesi sostanzialmente incentrata sull’assenza di qualunque manifestazione di disponibilità a farsi carico, anche parzialmente, delle conseguenze delle proprie condotte illecite, con ciò essendosi fatta corretta applicazione degli indici dettati dall’art. 133 cod. pen., con particolare riguardo al n. 3 del comma 2, relativo alla rilevanza da attribuire, sul piano dosimetrico, alla condotta susseguente al reato.
3.5.2. Analogamente, il ricorso censura il passaggio motivazionale con cui la Corte aveva rigettato la parte del motivo di appello sul trattamento sanzionatorio con cui si chiedeva la determinazione di una pena base inferiore, sul presupposto che le precedenti condotte di rilevanza penale dell’imputato venissero valutate due volte: in primis al momento della determinazione della pena base e, in un momento successivo, in sede di aumento per la recidiva.
Anche in relazione a tale profilo va, nondimeno, rilevato che le censure mosse al provvedimento si fondano sulla estrapolazione di una parte della più articolata motivazione resa dalla Corte d’appello, la quale ha, invece, sottolineato come l’entità della pena base, determinata in misura pari a tre anni di reclusione, trovasse giustificazione “più ancora che nella personalità negativa del C., nell’elevato importo dell’evasione fiscale, molto superiore al milione di euro”, con ciò palesandosi la sostanziale inconferenza delle deduzioni difensive espresse sul punto nel ricorso, avendo i giudici di merito fatto buon governo dei criteri enunciati negli artt. 132 e 133 cod. pen. che orientano l’esercizio della discrezionalità nella commisurazione del trattamento sanzionatorio; esercizio non censurabile in questa sede attraverso doglianze dirette a determinare una nuova valutazione della congruità della pena, la cui commisurazione non sia frutto, come in questo caso, di mero arbitrio o di ragionamento illogico (Sez. 5, n. 5582 del 30/09/2013, dep. 4/02/2014, Ferrario, Rv. 259142).
Pertanto, anche le doglianze sviluppate con il quinto motivo di impugnazione sono manifestamente infondate.
4. Alla stregua delle considerazioni che precedono il ricorso deve essere, dunque, dichiarato inammissibile.
Alla luce della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in 2.000,00 euro.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e della somma di euro 2.000 (duemila) in favore della Cassa delle Ammende.