Autore: Giovanni Orlandi

Il possesso della cambiale non vale titolo

Cassazione Civile, Sez. III, 10 gennaio 2012, n. 63

Con sentenza n. 63 del 10 gennaio 2012, n. 63, la III^ Sezione Civile della Corte di Cassazioni afferma il principio secondo cui il mero possessore di una cambiale che non risulti prenditore (né giratario) della stessa, difettando sul titolo l’indicazione del beneficiario, non può considerarsi legittimato a pretendere il pagamento del credito documentato, se non dimostri l’esistenza del rapporto giuridico da cui deriva tale credito. Ciò in quanto il semplice possesso della cartula non ha significato univoco, ai fini della legittimazione, non potendo escludersi che essa sia pervenuta al possessore abusivamente.

In siffatta ipotesi il documento non può neppure valere come promessa di pagamento, ai sensi dell’art. 1988 cod. civ., atteso che l’inversione dell’onere della prova, prevista da tale disposizione, opera solo nei confronti di colui al quale la promessa sia stata realmente fatta.   Ne deriva che il mero possessore di un titolo all’ordine, privo di valore cartolare, e dal quale perciò stesso non risulti che la promessa di pagamento è stata fatta in favore di chi lo possiede, deve fornire la prova dei fatti costitutivi del suo diritto.

 

Indicazioni geografiche e denominazioni d’origine dei prodotti agricoli ed alimentari – Uso della denominazione “parmesan”

 

Corte di Giustizia – Grande Sezione, Sentenza 26 febbraio 2008

 

 

La Corte di Giustizia, con questa storica sentenza, si è pronunciata sul ricorso con il quale la Commissione ha chiesto di dichiarare che la Germania, rifiutando formalmente di perseguire come illecito l’impiego nel suo territorio della denominazione «parmesan» nell’etichettatura di prodotti non corrispondenti al disciplinare della denominazione d’origine protetta «Parmigiano Reggiano», favorendo così l’usurpazione da parte di terzi della notorietà di cui gode il prodotto autentico, tutelato a livello comunitario, è venuta meno agli obblighi che le incombono in forza dell’art. 13, n. 1, lett. b), del regolamento (CEE) del Consiglio 14 luglio 1992, n. 2081, relativo alla protezione delle indicazioni geografiche e delle denominazioni d’origine dei prodotti agricoli ed alimentari. La Germania ha sempre sostenuto che – “l’uso del termine «parmesan» non costituisce una violazione dell’art. 13, n. 1, lett. b), del regolamento n. 2081/92 dato che, già secondo la Commissione, rappresenterebbe solo la traduzione della parola «Parmigiano» che è una denominazione generica, come dimostrano la situazione in Italia e in altri Stati membri nonché le normative nazionali e comunitaria. Tale termine, in quanto denominazione generica, non potrebbe beneficiare della tutela del detto regolamento”; – “anche supponendo che il termine «Parmigiano» non sia una denominazione generica e che, pertanto, non si applichino a tale elemento costitutivo le disposizioni dell’art. 13, n. 1, secondo comma, del regolamento n. 2081/92, l’uso del termine «parmesan» non integra una violazione delle disposizioni relative alla tutela della denominazione d’origine «Parmigiano Reggiano». Il nome «parmesan» avrebbe subito un’evoluzione secolare a sé stante e sarebbe divenuto, in Germania, come pure in altri Stati membri, una denominazione generica. Il suo uso non costituirebbe dunque né un’usurpazione né un’evocazione della DOP «Parmigiano Reggiano»”. Viceversa, secondo la Corte di Giustizia oltre “sapere se la denominazione «parmesan» sia la traduzione della DOP «Parmigiano Reggiano» è irrilevante ai fini dell’esame del presente ricorso”. Infatti, “si deve tener conto anche della somiglianza concettuale tra tali due termini, pur di lingue diverse, testimoniata dal dibattito dinanzi alla Corte. Tale somiglianza, come già le somiglianze fonetiche e ottiche rilevate al punto 46 della presente sentenza, è idonea ad indurre il consumatore a prendere come immagine di riferimento il formaggio recante la DOP «Parmigiano Reggiano» quando si trova dinanzi ad un formaggio a pasta duro, grattugiato o da grattugiare, recante la denominazione «parmesan». In tale contesto, l’uso della denominazione «parmesan» dev’essere considerato un’evocazione della DOP «Parmigiano Reggiano» ai sensi dell’art. 13, n. 1, lett. b), del regolamento n. 2081/92”. La Germania – secondo la Corte – non ha dimostrato la fondatezza della propria tesi della presunta genericità della denominazione «parmesan». In particolare, “la Germania si è limitata a produrre citazioni tratte da dizionari e da letteratura specializzata che non offrono un quadro completo del modo in cui il termine «parmesan» è percepito dai consumatori in Germania e in altri Stati membri, e non ha presentato neppure dati relativi alla produzione o al consumo del formaggio commercializzato con la denominazione «parmesan» in Germania o in altri Stati membri. Inoltre, dalla documentazione sottoposta alla Corte risulta che in Germania alcuni produttori di formaggio recante la denominazione «parmesan» commercializzano tale prodotto con etichette che richiamano tradizioni culturali e paesaggi italiani. È legittimo dedurne che i consumatori in tale Stato membro percepiscono il formaggio «parmesan» come un formaggio associato all’Italia anche se, in realtà, è stato prodotto in un altro Stato membro”. In definitiva, e qui sta la pronuncia di grande rilievo, la Corte ha affermato che “non avendo la Repubblica federale di Germania dimostrato che la denominazione «parmesan» riveste carattere generico, l’utilizzazione del termine «parmesan» per formaggi che non sono conformi al disciplinare della DOP «Parmigiano Reggiano» deve essere considerata, nella fattispecie, lesiva della tutela riconosciuta dall’art. 13, n. 1, lett. b), del regolamento n. 2081/92”. Tuttavia, la Corte di Giustizia ha ritenuto che la Commissione, a propria volta, “non ha dimostrato che la Germania, rifiutando formalmente di perseguire come illecito l’impiego nel suo territorio della denominazione «parmesan» nell’etichettatura di prodotti non corrispondenti al disciplinare della DOP «Parmigiano Reggiano», è venuta meno agli obblighi che le incombono in forza dell’art. 13, n. 1, lett. b), del regolamento n. 2081/92”. E’ vero infatti, secondo la Commissione che “non è in discussione che l’ordinamento giuridico tedesco dispone di strumenti giuridici, come le disposizioni legislative menzionate al punto 63 della presente sentenza, per assicurare una tutela effettiva dei diritti che i singoli traggono dal regolamento n. 2081/92. Non è in discussione neppure che la possibilità di impugnare ogni comportamento idoneo a ledere i diritti derivanti da una DOP non è riservata al solo utilizzatore legittimo della stessa, ma è, al contrario, aperta ai concorrenti, alle associazioni di imprese e alle associazioni di consumatori”.

 

Corte di Giustizia CE
Sentenza 26/02/2008 La denominazione Parmesan vale solo per i prodotti DOP Inadempimento di uno Stato – Regolamento (CEE) n. 2081/92 – Protezione delle indicazioni geografiche e delle denominazioni d’origine dei prodotti agricoli ed alimentari – Formaggio “Parmigiano Reggiano” – Uso della denominazione “parmesan” – Obbligo di uno Stato membro di sanzionare d’ufficio l’uso illegittimo di una denominazione d’origine protetta

 

Grande Sezione Nella causa C‑132/05, avente ad oggetto un ricorso per inadempimento ai sensi dell’art. 226 CE, proposto il 21 marzo 2005, Commissione delle Comunità europee, rappresentata dal sig. E. de March, dalla sig.ra S. Grünheid e dal sig. B. Martenczuk, in qualità di agenti, con domicilio eletto in Lussemburgo, ricorrente, sostenuta da: Repubblica ceca, rappresentata dal sig. T. Boček, in qualità di agente, Repubblica italiana, rappresentata dal sig. I.M. Braguglia, in qualità di agente, assistito dal sig. G. Aiello, avvocato dello Stato, con domicilio eletto in Lussemburgo, intervenienti, contro Repubblica federale di Germania, rappresentata dai sigg. M. Lumma e A. Dittrich, in qualità di agenti, assistiti dall’avv. M. Loschelder, Rechtsanwalt, convenuta, sostenuta da: Regno di Danimarca, rappresentato dal sig. J. Molde, in qualità di agente, con domicilio eletto in Lussemburgo, Repubblica d’Austria, rappresentata dal sig. E. Riedl, in qualità di agente, con domicilio eletto in Lussemburgo, intervenienti, LA CORTE (Grande Sezione), composta dal sig. V. Skouris, presidente, dai sigg. C.W.A. Timmermans, A. Rosas, K. Lenaerts e U. Lõhmus, presidenti di sezione, dai sigg. J.N. Cunha Rodrigues (relatore), K. Schiemann, P. Kūris, E. Juhász, E. Levits e A. Ó Caoimh, giudici, avvocato generale: sig. J. Mazák cancelliere: sig. B. Fülöp, amministratore vista la fase scritta del procedimento e in seguito alla trattazione orale del 13 febbraio 2007, sentite le conclusioni dell’avvocato generale, presentate all’udienza del 28 giugno 2007, ha pronunciato la seguente Sentenza 1 Con il ricorso in esame la Commissione delle Comunità europee chiede alla Corte di dichiarare che la Repubblica federale di Germania, rifiutando formalmente di perseguire come illecito l’impiego nel suo territorio della denominazione «parmesan» nell’etichettatura di prodotti non corrispondenti al disciplinare della denominazione d’origine protetta (in prosieguo: la «DOP») «Parmigiano Reggiano», favorendo così l’usurpazione da parte di terzi della notorietà di cui gode il prodotto autentico, tutelato a livello comunitario, è venuta meno agli obblighi che le incombono in forza dell’art. 13, n. 1, lett. b), del regolamento (CEE) del Consiglio 14 luglio 1992, n. 2081, relativo alla protezione delle indicazioni geografiche e delle denominazioni d’origine dei prodotti agricoli ed alimentari (GU L 208, pag. 1). Contesto normativo 2 Il regolamento n. 2081/92 istituisce una protezione comunitaria delle denominazioni d’origine e delle indicazioni geografiche dei prodotti agricoli ed alimentari. 3 L’art. 2 del regolamento n. 2081/92 dispone quanto segue: «1. La protezione comunitaria delle denominazioni d’origine e delle indicazioni geografiche dei prodotti agricoli ed alimentari è ottenuta conformemente al presente regolamento. 2. Ai fini del presente regolamento si intende per: a) “denominazione d’origine”: il nome di una regione, di un luogo determinato o, in casi eccezionali, di un paese che serve a designare un prodotto agricolo o alimentare – originario di tale regione, di tale luogo determinato o di tale paese e – la cui qualità o le cui caratteristiche siano dovute essenzialmente o esclusivamente all’ambiente geografico comprensivo dei fattori naturali ed umani e la cui produzione, trasformazione ed elaborazione avvengano nell’area geografica delimitata; (…)». 4 L’art. 3, n. 1, di tale regolamento è così formulato: «Le denominazioni divenute generiche non possono essere registrate. Ai fini del presente regolamento, si intende per “denominazione divenuta generica” il nome di un prodotto agricolo o alimentare che, pur collegato col nome del luogo o della regione in cui il prodotto agricolo o alimentare è stato inizialmente ottenuto o commercializzato, è divenuto, nel linguaggio corrente, il nome comune di un prodotto agricolo o alimentare. Per determinare se una denominazione sia divenuta generica o meno, si tiene conto di tutti i fattori, in particolare: – della situazione esistente nello Stato membro in cui il nome ha la sua origine e nelle zone di consumo, – della situazione esistente in altri Stati membri, – delle pertinenti legislazioni nazionali o comunitarie. (…)». 5 Ai sensi dell’art. 4, n. 2, lett. g), del regolamento n. 2081/92, il disciplinare comprende almeno «i riferimenti relativi alle strutture di controllo previste all’articolo 10». 6 L’art. 5, nn. 3 e 4, di tale regolamento recita: «3. La domanda di registrazione include segnatamente il disciplinare di cui all’articolo 4. 4. La domanda di registrazione è inviata allo Stato membro sul cui territorio è situata l’area geografica». 7 L’art. 10 del detto regolamento così dispone: «1. Gli Stati membri provvedono a che entro sei mesi dall’entrata in vigore del presente regolamento vi siano strutture di controllo aventi il compito di garantire che i prodotti agricoli e alimentari recanti una denominazione protetta rispondano ai requisiti del disciplinare. 2. La struttura di controllo può essere composta da una o più autorità di controllo designate e/o da uno o più organismi privati autorizzati a tal fine dallo Stato membro. Gli Stati membri comunicano alla Commissione l’elenco delle autorità e/o degli organismi autorizzati, nonché le loro rispettive competenze. La Commissione pubblica queste informazioni nella Gazzetta ufficiale delle Comunità europee. 3. Le autorità di controllo designate e/o gli organismi privati devono offrire garanzie sufficienti di obiettività e di imparzialità nei confronti di ogni produttore o trasformatore soggetto al controllo e disporre permanentemente degli esperti e dei mezzi necessari per assicurare i controlli dei prodotti agricoli e dei prodotti alimentari recanti una denominazione protetta. Se la struttura di controllo si avvale, per taluni controlli, di un organismo terzo, quest’ultimo deve offrire le stesse garanzie. Tuttavia, le autorità di controllo designate e/o gli organismi privati autorizzati sono […] responsabili, nei confronti dello Stato membro, della totalità dei controlli. A decorrere dal 1° gennaio 1998, per ottenere l’autorizzazione dello Stato membro ai fini del presente regolamento, gli organismi devono adempiere le condizioni stabilite nella norma EN 45011, del 26 giugno 1989. 4. Qualora constatino che un prodotto agricolo o alimentare recante una denominazione protetta originaria del suo Stato membro non risponde ai requisiti del disciplinare, le autorità di controllo designate e/o gli organismi privati di uno Stato membro prendono i necessari provvedimenti per assicurare il rispetto del presente regolamento. (…) 5. Qualora le condizioni di cui ai paragrafi 2 e 3 non siano più soddisfatte, lo Stato membro revoca l’autorizzazione dell’organismo di controllo. Esso ne informa la Commissione che pubblica nella Gazzetta ufficiale delle Comunità europee un elenco riveduto degli organismi autorizzati. 6. Gli Stati membri adottano le misure necessarie per garantire che il produttore che rispetta il presente regolamento abbia accesso al sistema di controllo. 7. I costi dei controlli previsti dal presente regolamento sono sostenuti dai produttori che utilizzano la denominazione protetta». 8 Ai sensi dell’art. 13 del medesimo regolamento: «1. Le denominazioni registrate sono tutelate contro: (…) b) qualsiasi usurpazione, imitazione o evocazione, anche se l’origine vera del prodotto è indicata o se la denominazione protetta è una traduzione o è accompagnata da espressioni quali “genere”, “tipo”, “metodo”, “alla maniera”, “imitazione” o simili; (…) Se una denominazione registrata contiene la denominazione di un prodotto agricolo o alimentare che è considerata generica, l’uso di questa denominazione generica per il prodotto agricolo o alimentare appropriato non è contrario al primo comma, lettera a) o b). (…) 3. Le denominazioni protette non possono diventare generiche». 9 Ai sensi dell’art. 2 del regolamento (CE) della Commissione 12 giugno 1996, n. 1107, relativo alla registrazione delle indicazioni geografiche e delle denominazioni di origine nel quadro della procedura di cui all’articolo 17 del regolamento (…) n. 2081/92 (GU L 148, pag. 1), nonché della parte A dell’allegato di tale regolamento, la denominazione «Parmigiano Reggiano» costituisce una DOP a decorrere dal 21 giugno 1996. Fase precontenziosa 10 In seguito alla denuncia sporta da vari operatori economici, la Commissione chiedeva alle autorità tedesche, con lettera 15 aprile 2003, di impartire chiare istruzioni agli organismi pubblici incaricati di perseguire le frodi affinché ponessero fine alla commercializzazione nel territorio tedesco di prodotti denominati «parmesan» non conformi al disciplinare della DOP «Parmigiano Reggiano». Secondo la Commissione, il termine «parmesan» era la traduzione della DOP «Parmigiano Reggiano» e il suo uso costituiva perciò una violazione dell’art. 13, n. 1, lett. b), del regolamento n. 2081/92. 11 La Repubblica federale di Germania rispondeva, con lettera 13 maggio 2003, che il termine «parmesan», se pure storicamente legato alla regione di Parma, era divenuto una denominazione generica per formaggi a pasta dura di varia provenienza geografica, grattugiati o da grattugiare, distinguendosi dalla DOP «Parmigiano Reggiano». Pertanto, l’uso di tale termine non integrerebbe una violazione del regolamento n. 2081/92. 12 Il 17 ottobre 2003 la Commissione inviava una lettera di diffida alla Repubblica federale di Germania cui quest’ultima rispondeva con lettera del 17 dicembre 2003. 13 La Commissione, non essendo soddisfatta delle spiegazioni ricevute dalla Repubblica federale di Germania, il 30 marzo 2004 emetteva un parere motivato, invitando tale Stato membro ad adottare le misure necessarie a conformarvisi entro due mesi dalla notifica. 14 Con lettera 15 giugno 2004 la Repubblica federale di Germania comunicava alla Commissione di voler mantenere la posizione precedentemente espressa. 15 In tale contesto, la Commissione ha deciso di proporre il presente ricorso. Sul ricorso 16 Con ordinanza del presidente della Corte 6 settembre 2005 la Repubblica italiana, da un lato, e il Regno di Danimarca nonché la Repubblica d’Austria, dall’altro, sono stati ammessi ad intervenire a sostegno delle conclusioni, rispettivamente, della Commissione e della Repubblica federale di Germania. 17 Con ordinanza del presidente della Corte 15 maggio 2006 la Repubblica ceca è stata ammessa ad intervenire a sostegno delle conclusioni della Commissione. 18 A sostegno del ricorso la Commissione deduce una sola censura, relativa al rifiuto, da parte della Repubblica federale di Germania, di perseguire come illecito l’impiego nel suo territorio della denominazione «parmesan» nell’etichettatura di prodotti non corrispondenti al disciplinare della DOP «Parmigiano Reggiano». 19 La Repubblica federale di Germania contesta l’inadempimento sulla base di tre ordini di motivi: – in primo luogo, una denominazione d’origine è protetta ai sensi dell’art. 13 del regolamento n. 2081/92 solo nella forma precisa in cui è registrata; – in secondo luogo, l’uso della parola «parmesan» non è in contrasto con la tutela garantita alla denominazione d’origine «Parmigiano Reggiano» e – in terzo luogo, essa non è tenuta a perseguire d’ufficio le violazioni del detto art. 13. Quanto alla protezione delle denominazioni composte 20 La Commissione sostiene che il sistema di tutela comunitaria è retto dal principio secondo cui la registrazione di una denominazione contenente più termini conferisce la tutela del diritto comunitario sia ai singoli elementi costitutivi della denominazione composta sia all’intera denominazione composta. L’effettiva tutela delle denominazioni composte implicherebbe, quindi, che, in linea di principio, tutti gli elementi costitutivi di una denominazione composta siano protetti contro utilizzazioni abusive. La Commissione ritiene che, per garantire tale tutela, il regolamento n. 2081/92 non richieda la registrazione di ognuno dei singoli elementi di una denominazione composta suscettibili di tutela, ma presupponga che ogni singolo elemento sia intrinsecamente protetto. Un’interpretazione del genere avrebbe trovato riscontro nella sentenza della Corte 9 giugno 1998, cause riunite C‑129/97 e C‑130/97, Chiciak e Fol (Racc. pag. I‑3315). 21 La Commissione osserva che il principio della protezione di tutti gli elementi costitutivi di una denominazione composta ammette un’unica eccezione, prevista all’art. 13, n. 1, secondo comma, del regolamento n. 2081/92: l’utilizzazione di un singolo elemento di una denominazione composta non è contraria all’art. 13, n. 1, lett. a) e b), del detto regolamento, quando tale elemento è la denominazione di un prodotto agricolo o alimentare considerata denominazione generica. Orbene, questa disposizione sarebbe superflua se si dovesse ritenere che i singoli elementi costitutivi di denominazioni registrate unicamente come denominazioni composte non siano in alcun modo tutelati. 22 Un elemento costitutivo di una denominazione utilizzato isolatamente non beneficerebbe della protezione concessa dal regolamento n. 2081/92 anche qualora gli Stati membri interessati, nel comunicare la denominazione composta in oggetto, abbiano dichiarato di non richiedere la tutela per certe parti di tale denominazione. 23 La Commissione avrebbe tenuto conto [di tale dichiarazione] al momento dell’adozione del regolamento n. 1107/96 precisando, eventualmente, in una nota a piè di pagina, che non era richiesta tutela per una parte della denominazione composta. 24 Nel caso della denominazione «Parmigiano Reggiano» nessuno dei due elementi costitutivi sarebbe stato menzionato in una nota a piè di pagina. 25 La Repubblica federale di Germania replica che una DOP beneficia della tutela ex art. 13 del regolamento n. 2081/92 solo nella forma precisa in cui è registrata. Contrariamente a quanto sostenuto dalla Commissione, non si può trarre una conclusione di segno opposto dalla citata sentenza Chiciak e Fol. 26 Inoltre, nell’ambito della controversia decisa con sentenza 25 giugno 2002, causa C‑66/00, Bigi (Racc. pag. I‑5917), la stessa Repubblica italiana avrebbe espressamente confermato di aver rinunciato alla registrazione della denominazione «Parmigiano». In tale contesto, in mancanza di registrazione, tale denominazione non rientrerebbe nell’ambito di tutela del diritto comunitario. 27 A tale proposito, dall’ottavo ‘considerando’ del regolamento n. 1107/96 risulta «che alcuni Stati membri hanno fatto presente che per talune parti delle denominazioni la protezione non era richiesta e che è opportuno tenerne conto». 28 Il regolamento n. 1107/96 precisa, rinviando alle note a piè di pagina del suo allegato, in quali casi non è stata richiesta la tutela di una parte della denominazione considerata. 29 Si deve osservare, tuttavia, che l’inesistenza di una dichiarazione nel senso che, per talune componenti di una denominazione, la tutela conferita dall’art. 13 del regolamento n. 2081/92 non è stata richiesta non può costituire un argomento sufficiente per determinare l’ampiezza di tale protezione (v., in tal senso, sentenza Chiciak e Fol, cit., punto 37). 30 Nel sistema di protezione istituito mediante il regolamento n. 2081/92 le questioni relative alla protezione da accordare ai singoli elementi di una denominazione, e segnatamente quelle relative all’eventualità che si tratti di un nome generico o di un elemento protetto contro le prassi oggetto dell’art. 13 del detto regolamento, rientrano nella competenza del giudice nazionale, che le risolverà in base ad un’analisi approfondita del contesto fattuale quale ricostruito ed illustrato dagli interessati (sentenza Chiciak e Fol, cit., punto 38). 31 In tale contesto non può avere fortuna l’argomento della Repubblica federale di Germania secondo cui una DOP beneficia della tutela ex art. 13 del regolamento n. 2081/92 solo nella forma precisa in cui è registrata. Quanto al pregiudizio arrecato alla DOP «Parmigiano Reggiano» 32 Secondo la Commissione, la commercializzazione di formaggi denominati «parmesan» non conformi al disciplinare della DOP «Parmigiano Reggiano» costituisce una violazione dell’art. 13, n. 1, lett. b), del regolamento n. 2081/92 perché il termine «parmesan» è la traduzione esatta della DOP «Parmigiano Reggiano». La traduzione, al pari della DOP nella lingua dello Stato membro che ne ha ottenuto la registrazione, sarebbe riservata esclusivamente ai prodotti conformi al disciplinare. 33 La Commissione aggiunge che, come dimostra lo stretto legame, attestato dagli sviluppi storici, tra la particolare regione geografica d’Italia dalla quale proviene tale tipo di formaggio e il termine «parmesan», quest’ultimo non è una denominazione generica distinguibile dalla DOP «Parmigiano Reggiano». 34 In ogni caso, l’uso della denominazione «parmesan» per un formaggio non conforme al disciplinare della DOP «Parmigiano Reggiano» costituirebbe un’evocazione di tale denominazione, vietata dall’art. 13, n. 1, lett. b), del regolamento n. 2081/92. 35 La Commissione afferma altresì che il termine «parmesan» non è divenuto una denominazione generica. 36 Naturalmente, una denominazione geografica potrebbe, nel tempo e attraverso l’uso, diventare una denominazione generica, nel senso che il consumatore potrebbe giungere a considerarla indicazione di un certo tipo di prodotto piuttosto che dell’origine geografica del prodotto stesso. Tale slittamento di senso si sarebbe verificato in particolare nel caso delle denominazioni «Camembert» e «Brie». 37 La Commissione prosegue affermando che il termine «parmesan» non ha mai perso la sua connotazione geografica. Infatti, se «parmesan» fosse realmente un termine neutro privo di tale connotazione, non vi sarebbero spiegazioni plausibili all’ostinazione dei produttori di imitazioni a stabilire con parole o con immagini un nesso tra i loro prodotti e l’Italia. 38 Inoltre, secondo la Commissione, il fatto che fino al 2000 venisse prodotto sul territorio italiano un formaggio denominato «parmesan» non conforme al disciplinare della DOP «Parmigiano Reggiano» non significa che il termine costituisca una denominazione generica, in Italia, per formaggi a pasta dura di origine diversa, dato che quel formaggio era destinato unicamente all’esportazione verso paesi in cui il termine «parmesan» non fruiva di alcuna protezione particolare, conformemente al principio di territorialità. D’altronde, la denominazione d’origine «Parmigiano Reggiano» è stata protetta a livello comunitario solo a partire dal 21 giugno 1996, data in cui è entrato in vigore il regolamento n. 1107/96. 39 La Repubblica federale di Germania afferma che l’uso del termine «parmesan» non costituisce una violazione dell’art. 13, n. 1, lett. b), del regolamento n. 2081/92 dato che, già secondo la Commissione, rappresenterebbe solo la traduzione della parola «Parmigiano» che è una denominazione generica, come dimostrano la situazione in Italia e in altri Stati membri nonché le normative nazionali e comunitaria. Tale termine, in quanto denominazione generica, non potrebbe beneficiare della tutela del detto regolamento. 40 In subordine, la Repubblica federale di Germania sostiene che, anche supponendo che il termine «Parmigiano» non sia una denominazione generica e che, pertanto, non si applichino a tale elemento costitutivo le disposizioni dell’art. 13, n. 1, secondo comma, del regolamento n. 2081/92, l’uso del termine «parmesan» non integra una violazione delle disposizioni relative alla tutela della denominazione d’origine «Parmigiano Reggiano». Il nome «parmesan» avrebbe subito un’evoluzione secolare a sé stante e sarebbe divenuto, in Germania, come pure in altri Stati membri, una denominazione generica. Il suo uso non costituirebbe dunque né un’usurpazione né un’evocazione della DOP «Parmigiano Reggiano». 41 A suffragio di tale tesi la Repubblica federale di Germania invoca, in primo luogo, il paragrafo 35 delle conclusioni dell’avvocato generale Ruiz-Jarabo Colomer nella causa C‑317/95, definita dall’ordinanza 8 agosto 1997, Canadane Cheese Trading e Kouri (Racc. pag. I‑4681); in secondo luogo, la citata sentenza Bigi, dove la Corte ha espressamente lasciato insoluta la questione se il termine «parmesan» costituisca un nome generico, e, in terzo luogo, il fatto che non è sufficiente constatare che il nome di un prodotto è la traduzione di una denominazione di origine. Occorrerebbe verificare di volta in volta se tale traduzione evochi effettivamente la denominazione di cui trattasi. Non la evocherebbe nell’ipotesi in cui la denominazione controversa, pur essendo inizialmente una traduzione, abbia assunto col tempo un altro significato nell’accezione corrente dei consumatori, divenendo in tal modo una denominazione generica. In quarto luogo, il detto Stato membro si appella al fatto che in Germania, unico Stato membro in cui la valutazione della genericità del termine «parmesan» è decisiva, visto il presente procedimento per inadempimento, il termine «parmesan» è considerato da sempre la denominazione generica di un formaggio a pasta dura grattugiato o da grattugiare. Ciò varrebbe, del resto, anche in altri Stati membri, Italia compresa. 42 Occorre anzitutto stabilire se, rispetto alla DOP «Parmigiano Reggiano», l’uso della denominazione «parmesan» rientri in uno dei casi contemplati dall’art. 13, n. 1, del regolamento n. 2081/92. 43 A tale proposito giova ricordare che, in forza dell’art. 13, n. 1, lett. b), del detto regolamento, le denominazioni registrate sono tutelate, in particolare, contro qualsiasi usurpazione, imitazione o evocazione, anche se l’origine vera del prodotto è indicata o se la denominazione protetta è una traduzione. 44 In merito all’evocazione di una DOP, la Corte ha stabilito che tale nozione si riferisce all’ipotesi in cui il termine utilizzato per designare un prodotto incorpori una parte di una denominazione protetta, di modo che il consumatore, in presenza del nome del prodotto, sia indotto ad aver in mente, come immagine di riferimento, la merce che fruisce della denominazione (sentenza 4 marzo 1999, causa C‑87/97, Consorzio per la tutela del formaggio Gorgonzola, Racc. pag. I‑1301, punto 25). 45 La Corte ha precisato che può esservi evocazione di una DOP in mancanza di qualunque rischio di confusione tra i prodotti di cui è causa e anche quando nessuna tutela comunitaria si applichi agli elementi della denominazione di riferimento ripresi dalla terminologia controversa (sentenza Consorzio per la tutela del formaggio Gorgonzola, cit., punto 26). 46 Nella presente causa sussistono analogie fonetiche ed ottiche fra le denominazioni «parmesan» e «Parmigiano Reggiano» in un contesto in cui i prodotti di cui è causa sono formaggi a pasta dura, grattugiati o da grattugiare, cioè simili nel loro aspetto esterno (v., in tal senso, sentenza Consorzio per la tutela del formaggio Gorgonzola, cit., punto 27). 47 Peraltro, che la denominazione «parmesan» sia o meno la traduzione esatta della DOP «Parmigiano Reggiano» o del termine «Parmigiano», si deve tener conto anche della somiglianza concettuale tra tali due termini, pur di lingue diverse, testimoniata dal dibattito dinanzi alla Corte. 48 Tale somiglianza, come già le somiglianze fonetiche e ottiche rilevate al punto 46 della presente sentenza, è idonea ad indurre il consumatore a prendere come immagine di riferimento il formaggio recante la DOP «Parmigiano Reggiano» quando si trova dinanzi ad un formaggio a pasta duro, grattugiato o da grattugiare, recante la denominazione «parmesan». 49 In tale contesto, l’uso della denominazione «parmesan» dev’essere considerato un’evocazione della DOP «Parmigiano Reggiano» ai sensi dell’art. 13, n. 1, lett. b), del regolamento n. 2081/92. 50 Sapere se la denominazione «parmesan» sia la traduzione della DOP «Parmigiano Reggiano» è quindi irrilevante ai fini dell’esame del presente ricorso. 51 La Repubblica federale di Germania sostiene, tuttavia, che, siccome la denominazione «parmesan» è divenuta una denominazione generica, utilizzarla non equivale ad evocare illecitamente la DOP «Parmigiano Reggiano». 52 Spettava alla Repubblica federale di Germania dimostrare la fondatezza di tale argomento, tanto più che la Corte ha già affermato che è tutt’altro che evidente che la denominazione «parmesan» sia divenuta generica (sentenza Bigi, cit., punto 20). 53 Nel valutare la genericità di una denominazione occorre prendere in considerazione, conformemente all’art. 3, n. 1, del regolamento n. 2081/92, i luoghi di produzione del prodotto considerato sia all’interno sia al di fuori dello Stato membro che ha ottenuto la registrazione della denominazione in oggetto, il consumo di tale prodotto e il modo in cui viene percepita dai consumatori la sua denominazione all’interno e al di fuori del detto Stato membro, l’esistenza di una normativa nazionale specifica relativa al detto prodotto, nonché il modo in cui la detta denominazione è stata utilizzata nella legislazione comunitaria (v. sentenza 25 ottobre 2005, cause riunite C‑465/02 e C‑466/02, Germania e Danimarca/Commissione, Racc. pag. I‑9115, punti 76‑99). 54 Orbene, come ha rilevato l’avvocato generale ai paragrafi 63 e 64 delle conclusioni, la Repubblica federale di Germania si è limitata a produrre citazioni tratte da dizionari e da letteratura specializzata che non offrono un quadro completo del modo in cui il termine «parmesan» è percepito dai consumatori in Germania e in altri Stati membri, e non ha presentato neppure dati relativi alla produzione o al consumo del formaggio commercializzato con la denominazione «parmesan» in Germania o in altri Stati membri. 55 Inoltre, dalla documentazione sottoposta alla Corte risulta che in Germania alcuni produttori di formaggio recante la denominazione «parmesan» commercializzano tale prodotto con etichette che richiamano tradizioni culturali e paesaggi italiani. È legittimo dedurne che i consumatori in tale Stato membro percepiscono il formaggio «parmesan» come un formaggio associato all’Italia anche se, in realtà, è stato prodotto in un altro Stato membro (v., in tal senso, sentenza Germania e Danimarca/Commissione, cit., punto 87). 56 All’udienza, infine, la Repubblica federale di Germania non ha fornito informazioni neppure sulle quantità di formaggio prodotto in Italia con la DOP «Parmigiano Reggiano» importate in Germania, non permettendo così alla Corte di avvalersi dei dati relativi al consumo di tale formaggio per concludere in ordine alla genericità o meno della denominazione «parmesan» (v., in tal senso, sentenza Germania e Danimarca/Commissione, cit., punto 88). 57 Ne consegue che, non avendo la Repubblica federale di Germania dimostrato che la denominazione «parmesan» riveste carattere generico, l’utilizzazione del termine «parmesan» per formaggi che non sono conformi al disciplinare della DOP «Parmigiano Reggiano» deve essere considerata, nella fattispecie, lesiva della tutela riconosciuta dall’art. 13, n. 1, lett. b), del regolamento n. 2081/92. Quanto all’obbligo della Repubblica federale di Germania di perseguire le violazioni dell’art. 13, n. 1, del regolamento n. 2081/92 58 La Commissione fa valere che la Repubblica federale di Germania è tenuta, ai sensi degli artt. 10 e 13 del regolamento n. 2081/92, a prendere d’ufficio le misure necessarie per reprimere i comportamenti lesivi delle DOP. A suo avviso, l’intervento degli Stati membri comprende, sui piani amministrativo e penale, misure atte a permettere la realizzazione degli obiettivi di tale regolamento in materia di protezione delle denominazioni d’origine. I prodotti non conformi alle prescrizioni del regolamento non potrebbero essere messi in circolazione. 59 La Commissione precisa che le sue censure non riguardano né la normativa tedesca né una qualsivoglia impossibilità di ricorso dinanzi ai tribunali nazionali, bensì la prassi amministrativa delle autorità tedesche in contrasto con la legislazione comunitaria. Se gli Stati membri fossero sollevati dal loro obbligo di intervento e se, quindi, i singoli operatori economici dovessero agire in giudizio ogniqualvolta venga violato il loro diritto d’uso esclusivo della DOP sull’intero territorio dell’Unione europea, gli obiettivi del regolamento n. 2081/92 non potrebbero essere raggiunti. 60 Sempre secondo la Commissione, in una causa che oppone operatori economici privati, il punto centrale è che siano rispettati i diritti di proprietà intellettuale di cui godono i produttori stabiliti nella regione d’origine del prodotto in questione, laddove la repressione da parte dei poteri pubblici delle infrazioni all’art. 13 del regolamento n. 2081/92 è volta a tutelare non interessi economici privati, bensì i consumatori, le cui aspettative quanto a qualità e ad origine geografica del prodotto non devono essere deluse. La tutela dei consumatori perseguita dal regolamento sarebbe compromessa se l’attuazione dei divieti previsti dallo stesso fosse rimessa integralmente all’iniziativa processuale degli operatori economici privati. 61 La Commissione conclude che il comportamento della Repubblica federale di Germania deve essere assimilato ad una violazione per omissione del diritto comunitario. 62 Da parte sua, la Repubblica federale di Germania sostiene che l’art. 13 del regolamento n. 2081/92 definisce l’ambito d’applicazione della protezione delle indicazioni geografiche e delle denominazioni d’origine registrate. Dato l’effetto diretto del regolamento, tale articolo sarebbe idoneo a conferire ai titolari o agli utilizzatori legittimi delle DOP diritti che le giurisdizioni nazionali hanno l’obbligo di tutelare. 63 L’applicabilità diretta del regolamento n. 2081/92 non dispenserebbe gli Stati membri dall’obbligo di adottare misure nazionali che permettano di assicurare la sua attuazione. La Repubblica federale di Germania avrebbe adottato, in ogni caso, numerose disposizioni legislative atte a contrastare l’uso illecito delle DOP, in particolare la legge sulla lotta alla concorrenza sleale (Gesetz gegen den unlauteren Wettbewerb), del 7 giugno 1909, e la legge relativa alla tutela dei marchi e di altri segni distintivi (Gesetz über den Schutz von Marken und sonstigen Kennzeichen), del 25 ottobre 1994 (BGBl. 1994 I, pag. 3085). 64 Non solo. La possibilità di impugnare ogni comportamento lesivo dei diritti derivanti da una DOP non sarebbe riservata al solo titolare della medesima. Al contrario, essa sarebbe aperta ai concorrenti, alle associazioni d’imprese e alle associazioni dei consumatori. L’ampia cerchia di soggetti legittimati a proporre ricorso già basterebbe a mostrare che le disposizioni in vigore nella Repubblica federale di Germania non si limitano ad offrire una tutela dei diritti di proprietà intellettuale propri dei produttori stabiliti nella regione d’origine del prodotto in questione. Esse creerebbero un sistema generale ed efficace atto ad impedire violazioni dell’art. 13 del regolamento n. 2081/92 e a sanzionarle efficacemente per via giudiziaria. 65 Riconoscendo questi diritti civili, la Repubblica federale di Germania avrebbe preso tutte le dovute misure per assicurare la piena e completa applicazione dell’art. 13, n. 1, del regolamento n. 2081/92. Non sarebbe necessario che le autorità pubbliche sanzionino d’ufficio, con misure di polizia amministrativa, le violazioni di tale disposizione, né lo imporrebbero gli artt. 10 e 13 del medesimo regolamento. Secondo la Repubblica federale di Germania, dal confronto tra le varie versioni linguistiche dell’art. 10, n. 4, del regolamento n. 2081/92 emerge che, data l’origine italiana della DOP «Parmigiano Reggiano», spetta al Consorzio del Formaggio Parmigiano Reggiano, e non agli organi di controllo tedeschi, verificare che la denominazione venga utilizzata in maniera conforme al disciplinare. 66 Se è vero – come considera la Commissione – che la sanzione inflitta dallo Stato membro interessato per le violazioni dell’art. 13 del regolamento n. 2081/92 deve assicurare la tutela non soltanto degli interessi economici privati, ma anche dei consumatori, nulla nel regolamento lascerebbe ritenere che, contrariamente a quanto accade per altri diritti di proprietà intellettuale o per disposizioni di tutela della concorrenza, per la protezione delle denominazioni d’origine i rimedi giurisdizionali non siano sufficienti. 67 La Repubblica federale di Germania fa valere, infine, che se, in Germania, l’uso della denominazione «parmesan» per prodotti non corrispondenti al disciplinare della DOP «Parmigiano Reggiano» non è oggetto di procedimenti d’ufficio né di sanzioni penali, ammesso che tale utilizzo integri una violazione dell’art. 13, n. 1, del regolamento n. 2081/92, è semplicemente perché essa ha rinunciato a modalità sanzionatorie che gli Stati membri possono, sì, prevedere, ma che allo stato attuale del diritto comunitario non sono tenute ad adottare. 68 A tale proposito occorre ricordare che la facoltà di cui godono i cittadini di far valere le disposizioni di un regolamento dinanzi ai giudici nazionali non dispensa gli Stati membri dall’adottare le misure interne che permettano di assicurarne la piena e completa applicazione qualora ciò si renda necessario (v., in particolare, sentenza 20 marzo 1986, causa 72/85, Commissione/Paesi Bassi, Racc. pag. 1219, punto 20). 69 Non è in discussione che l’ordinamento giuridico tedesco dispone di strumenti giuridici, come le disposizioni legislative menzionate al punto 63 della presente sentenza, per assicurare una tutela effettiva dei diritti che i singoli traggono dal regolamento n. 2081/92. Non è in discussione neppure che la possibilità di impugnare ogni comportamento idoneo a ledere i diritti derivanti da una DOP non è riservata al solo utilizzatore legittimo della stessa, ma è, al contrario, aperta ai concorrenti, alle associazioni di imprese e alle associazioni di consumatori. 70 Se ne desume che una normativa siffatta è idonea a garantire la tutela di interessi diversi da quelli dei produttori dei beni protetti da una DOP, segnatamente: gli interessi dei consumatori. 71 All’udienza, la Repubblica federale di Germania ha del resto indicato che a quella data erano in corso dinanzi ai giudici tedeschi procedimenti relativi all’uso in Germania della denominazione «parmesan», uno dei quali avviato dal Consorzio del Formaggio Parmigiano Reggiano. 72 Per quanto riguarda la censura della Commissione vertente sull’obbligo degli Stati membri di adottare d’ufficio le misure necessarie a perseguire la violazione dell’art. 13, n. 1, del detto regolamento, occorre considerare quanto segue. 73 Innanzi tutto, un obbligo del genere non deriva dall’art. 10 del regolamento n. 2081/92. 74 Vero è che, per assicurare l’efficacia delle disposizioni del regolamento n. 2081/92, l’art. 10, n. 1, prevede che gli Stati membri provvedano a che entro sei mesi dall’entrata in vigore del regolamento siano predisposte strutture di controllo. Essi sono dunque tenuti a creare tali strutture. 75 Tuttavia, l’art. 10, n. 4, del regolamento n. 2081/92, disponendo che «[q]ualora constatino che un prodotto agricolo o alimentare recante una denominazione protetta originaria del suo Stato membro non risponde ai requisiti del disciplinare, le autorità di controllo designate e/o gli organismi privati di uno Stato membro prendono i necessari provvedimenti per assicurare il rispetto del presente regolamento (…)», indica che le autorità di controllo designate e/o gli organismi privati di uno Stato membro sono quelli dello Stato membro di provenienza della DOP. 76 Il fatto che, al n. 3, parli di «produttore o trasformatore soggetto al controllo», al n. 6, del diritto dei produttori all’accesso al sistema di controllo e, al n. 7, dell’obbligo dei produttori di sostenere i costi dei controlli, conferma che l’art. 10 del regolamento n. 2081/92 riguarda obblighi degli Stati membri da cui proviene la DOP. 77 Tale interpretazione è ulteriormente confortata dal combinato disposto degli artt. 4, n. 2, lett. g), e 5, nn. 3 e 4, del regolamento n. 2081/92 dal quale emerge che la domanda di registrazione deve includere il disciplinare, che tale domanda deve essere inviata allo Stato membro sul cui territorio è situata l’area geografica interessata e che il detto disciplinare deve contenere «i riferimenti relativi alle strutture di controllo previste all’articolo 10». 78 Ne consegue che gli organi di controllo cui incombe l’obbligo di assicurare il rispetto del disciplinare delle DOP sono quelli dello Stato membro da cui proviene la DOP medesima. Il controllo sul rispetto del disciplinare nell’uso della DOP «Parmigiano Reggiano» non compete quindi alle autorità di controllo tedesche. 79 È vero che l’art. 13, n. 1, lett. b), del regolamento n. 2081/92 prescrive la protezione delle denominazioni registrate contro qualsiasi «usurpazione, imitazione o evocazione, anche se l’origine vera del prodotto è indicata o se la denominazione protetta è una traduzione o è accompagnata da espressioni quali “genere”, “tipo”, “metodo”, “alla maniera”, “imitazione” o simili». 80 Nondimeno, da un lato, la Commissione non ha dimostrato che la Repubblica federale di Germania ha disatteso gli obblighi derivanti dal regolamento n. 2081/92 e, dall’altro, non ha presentato elementi nel senso che misure come quelle menzionate al punto 63 della presente sentenza non siano state adottate o non fossero idonee a tutelare la DOP «Parmigiano Reggiano». 81 Tutto ciò considerato, occorre dichiarare che la Commissione non ha dimostrato che la Repubblica federale di Germania, rifiutando formalmente di perseguire come illecito l’impiego nel suo territorio della denominazione «parmesan» nell’etichettatura di prodotti non corrispondenti al disciplinare della DOP «Parmigiano Reggiano», è venuta meno agli obblighi che le incombono in forza dell’art. 13, n. 1, lett. b), del regolamento n. 2081/92. 82 Pertanto, il ricorso della Commissione deve essere respinto. Sulle spese 83 A norma dell’art. 69, n. 2, del regolamento di procedura, la parte soccombente è condannata alle spese se ne è stata fatta domanda. Poiché la Repubblica federale di Germania ne ha fatto domanda, la Commissione, rimasta soccombente, deve essere condannata alle spese. Ai sensi del n. 4 del detto articolo, la Repubblica ceca, il Regno di Danimarca, la Repubblica italiana nonché la Repubblica d’Austria sopporteranno ciascuna le proprie spese. Per questi motivi, la Corte (Grande Sezione) dichiara e statuisce: 1) Il ricorso è respinto. 2) La Commissione delle Comunità europee è condannata alle spese. 3) La Repubblica ceca, il Regno di Danimarca, la Repubblica italiana nonché la Repubblica d’Austria sopporteranno ciascuna le proprie spese.

 

Lavoro, è possibile rinnovare il licenziamento

  Rinnovazione del licenziamento

Secondo la giurisprudenza dominante il licenziamento che presenti un vizio formale- procedurale, salvo rare eccezioni, è inidoneo ad incidere sulla continuità del rapporto, che quindi rimane giuridicamente in vita. Ciò comporta la possibilità per il datore di lavoro di rinnovare il licenziamento originariamente viziato, sulla base degli stessi motivi addotti in precedenza, rispettando però le prescritte formalità e modalità omesse nell’ intimazione del primo recesso. Ovviamente tale rinnovazione non potrà mai configurarsi come convalida volta a sanare con efficacia ex tunc i vizi che gravano il recesso già intimato, in quanto una simile previsione sarebbe contraria al principio generale sancito dall’art. 1423 cod. civ., il quale, rubricato “Inammissibilità della convalida”, prevede che «il contratto nullo non può essere convalidato, se la legge non dispone diversamente». Più semplicemente, allora, la rinnovazione costituirà un atto diverso dal precedente: un nuovo licenziamento che, seppur dovuto ai medesimi motivi del primo recesso, non presenta né i vizi né l’efficacia di quest’ultimo, essendo perfetto dal punto di vista formale e decorrendo ex nunc dal momento in cui è portato a conoscenza del lavoratore (così Cass., 6 novembre 2006, n. 23641, in Dir. mercato lav., 2006, 622, e, nella giurisprudenza di merito, Trib. Reggio Calabria, 26 aprile 2006, in Giur. merito, 2007, 2, 375). Si può dunque affermare che il successivo licenziamento basato sugli stessi motivi posti a fondamento del precedente ha, rispetto a quest’ultimo, una propria autonomia sia strutturale, non risolvendosi in un richiamo per relationem, sia funzionale, non essendo diretto a dare al precedente recesso un’efficacia ex tunc (R. TRIVELLINI, Rinnovazione del licenziamento e “rilicenziamento”, in Dir. e prat. lav., 2004, 2610). Vi è però un elemento, pur sempre inerente ai presupposti formali del licenziamento, che, per la sua natura irreversibile, non può essere rinnovato, e la cui mancanza in occasione del primo recesso determina automaticamente, oltre all’invalidità di questo, anche quella del successivo: si tratta della tempestività della contestazione dell’addebito, ovviamente in ipotesi di licenziamento di natura disciplinare. È intuitivo, infatti, che una contestazione non tempestiva in relazione al primo recesso, per l’ovvia difficoltà di ricordare fatti assai risalenti nel tempo, impedisca il pieno e corretto esercizio del diritto di difesa da parte del lavoratore, e che, essendo il secondo recesso cronologicamente successivo al primo, la rinnovata contestazione disciplinare non potrà che porsi ad una maggiore distanza temporale dai fatti contestati, essere intempestiva e viziare il nuovo licenziamento. Da ultimo, resta da considerare che pare ormai superato quell’orientamento giurisprudenziale, peraltro minoritario, secondo il quale la rinnovazione di un licenziamento viziato sotto il profilo formale sarebbe possibile soltanto in caso di avvenuta ricostituzione del rapporto di lavoro, conseguente alla revoca del precedente provvedimento (C. App. Roma, 28 maggio 2001, in Nuovo dir., 2001, 1004) o ad una pronuncia di invalidità da parte del giudice (Pret. Roma, 19 novembre 1997, in Giur. lav. Lazio, 1998, 198), in quanto il licenziamento reiterato prima di tale momento sarebbe nullo per inesistenza dell’oggetto. È invece pacifico che la rinnovazione del recesso in base agli stessi motivi sostanziali, ma con le dovute formalità, sia possibile anche se la questione della validità del primo recesso sia ancora sub iudice, giacché non è la persistenza di fatto del rapporto, bensì la sua esistenza giuridica a costituire il presupposto indispensabile per l’ intimazione di un secondo licenziamento. Naturalmente, se la rinnovazione interviene quando il primo recesso è ancora sub iudice, essa vale ad interrompere con efficacia ex nunc il rapporto che si verrebbe eventualmente a ricostituire per effetto della sentenza che rilevi l’invalidità, nonché a limitare i danni dovuti alle sole retribuzioni maturate tra il primo ed il secondo licenziamento.

 

Concorrenza sleale del dipendente e licenziamento

Corte di Cass. sentenza n. 18169 depositata il 10 agosto 2009

La Suprema Corte  è pervenuta alla conclusione che se un   dipendente fa concorrenza sleale in danno dell’azienda presso cui lavora, quest’ultima può licenziarlo senza la necessità del consueto preavviso. Secondo la ricostruzione fatta dagli ermellini, il lavoratore dopo il licenziamento aveva proposto ricorso al Tribunale di Udine sostenendo che il licenziamento era illegittimo perchè il datore di lavoro non gli aveva mandato il preavviso. Il lavoratore era risultato soccombente e aveva quindi proposto ricorso alla Corte d’Appello di Trieste che, a sua volta, aveva rigettato il ricorso del lavoratore, spiegando che dovevano ritenersi provati i fatti gravi a fondamento del licenziamento, per violazione dell’obbligo di fedeltà sancito sia dall’articolo 2015 del codice civile: il   dipendente  aveva svelato notizie sia tecniche che contabili sulle confezioni per alimenti  ad un diretto concorrente. “Secondo la costante giurisprudenza di legittimità, che il Collegio condivide – hanno affermato gli Ermellini – i comportamenti del lavoratore che costituiscano gravi violazioni dei suoi doveri fondamentali sono sanzionabili con il licenziamento disciplinare a prescindere dalla loro inclusione o meno tra le sanzioni previste dalla specifica regolamentazione disciplinare del rapporto e anche in difetto della pubblicazione del codice disciplinare, purchè siano osservate le garanzie previste dall’art.7, commi 2 e 3 della legge n. 300/1970”. Inoltre, visto che l’attuale ricorrente ha violato “un obbligo fondamentale, quale quello sancito dall’art.2105 cod. civ., poteva prescindersi dall’avvenuta affissione, o meno, del codice disciplinare, la sentenza impugnata ha pertanto applicato correttamente nella fattispecie i principi testè richiamati”.

Responsabilità da prodotto e onere della prova

I danni da responsabilità civile per prodotto difettoso sono in aumento per le aziende europee ed extraeuropee. In particolare in Italia è notevolmente aumentato il numero delle azioni di richiamo di prodotti difettosi dal mercato e delle sentenze a sfavore dei produttori, anche per effetto della entrata in vigore del Codice del Consumo (D. Lgs. n. 2 del 6 settembre 2005) che ha agevolato l’azione dei consumatori contro i produttori.

Alcuni casi recenti hanno evidenziato come una scorretta gestione di tali rischi possa risultare dannosa per l’azienda, sia in termini di danni economici diretti, relativi a costi d’intervento e richieste di risarcimento, sia in termini di danni indiretti quali il pregiudizio dell’immagine aziendale.

In un’ ottica di prevenzione dei rischi derivanti da prodotto difettoso gioverà segnalare i più recenti casi giurisprudenziali.

Casistica giurisprudenziale nazionale. Responsabilità da prodotto e onere della prova

Tribunale di Pontedera del 28/02/2011

 Questa pronuncia si segnala perché ha delineato in modo puntuale le regole in tema di ripartizione dell’onere probatorio, tra il consumatore e il produttore, nel caso in cui il primo lamenti un danno cagionatogli dal bene acquistato. Il caso è quello di un motociclista rimasto gravemente ustionato a seguito all’esplosione del serbatoio del proprio scooter in occasione di un sinistro stradale. Il motociclista sosteneva che l’intrinseca insicurezza e difettosità del prodotto (nella fattispecie il serbatoio) sarebbe stata l’unica causa dell’incidente e diretta conseguenza di un difetto di progettazione del medesimo. La casa produttrice convenuta, dal canto suo, nel tentativo di offrire la prova liberatoria contestava essenzialmente la condotta del conducente al momento del sinistro, indicandola quale causa esclusiva dell’evento dannoso occorso. Il giudice pisano in conformità alle recenti pronunce dei Tribunali nazionali in tema di product liability ha disposto che “…Quando il danneggiato ha dato prova dell’insicurezza del prodotto, si presume iuris tantum la responsabilità del produttore e spetta a quest’ultimo la prova della scorrettezza o dell’anomalia del comportamento del consumatore nell’utilizzazione del prodotto al fine di escludere il carattere originario del difetto”. Pertanto, non avendo il produttore fornito adeguata prova liberatoria, dimostrando l’anomalia del comportamento del consumatore, è stato condannato al risarcimento dei danni subìti dal motociclista.

Imposta di successione, immobili trasferiti entro gli ultimi sei mesi di vita del de cuius

Corte di Cassazione, sent. 12169 del 26 maggio 2009

Con   la sentenza  che si annota, la Corte di cassazione, intervenendo su una problematica sorta in tema di successione mortis causa circa il trattamento fiscale dei beni immobili alienati durante gli ultimi sei mesi di vita del de cuius, accoglie il ricorso dell’Amministrazione finanziaria, stabilendo che deve considerarsi compreso nell’attivo ereditario il valore dei beni o dei diritti trasferiti a terzi, a titolo oneroso, nel semestre anteriore alla morte del dante causa, e non già il corrispettivo pattuito o ricavato dal relativo negozio traslativo.

Con contestuale atto di cessione e vitalizio una contribuente aveva ceduto a due nipoti, in parti uguali pro indiviso, la nuda proprietà di determinati immobili, riservandosi l’usufrutto sugli stessi vita natural durante, mentre le acquirenti, a fronte di detta cessione, si obbligavano a corrispondere alla venditrice una rendita annua, oltre che a provvedere, vita natural durante, alla sua assistenza morale e materiale.

Alla morte di quest’ultima, il legatario presentava dichiarazione di successione esponendovi, tra l’altro, le vendite effettuate dal de cuius negli ultimi sei mesi di vita, le quali coincidevano esattamente con il valore dei beni oggetto dell’atto di cessione e vitalizio.

Successivamente l’ufficio finanziario constatava nell’esame della dichiarazione di successione la mancata tassazione del valore delle vendite effettuate negli ultimi sei mesi di vita del defunto, notificando alle acquirenti apposito avviso di liquidazione in cui veniva ripresa a tassazione l’omissione di detti cespiti.

Ricorrevano le contribuenti davanti la competente Commissione tributaria provinciale, contestando l’atto impositivo sotto vari profili di illegittimità e, in particolare, la violazione dell’articolo 10 del Dlgs 346/1990, in quanto l’atto impositivo, non solo realizzava un’inammissibile e illegittima duplicazione di imposta ma collideva anche con principi di rango costituzionale

Con la pronuncia in oggetto, la Corte di cassazione, confermando le conclusioni dei giudizi di merito, ha riienuto infondato il ricorso, argomentando sul piano normativo che l’articolo 10 del Dlgs 346/1990, relativo ai beni alienati negli ultimi sei mesi di vita del de cuius (nel testo vigente ratione temporis, in quanto abrogato dall’articolo 69, comma 1, lett. d), della legge 342/200), disponeva espressamente:

  1. a) che si considerano compresi nell’attivo ereditario i beni e i diritti soggetti a imposta alienati a titolo oneroso dal defunto nell’ultimo semestre di vita (primo comma)
  2. b) che dal valore dei detti beni e diritti, determinato secondo le disposizioni degli articoli 14 e seguenti del Dlgs 346, si deduce, tra l’altro, l’ammontare delle somme riscosse o dei crediti sorti in dipendenza dell’alienazione, a condizione che siano indicati nella dichiarazione della successione (terzo comma, lettera a).

Ma, secondo la Corte di cassazione, logica e tenore letterale di tale previsione – che valorizza soltanto i beni e i diritti “alienati” e non i corrispettivi, mai comunque i “corrispettivi effettivamente percepiti” – fanno ritenere infondata la tesi delle ricorrenti esposta nel rilievo, in considerazione che con disposizione specifica in tema di imposta sulle successioni, l’articolo 14 del Dlgs 346/1990 prescrive, alla lettera a), di tener conto a tal fine sempre e soltanto del “valore venale in comune commercio alla data di apertura della successione” dei beni. Tale trama argomentativa, del resto, si pone anche in sintonia con il tributo di registro, ove il legislatore ha attribuito rilievo preponderante al “valore venale dei beni e dei crediti” (cfr articolo 51 del Dpr 131/1986), mentre il “corrispettivo” assume rilevo marginale (vedi articolo 72 del Dpr 131/1986).

 

Imposta di successione ed immobili trasferiti entro gli ultimi sei mesi di vita del de cuius

Cass. Civ. 12169 del 26 maggio 2009

Con la sentenza che si annota, la Corte di cassazione, intervenendo su una problematica sorta in tema di successione mortis causa circa il trattamento fiscale dei beni immobili alienati durante gli ultimi sei mesi di vita del de cuius, accoglie il ricorso dell’Amministrazione finanziaria, stabilendo che deve considerarsi compreso nell’attivo ereditario il valore dei beni o dei diritti trasferiti a terzi, a titolo oneroso, nel semestre anteriore alla morte del dante causa, e non già il corrispettivo pattuito o ricavato dal relativo negozio traslativo.

Con contestuale atto di cessione e vitalizio una contribuente aveva ceduto a due nipoti, in parti uguali pro indiviso, la nuda proprietà di determinati immobili, riservandosi l’usufrutto sugli stessi vita natural durante, mentre le acquirenti, a fronte di detta cessione, si obbligavano a corrispondere alla venditrice una rendita annua, oltre che a provvedere, vita natural durante, alla sua assistenza morale e materiale.

Alla morte di quest’ultima, il legatario presentava dichiarazione di successione esponendovi, tra l’altro, le vendite effettuate dal de cuius negli ultimi sei mesi di vita, le quali coincidevano esattamente con il valore dei beni oggetto dell’atto di cessione e vitalizio.

Successivamente l’ufficio finanziario constatava nell’esame della dichiarazione di successione la mancata tassazione del valore delle vendite effettuate negli ultimi sei mesi di vita del defunto, notificando alle acquirenti apposito avviso di liquidazione in cui veniva ripresa a tassazione l’omissione di detti cespiti.

Ricorrevano le contribuenti davanti la competente Commissione tributaria provinciale, contestando l’atto impositivo sotto vari profili di illegittimità e, in particolare, la violazione dell’articolo 10 del Dlgs 346/1990, in quanto l’atto impositivo, non solo realizzava un’inammissibile e illegittima duplicazione di imposta ma collideva anche con principi di rango costituzionale

Con la pronuncia in oggetto, la Corte di cassazione, confermando le conclusioni dei giudizi di merito, ha riienuto infondato il ricorso, argomentando sul piano normativo che l’articolo 10 del Dlgs 346/1990, relativo ai beni alienati negli ultimi sei mesi di vita del de cuius (nel testo vigente ratione temporis, in quanto abrogato dall’articolo 69, comma 1, lett. d), della legge 342/200), disponeva espressamente:

  1. a) che si considerano compresi nell’attivo ereditario i beni e i diritti soggetti a imposta alienati a titolo oneroso dal defunto nell’ultimo semestre di vita (primo comma)
  2. b) che dal valore dei detti beni e diritti, determinato secondo le disposizioni degli articoli 14 e seguenti del Dlgs 346, si deduce, tra l’altro, l’ammontare delle somme riscosse o dei crediti sorti in dipendenza dell’alienazione, a condizione che siano indicati nella dichiarazione della successione (terzo comma, lettera a).

Ma, secondo la Corte di cassazione, logica e tenore letterale di tale previsione – che valorizza soltanto i beni e i diritti “alienati” e non i corrispettivi, mai comunque i “corrispettivi effettivamente percepiti” – fanno ritenere infondata la tesi delle ricorrenti esposta nel rilievo, in considerazione che con disposizione specifica in tema di imposta sulle successioni, l’articolo 14 del Dlgs 346/1990 prescrive, alla lettera a), di tener conto a tal fine sempre e soltanto del “valore venale in comune commercio alla data di apertura della successione” dei beni. Tale trama argomentativa, del resto, si pone anche in sintonia con il tributo di registro, ove il legislatore ha attribuito rilievo preponderante al “valore venale dei beni e dei crediti” (cfr articolo 51 del Dpr 131/1986), mentre il “corrispettivo” assume rilevo marginale (vedi articolo 72 del Dpr 131/1986).

La compensazione e il conferimento di capitale

Corte di Cassazione, Sez. I Civile 19 marzo 2009, n. 6711

La sentenza in commento offre lo spunto per alcune brevi riflessioni sugli aspetti problematici che coinvolgono la compensazione, quando sia applicata all’obbligo di conferimento di capitale di società per azioni.

Riassumendo la SpA Alfa deliberava un aumento di capitale per il conferimento di nuovi apporti di danaro ai sensi dell’art. 2438 cc. Fra i sottoscrittori delle nuove azioni risultava anche la società Beta, già partecipante della Alfa. In seguito,la Alfa veniva sottoposta a procedura fallimentare.    Nel corso di questa, il giudice delegato ingiungeva alla Beta – per decreto ex art. 150 LF – il pagamento della somma di danaro corrispondente al valore delle azioni sottoscritte e non ancora liberate.  Presentata opposizione,il decreto veniva confermato sia in primo che in secondo grado. Veniva al riguardo ritenuta inammissibile la compensazione dedotta dalla stessa Beta con un precedente credito pecuniario vantato nei confronti della emittente. La questione era pertanto sottoposta al vaglio della Suprema Corte.

La Cassazione, con la sentenza in epigrafe, accoglieva il ricorso riconoscendo l’efficacia del conferimento eseguito in via compensativa. Risultava così espresso il principio per cui l’obbligo di conferimento di denaro, in occasione di un aumento di capitale, può venire soddisfatto attraverso il meccanismo della compensazione con debito parimenti di natura pecuniaria.  Le conclusioni del giudice di legittimità poggiano sul rilievo del carattere pienamente satisfattivo della compensazione, venendo il creditore-società, per effetto di essa, ad acquisire un valore economico succedaneo al credito estinto ed espresso nella liberazione da un corrispondente debito.

Si è dato, in questo modo, seguito ad un orientamento giurisprudenziale che annovera fra i suoi più significativi precedenti le decisioni della Cassazione n. 936 del 05/02/2006 en. 4236 del   24/04/1998.                                                                         Né è valsa la doglianza, espressa dalla curatela, secondo cui l’operare della compensazione, eliminando la necessità di una materiale erogazione, pregiudicherebbe la simmetria tra capitale nominale e la sua effettiva entità. Invero, ciò che è stato ritenuto rilevante è la corrispondenza tra patrimonio netto e capitale. L’elisione di un debito della società comporta l’accrescimento del patrimonio netto (grandezza relativa, data dalla differenza tra attivo e passivo) in una misura pari al debito che viene ad estinguersi.

La compensazione in discorso è evidentemente quella legale ex art. 1243 cc, peraltro l’unica comunemente consentita nelle fattispecie di aumento di capitale sociale.       In secondo luogo, l’operare della compensazione nell’ambito delle procedure fallimentari è espressamente previsto dall’art. 56 LF e costituisce una esplicita deroga al principio della par condicio creditorum, conseguendo il creditore il soddisfacimento integrale delle proprie ragioni. La giurisprudenza, tuttavia, pretende che i fatti costitutivi dei crediti contrapposti si collochino – cronologicamente – entrambi nella fase antecedente all’apertura del concorso. Successivamente, il patrimonio, ormai vincolato alla procedura, resterebbe insensibile ad ogni effetto dispositivo-solutorio non rispettoso della regolazione concorsuale dei crediti (Tribunale di Milano, 29 dicembre 2004, in Corriere del merito 2005, pag. 629; Cassazione Civile, Sez. I 26 febbraio 1999, n. 1671).  Per quanto concerne la deduzione della compensazione nel fallimento,si può ritenere che la stessa sarà oggetto di cognizione del giudice delegato nelle sole seguenti ipotesi: a) quando il creditore chieda di essere ammesso al passivo per un certo importo, dedotto il minor credito del fallito; b) quando sia il curatore, nella fase di verificazione del passivo, ad eccepire in compensazione l’esistenza del contro-credito del fallito.

Nel caso di specie pare, invece, che il creditore non abbia provveduto alla previa insinuazione al passivo, limitandosi a far valere l’effetto legale della compensazione in sede di opposizione al decreto con il quale, ai sensi dell’art. 150 LF, gli era stato ingiunto il versamento dei conferimenti ancora dovuti. La compensazione è stata dunque accertata in sede ordinaria.

Il modus procedendi è corretto. Il creditore che intende solo avvalersi della facoltà di compensare – senza avanzare pretese per un eventuale importo residuo – non è tenuto a partecipare al concorso. Inoltre, la dichiarazione in sede extra-fallimentare di compensazione non determina alcuna effettiva lesione del contraddittorio con i creditori concorsuali. La compensazione viene, in tal caso, in rilievo come semplice causa estintiva (opponibile al fallimento) del credito del fallito al pari, ad esempio, della prescrizione.