Mese: maggio 2017

UNIECO in Liquidazione coatta amministrativa, istruzioni per l’uso

 Liquidazione coatta amministrativa, formazione dello stato passivo – Domande di ammissione al passivo, rivendicazione, restituzione e separazione, termini       

(segue) ………………..a particolari tipologie di imprese  (per l’interesse pubblico della loro natura o dell’attività che esercitano) quali a mero titolo esemplificativo: le banche, le assicurazioni, le società di intermediazione finanziaria (ecc.), le società fiduciarie e di revisione (art.1, 2 d.l. 233/1986) gli enti pubblici, gli imprese sociali, gli istituti autonomi di case popolari,  le società cooperative ecc…

Si tratta di una procedura concorsuale finalizzata alla liquidazione dei beni – per il soddisfacimento delle ragioni creditorie prima di determinare l’estinzione dell’impresa – mediante la quale la pubblica amministrazione interviene direttamente nella gestione della crisi d’impresa

Fatta questa breve premessa di carattere generale alla quale faranno seguito poi altri capitoli per consentire un’inquadratura di carattere  generale, gioverà intercalare la trattazione con il richiamo di pronunce giurisprudenziali che hanno affrontato aspetti controversi della disciplina giuridica in materia di LCA.

Sembra utile, in chiave pragmatica, prendere spunto da pronunce che contribuiscono a fare chiarezza in punto a ammissione al passivo dei crediti e a rivendicazione, restituzione e separazione su cose mobili possedute dall’impresa.

Tra le sentenze di legittimità  va menzionata una pronuncia non recentissima, ma pur sempre attuale, che ha il merito di avere risolto un dubbio che può assalire chi si  accinge ad affrontare gli adempimenti   riguardanti  la presentazione delle domande di ammissione al passivo. Pare utile puntualizzare che secondo il disposto dell’art. 207 Legge Fall. Entro quindici giorni dal ricevimento della comunicazione i creditori e le altre persone indicate dal comma precedente possono far pervenire al commissario mediante posta elettronica certificata le loro osservazioni o istanze”.

Il termine di 15 gg. previsto dalla norma potrebbe legittimare qualche legittima preoccupazione per i non addetti ai lavori o a chi si dovesse cimentare nel reperimento dei documenti da allegare alla domanda (che, come avremo modo di osservare, non è una semplice formalità e non va sottovalutata). Ebbene, può considerarsi principio ormai acquisito che detto termine (decorrente dal ricevimento della comunicazione mediante la quale il Commissario comunica le somme risultanti a credito di ciascuno secondo le scritture contabili e i documenti dell’impresa) non è perentorio.

Secondo la Corte di Cassazione, infatti: “Nella procedura di liquidazione coatta amministrativa, l’inosservanza dei termini previsti dagli artt. 207 e 208 della legge fall. Non comporta l’improponibilità delle domande di ammissione al passivo e di rivendicazione, restituzione e separazione di beni mobili, verificandosi la relativa preclusione esclusivamente a seguito del deposito in cancelleria dell’elenco dei creditori, il quale determina il passaggio dalla fase preliminare di accertamento del passivo, che si svolge davanti al commissario liquidatore ed ha natura amministrativa, alla seconda fase eventuale, avente carattere giurisdizionale, nel cui ambito trovano collocazione le opposizioni e le impugnazioni, nonché le insinuazioni tardive.” (Cassazione civile, sez. I, 12/02/2008,  n. 3380).

Testo della sentenza

  LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE                                           SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:                           Dott. PROTO     Vincenzo                         –  Presidente   –  Dott. PLENTEDA   Donato                           –  Consigliere  –  Dott. RORDORF   Renato                           –  Consigliere  –  Dott. CECCHERINI Aldo                             –  Consigliere  –  Dott. PANZANI   Luciano                     –  rel. Consigliere  –  ha pronunciato la seguente:                                                             sentenza                                        sul ricorso proposto da:                                             COMPAGNIA TIRRENA  DI  ASSICURAZIONI S.P.A. in  liquidazione  coatta amministrativa, in persona del commissario liquidatore                                                        – ricorrente – contro                                                               CASSA DI  PREVIDENZA AGENTI del Gruppo Tirrena in  liquidazione,  in persona del  liquidatore  Dott.               F.S avverso la  sentenza della Corte d’appello di  Roma  n.  799/05  del 21.2.2005;

Fatto SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La Cassa di Previdenza Agenti del Gruppo Tirrena proponeva opposizione allo stato passivo della Compagnia Tirrena s.p.a. in liquidazione coatta amministrativa chiedendo l’immediata restituzione di tutte le somme dei conti individuali che componevano il patrimonio della Cassa di Previdenza stessa, per l’importo di L. 13.279.305.000, oltre a L. 450.433.000. In suberdine domandava la restituzione almeno del 70% degli importi ora detti. Domandava inoltre gli interessi e la rivalutazione monetaria sulle somme in parola a far tempo dal 1.1.1992. In ulteriore subordine la Cassa chiedeva l’ammissione al passivo della liquidazione coatta in via privilegiata dei crediti relativi alle somme ora dette, ai sensi degli artt. 2753 – 2754 c.c., e/o art. 2751 bis c.c., n. 3, oltre interessi e rivalutazione.

Osservava in sintesi la Cassa che sino al 31.12.1991 essa aveva investito le attività rappresentate dai conti individuali degli agenti ad essa iscritti mediante deposito in conti correnti fruttiferi aperti presso la Compagnia Tirrena; che tale forma di investimento era cessata nel 1992 quando la compagnia era stata sottoposta ad amministrazione straordinaria; che essa aveva invano domandato la restituzione delle somme versate e che neppure la richiesta di conversione del 70% delle somme investite in titoli azionari della compagnia era stata accolta; che dal 1.1.1992 la Compagnia aveva anche cessato di versare alla Cassa la quota di contribuzione a proprio carico, quota che al 31.5.1993 ammontava a L. 450.433.000; che tale ultimo importo non era stato neppure inserito nello stato passivo della procedura di liquidazione coatta.

Ad avviso della Cassa il commissario liquidatore aveva illegittimamente ammesso le somme dovute al passivo della procedura di liquidazione coatta, anzichè provvedere alla loro restituzione, trattandosi di patrimonio distinto da quello della compagnia assoggettata a procedura concorsuale. E l’ammissione era avvenuta in via chirografaria, senza riconoscimento del privilegio invece dovuto.

Costituendosi in giudizio la liquidazione coatta eccepiva l’inammissibilità della domanda di rivendicazione trattandosi di credito relativo ad una somma di denaro confusasi nel patrimonio della compagnia e la decadenza della Cassa dall’azione di rivendicazione L. Fall., ex art. 207. Eccepiva ancora la non spettanza del privilegio.

Il Tribunale di Roma accoglieva l’opposizione, condannando la liquidazione coatta all’immediato pagamento della somma di L. 13.279.305.000, pari ad Euro 6.858,190,00, oltre agli interessi legali dal 1.1.1992 sino al soddisfo, somma da imputarsi sulle immediate disponibilità attive della gestione liquidatoria con priorità anche rispetto ai crediti di cui alla L. Fall., art. 116, ed occorrendo anche previa revocazione dei pagamenti già effettuati fino a concorrenza della somma dovuta. Il Tribunale ammetteva inoltre la Cassa al passivo della procedura di liquidazione coatta in privilegio ex art. 2751 bis c.c., n. 3, per L. 450.433.000, pari ad Euro 232.630,00.

La Corte d’appello di Roma con sentenza 21.2.2005, n. 799, rigettava l’appello principale della liquidazione coatta.

Osservava che questa Corte con la sentenza 10131/97 aveva affermato la rivendicabilità di somme di denaro nel caso di deposito in cui le cose fungibili depositate – tra cui anche il denaro – non fossero state individuate al momento della consegna, qualora il rivendicante fosse in grado di dimostrare che si era determinata una situazione idonea ad escludere che i beni rivendicati si fossero confusi nel patrimonio del fallito, nella specie della liquidazione coatta amministrativa.

Nel caso in esame dalla prova testimoniale era risultato che la Compagnia Tirrena accantonava le quote di contributo dovute alla Cassa, maggiorate degli interessi maturati di anno in anno, contabilizzandole separatamente, si che quella liquidità era altro rispetto al patrimonio della Compagnia. Tale situazione era ancor più netta a far tempo dal 31.12.1991, quando era venuto meno il riconoscimento degli interessi sulle somme versate dagli agenti. La giacenza delle somme presso la Compagnia non rappresentava un investimento attuato dalla Cassa, ma era conseguenza della funzione di supporto amministrativo-contabile svolto dall’impresa di assicurazioni in favore della Cassa ai sensi dell’art. 19 della Convenzione Nazionale delle Casse di Previdenza Agenti del 1953, resa efficace erga omnes in virtù del D.P.R. 18 marzo 1961, n. 387, in forza della L. n. 741 del 1959.

Se era vero che un teste aveva dichiarato che i fondi della Cassa erano finanza di cui la compagnia si serviva, non vi era prova che da ciò fosse derivata confusione delle somme nel patrimonio dell’impresa assicurativa e non risultava che ciò fosse avvenuto dopo il 31.12.1991. In ogni caso, ai sensi degli artt. 15 e 16 della Convenzione, la Compagnia doveva mettere le somme nell’immediata disponibilità della Cassa quando si verificassero gli eventi previsti dagli artt. 15 e 16 della Convenzione stessa (trasferimento dell’agente ad altra Cassa o definitiva cessazione dell’attività agenziale). Lo stesso teste aveva dichiarato che in bilancio la posta relativa alle somme di pertinenza della Cassa era perfettamente individuabile.

Le somme in questione pertanto, pur essendo presso la Compagnia, non erano nella sua disponibilità ed erano sempre ben determinabili nel loro ammontare.

La Corte d’appello riteneva inoltre che sulle somme in linea capitale fossero dovuti gli interessi non potendo trovare applicazione la L. Fall., art. 55, trattandosi di credito che non concorreva alla formazione del passivo concorsuale. Per questo stesso motivo il credito non soggiaceva al divieto di azioni ordinarie di condanna ed esecutive nei confronti della procedura.

Infine la Corte d’appello affermava che non vi era stata decadenza della Cassa dall’azione di rivendicazione delle somme, che non era stata chiesta per la prima volta, come sostenuto dall’appellante, con l’opposizione a stato passivo e quindi con un’inammissibile mutatio libelli. Il commissario liquidatore nella scheda allegata alla comunicazione di rigetto della domanda, aveva dato atto di ciò.

I contributi relativi al periodo dal 31.12.1991 al 30.5.1993 andavano ammessi al passivo in via privilegiata ex art. 2751 bis c.c., n. 3, trattandosi di quote di contribuzione dovute dal datore di lavoro, consistenti in quote di retribuzione dovute agli agenti, aventi finalità previdenziale e costituenti salario differito. Tali contributi rappresentavano una forma di trattamento di fine rapporto e quindi un’indennità dovuta per la cessazione del rapporto di lavoro, come previsto dalla norma citata.

Avverso la sentenza ricorre per cassazione la Compagnia Tirrena Assicurazioni in liquidazione coatta amministrativa articolando cinque motivi. Resiste con controricorso la Cassa di previdenza, che ha anche proposto ricorso incidentale condizionato con unico motivo.

La Compagnia ha replicato con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memorie.

Diritto MOTIVI DELLA DECISIONE

  1. Con il primo motivo del ricorso principale la Compagnia Tirrena Assicurazioni in liquidazione coatta deduce violazione degli artt. 1362, 1363 c.c. e segg., artt. 1762, 1782, 1813, 1834, 2741 c.c., degli artt. 115 e 116 c.p.c., nonchè della L. Fall., artt. 103, 207, 208, 209, difetto e contraddittorietà di motivazione.

Il richiamo alla sentenza 10131/97 di questa Corte sarebbe errato, perchè tale pronuncia avrebbe ammesso la rivendica di cose fungibili individuate soltanto nel genere, ove risultasse che il depositario non ne poteva disporre e che esse erano rimaste separate dal suo patrimonio, ma non avrebbe esteso tale principio al denaro.

Nel ritenere che le somme versate dalla Cassa fossero separate dal patrimonio della Compagnia la Corte Territoriale avrebbe mal motivato, non considerando che la pretesa separazione non era altro che la mera indicazione di una posta debitoria nel bilancio della società assicuratrice, senza che ad essa corrispondesse una specifica modalità di gestione idonea ad escludere la confusione. La Corte d’appello nel richiamare la deposizione del teste D., aveva riportato il passo della deposizione in cui questi dava atto che la Compagnia anche dal punto di vista contabile non distingueva tra i singoli conti intestati agli agenti. La mera indicazione della somma complessiva non era altro che l’indicazione del debito nei confronti della Cassa. Negli stessi termini si erano espressi i testi D’. e F..

Ancora la Corte territoriale avrebbe mal motivato nel ritenere che la Compagnia avesse il divieto di utilizzare le somme investite dalla Cassa, perchè non avrebbe accertato l’esistenza di un divieto legale o contrattuale in capo alla compagnia all’utilizzo delle somme ed anzi la stessa Corte d’appello aveva riconosciuto che la Tirrena Assicurazioni aveva utilizzato le somme in parola, come risultava evidente anche dal fatto che essa riconosceva un interesse alla Cassa sulle stesse.

Osserva inoltre la ricorrente principale che la Corte d’appello avrebbe travisato la natura dell’operazione posta in essere dalla Cassa, che non aveva ad oggetto, come ritenuto, le quote di contributo che la Compagnia era tenuta a versare alla Cassa in misura pari ad una percentuale delle provvigioni spettanti agli agenti, ma le somme che la Cassa investiva presso la Compagnia, come aveva dichiarato il teste D..

Le somme depositate presso la Compagnia erano vincolate e la Cassa non ne aveva la disponibilità, come risulterebbe sia dalla deposizione della teste F. sia dal verbale 23.4.1983 del Comitato Amministratore della Cassa degli Agenti e dal successivo verbale del 5.5.1984.

La Corte d’appello avrebbe errato nell’argomentare la disponibilità delle somme da parte della Cassa con riferimento alle somme dovute agli agenti ai sensi degli artt. 15 e 16 della Convenzione, perchè il vincolo riguardava le somme che non dovevano essere smobilitate a seguito del trasferimento degli agenti ad altra Cassa o della definitiva cessazione del rapporto di agenzia, somme il cui ammontare poteva essere facilmente calcolato con i metodi attuariali.

Nell’argomentare la disponibilità delle somme da parte della Cassa dall’art. 19 della Convenzione che attribuiva alla Compagnia il servizio amministrativo della gestione, oltre a porre a fondamento dei rapporti tra le parti un titolo giuridico non invocato dalle stesse, la Corte avrebbe errato, perchè la norma individuerebbe soltanto il soggetto tenuto al servizio amministrativo per la gestione, senza nulla dire in ordine al titolo in virtù del quale avviene la gestione stessa.

Scaduta l’ultima convenzione, dopo il 31 dicembre 1991 la Compagnia aveva continuato a detenere le somme non in virtù degli obblighi derivanti dal servizio amministrativo, ma perchè non era in grado di adempiere all’obbligazione di restituzione delle somme, come riferito dal teste D’..

  1. Con il secondo motivo la ricorrente liquidazione coatta deduce violazione dell’art. 2697 c.c., L. Fall., artt. 55, 103, 207, 208, 209, nonchè difetto e contraddittorietà della motivazione.

La Cassa non avrebbe mai rivendicato gli importi richiesti, se non in sede di opposizione a stato passivo e ciò risulterebbe dalla scheda del commissario liquidatore, da cui risulta che l’ammissione al passivo era stata disposta come da domanda.

La rivendica costituirebbe una mutatio libelli non consentita. La Corte non avrebbe considerato che a pag. 22 della comparsa di costituzione in appello la Cassa aveva dato atto di aver richiesto per la prima volta al commissario liquidatore la restituzione delle somme soltanto dopo il 14.2.1995 e quindi 21 mesi dopo l’apertura della liquidazione, con conseguente decadenza L. Fall., ex artt. 207 e 208.

Nel ritenere sufficiente il dato che la rivendicazione risultava dalla scheda del commissario liquidatore, la Corte romana non avrebbe considerato che la rivendica era comunque intervenuta oltre il termine di 15 giorni previsto dalla L. Fall., art. 207. Ed in difetto di comunicazione da parte del commissario, la domanda doveva essere proposta, ai sensi dell’art. 208, entro 60 giorni dalla pubblicazione sulla G.U. del provvedimento di liquidazione.

Era onere della Cassa provare il rispetto di uno dei due termini.

3 – Con il terzo motivo, la ricorrente principale deduce, in via subordinata violazione della L. Fall., artt. 103, 207 e 209 e del D.L. 30 gennaio 1979, n. 26, convertito in L. n. 95 del 1979, nonchè difetto di motivazione.

La condanna pronunciata dalla Corte d’appello alla restituzione delle somme violerebbe il divieto, sancito dalle norme testè citate, di pronunciare condanna al pagamento di somme di denaro nei confronti di una procedura concorsuale, massime nel procedimento di opposizione a stato passivo, ostandovi il divieto di formazione di titoli di esecuzione individuale.

Nell’invocare una pronuncia di questa Corte (Cass. 2362/97) che aveva ammesso tale azione nei confronti di una procedura di amministrazione straordinaria per crediti di lavoro prededucibili contratti dagli organi della procedura e sorti dopo la dichiarazione dello stato d’insolvenza, la Corte territoriale non avrebbe considerato che la fattispecie in esame era completamente diversa e che la giurisprudenza maggioritaria di Cassazione era in senso contrario, non essendo comunque concepibile un’esecuzione nei confronti di una procedura di esecuzione collettiva.

  1. Con il quarto motivo del ricorso principale la ricorrente liquidazione coatta deduce violazione dell’art. 1224 c.c. L. Fall., artt. 55, 103, 203, L. n. 95 del 1979, art. 1, u.c., nonchè difetto di motivazione.

Nel riconoscere gli interessi sulle somme rivendicate la Corte d’appello non avrebbe considerato che gli interessi erano sospesi ai sensi della L. Fall., art. 55, e della L. n. 95 del 1979, art. 1, dal giorno di apertura della procedura di amministrazione straordinaria e comunque dall’assoggettamento a liquidazione coatta.

Nel ritenere che gli interessi fossero dovuti perchè si trattava di somme sottratte al concorso dei creditori, la Corte territoriale non avrebbe considerato che la res da restituire era pur sempre una somma di denaro e che quindi l’esigenza di tutela dei creditori comportava la sospensione del corso degli interessi. Per l’ipotesi di diversa interpretazione, la ricorrente solleva questione di legittimità costituzionale della L. Fall., art. 55, nella parte in cui non prevede la sospensione del decorso degli interessi quando sia questione di restituzione di somme rivendicate, per disparità di trattamento con le ulteriori fattispecie disciplinate.

  1. Con il quinto motivo la ricorrente principale deduce violazione degli artt. 1362, 1363 c.c., art. 2751 bis c.c., n. 3, nonchè difetto di motivazione.

Nel riconoscere il privilegio sul credito relativo alla somma di Euro 232.630 relativa alla contribuzione omessa nel periodo dal 31.12.1991 al 27.5.1993 la Corte d’appello non avrebbe considerato che le prestazioni erogate dalla Cassa degli agenti e quindi le contribuzioni ad essa dovute sono diverse dalle indennità di fine rapporto cui è accordato il privilegio, posto che vengono riconosciute soltanto al termine della carriera lavorativa dell’agente e non già ad ogni cessazione del rapporto di agenzia. Si trattava inoltre di omessa contribuzione alla Cassa e non di indennità di fine rapporto. La norma di cui all’art. 2751 bis c.c., n. 3, è norma eccezionale, che non può essere oggetto di interpretazione estensiva al di là dei casi espressamente considerati.

  1. Con l’unico motivo del ricorso incidentale condizionato la Cassa di Previdenza deduce che, se non rivendicabile come patrimonio separato, il credito della Cassa stessa dovrebbe essere ammesso al passivo della liquidazione coatta in via privilegiata ai sensi dell’art. 2751 bis c.c., n. 3, e, in subordine, ai sensi degli artt. 2753 e 2754 c.c.. Formula pertanto domanda in tal senso.
  2. Va disposta la riunione dei ricorsi ai sensi dell’art. 335 c.p.c..

E’ preliminare l’esame del secondo motivo del ricorso principale, con cui la ricorrente ha dedotto l’inammissibilità della domanda di rivendica perchè tardiva, in quanto proposta per la prima volta in sede di opposizione a stato passivo con inammissibile mutatio libelli rispetto all’originaria domanda di insinuazione al passivo del credito poi oggetto di rivendica.

In proposito la Corte d’appello ha osservato che la domanda era già stata proposta al commissario liquidatore prima che questi formasse lo stato passivo della liquidazione coatta il 22.1.2001. Ha desunto tale circostanza da un passaggio della motivazione dell’ammissione del credito al passivo in via chirografaria contenuto nella scheda redatta dal commissario liquidatore, allegata alla comunicazione di ammissione diretta al creditore, in cui si da atto che la “Cassa Previdenza Agenti del gruppo Tirrena ..ebbe a versare la somma rivendicata nelle casse della compagnia a titolo di investimento”.

Osserva la Corte d’appello che il riferimento alla rivendicazione rende palese che tale domanda era già stata proposta.

Obietta ora la ricorrente che non era sufficiente per ritenere la domanda tempestivamente proposta verificare che essa fosse anteriore alla chiusura dello stato passivo, perchè dovevano essere stati alternativamente rispettati i termini all’uopo previsti dalla L. Fall., artt. 207 e 208.L’art. 207, prevede che a seguito della comunicazione da parte del commissario a ciascun creditore delle somme risultanti a credito secondo le scritture contabili e i documenti dell’impresa (comunicazione che va fatta anche a coloro che possono presentare domande di rivendicazione, restituzione, separazione), il creditore e gli altri legittimati possano far pervenire al commissario le loro osservazioni o istanze entro quindici giorni dal ricevimento della raccomandata. L’art. 208 stabilisce che coloro che non hanno ricevuto la comunicazione in parola, possono chiedere con raccomandata entro sessanta giorni dalla pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale del provvedimento di liquidazione, il riconoscimento dei propri crediti e la restituzione dei loro beni.

Va osservato che, come è stato più volte affermato dalla dottrina, il procedimento di accertamento del passivo nella fase preliminare che si svolge davanti al commissario liquidatore è contrassegnato dalla previsione di termini che hanno carattere ordinatorio, come si evince dal fatto che non è prevista alcuna sanzione per la loro inosservanza anche alla luce del disposto dell’art. 152 c.p.c., comma 2.

Nella procedura della liquidazione coatta amministrativa l’elenco dei creditori compilato dal commissario per la formazione dello stato passivo ha natura di atto amministrativo. Soltanto con il deposito in cancelleria si determinano una serie di preclusioni (l’elenco non può più essere variato nè revocato, i creditori non possono più proporre le domande di cui alla L. Fall., art. 208, i creditori ed i terzi non possono più presentare le osservazioni e le istanze di cui alla L. Fall., art. 207) ed inizia una seconda fase eventuale, a carattere giurisdizionale, nel cui ambito trovano collocazione le opposizioni e le impugnazioni di cui alla L. Fall., artt. 98 e 100 (L. Fall., art. 209, comma 2), oltre che le insinuazioni tardive (Cass. 15.9.2004, n. 18579).

Di conseguenza soltanto il deposito dello stato passivo in cancelleria impedisce al creditore ed al terzo rivendicante di proporre le domande rispettivamente di ammissione al passivo e di rivendicazione, restituzione e separazione dei beni mobili.

Correttamente pertanto la Corte d’appello ha ritenuto tempestiva la domanda di rivendicazione proposta dalla Cassa di Previdenza, una volta accertato in fatto che tale domanda era stata proposta prima del deposito dello stato passivo in cancelleria da parte del commissario liquidatore.

  1. Venendo ora all’esame del primo motivo del ricorso principale, con cui la ricorrente contesta le conclusioni cui è pervenuto il giudice d’appello in ordine alla separazione dal patrimonio della compagnia assicuratrice delle somme riferibili ai conti individuali degli agenti iscritti alla Cassa di previdenza, occorre muovere dai principi affermati in proposito dalla giurisprudenza di questa Corte, che ha avuto occasione di pronunciarsi principalmente con riferimento alla rivendicazione dei valori mobiliari affidati da un privato ad una fiduciaria, sia prima che successivamente all’entrata in vigore della L. n. 1 del 1991, materia poi ampiamente regolata dalla normativa successiva con riferimento alle SIM, alle società di gestione del risparmio e alle SICAV (D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, art. 57; D.Lgs. 1 settembre 1993, n. 385, artt. 86, 91).

Con riferimento ai soggetti incaricati di operazioni di investimento per conto terzi in strumenti finanziari il D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 22, stabilisce il principio della c.d. doppia separazione patrimoniale in quanto il patrimonio dell’intermediario (impresa di investimento, società di gestione del risparmio, società di gestione armonizzata, intermediario finanziario D.Lgs. n. 58 del 1998, ex art. 107, banca) va tenuto distinto da quello dei singoli clienti ed il patrimonio di ogni cliente va tenuto distinto da quello degli altri. La violazione del divieto è sanzionata penalmente (art. 168 T.U.).

Dalla disciplina dettata dal R.D.L. 12 marzo 1936, n. 375, art. 91, richiamato dal D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 57, si ricava che il principio della separazione trova piena attuazione anche in caso di procedura concorsuale. Nel caso in cui il principio di separazione sia stato rispettato dall’intermediario, i commissari liquidatori dovranno procedere alla restituzione a ciascun cliente degli strumenti finanziari di sua competenza. Nel caso invece che l’obbligo di separazione sia stato completamente violato e vi sia stata totale confusione tra i mezzi amministrati della clientela e quelli dell’intermediario finanziario, gli investitori non potranno che concorrere con gli altri creditori sul patrimonio indifferenziato, trasformandosi il diritto alla restituzione in via specifica nel credito dell’equivalente da far valere al passivo chirografario.

Più complesso è il caso che sia stato mantenuto distinto il patrimonio dell’intermediario da quello della clientela, ma non sia invece possibile distinguere, in tutto od in parte, tra il patrimonio di spettanza dei singoli clienti. Per questa ipotesi, ove la massa patrimoniale indistinta sia sufficiente a soddisfare in forma specifica i diritti vantati da tutti i clienti, i commissari dovranno procedere alle restituzioni. Ove invece gli strumenti finanziari non risultino sufficienti per l’effettuazione di tutte le restituzioni, i commissari procedono, ove possibile, alle restituzioni ai sensi del comma 1 in proporzione dei diritti per i quali ciascuno dei clienti è stato ammesso alla sezione separata dello stato passivo, ovvero alla liquidazione degli strumenti finanziari di pertinenza della clientela ed alla ripartizione del ricavato secondo la medesima proporzione (art. 91, comma 2, citato T.U. bancario).

Questa disciplina non può trovare applicazione al di fuori dei casi espressamente considerati. In passato la giurisprudenza di questa Corte (Case. 20.2.1984, n. 1200; Cass. 16 maggio 1990, n. 4262; 20 febbraio 1984, n. 2633; Cass. 18.10.2001, n. 12718) aveva in più occasioni affermato che le domande di rivendicazione, restituzione o separazione, previste dalla L. Fall., art. 103, sono ammissibili soltanto se la cosa è stata determinata nella sua specifica e precisa individualità e che, in caso contrario, è configurabile (solo) un diritto di credito (alla restituzione del tantundem) azionabile nei confronti della curatela del fallimento secondo le modalità e con gli effetti previsti dalla L. Fall., art. 93 e segg..

Ciò sulla premessa che, in linea di massima, le cose fungibili che non siano state individuate al momento della consegna, entrano nella disponibilità di chi le riceve, il quale acquista il diritto di servirsene e, appunto per questo, ne diventa proprietario, pur essendo tenuto a restituirne altrettante della stessa specie e qualità. Ciò deriva dalla disciplina dettata dall’art. 1782 c.c., il quale tuttavia precisa che il passaggio della proprietà dal depositante al depositario non costituisce una conseguenza indefettibile della fungibilità delle cose depositate, poichè tale effetto si realizza solo se al depositario è concessa (anche) la facoltà di servirsi di tali beni nel proprio interesse: in tal caso il deposito viene ad assolvere anche una funzione di credito nell’interesse del depositario e questo spiega perchè a tale contratto si applichino, in quanto compatibili, le norme sul mutuo (art. 1782 c.c., comma 2).

Pertanto quando sia questione di una somma di denaro, bene fungibile per eccellenza, deve ritenersi che in linea di principio colui che la riceve ne acquisti la proprietà per confusione, con la conseguenza che il depositante sarà titolare soltanto del diritto di credito alla restituzione del tantundem da far valere, nel caso di procedura concorsuale, secondo le regole del concorso con gli altri creditori.

Tuttavia Cass. 14.10.1997, n. 10031, ha affermato che anche per il periodo precedente all’entrata in vigore della citata L. n. 1 del 1991, al fiduciante va riconosciuto il diritto di far valere, nei confronti degli organi della eventuale procedura concorsuale “medio tempore” instauratasi nei confronti della società, il diritto alla restituzione dei beni in precedenza ad essa affidati, dovendo ritenersi, all’uopo, sufficiente la dimostrazione di una situazione idonea ad impedire che la cosa della quale si reclami la restituzione si sia confusa con il patrimonio del fallito, (“rectius”, del sottoposto a liquidazione coatta) per essere entrata a far parte dei beni di sua proprietà: pur occorrendo, perchè si realizzi una situazione siffatta, in linea di principio, che la “res” sia “determinata” nella sua specifica e precisa individualità (L. Fall., art. 103). Si è aggiunto che, per l’acquisto della proprietà da parte di chi riceve in deposito una quantità di denaro o di altre cose fungibili, è pur sempre necessario che, alla semplice detenzione, si aggiunga (quantomeno implicitamente) la facoltà di servirsi del bene, non essendo la sua natura fungibile sufficiente, di per sè sola, a determinare il prodursi di tale effetto, mentre le società fiduciarie, non potendo disporre o, comunque, utilizzare nel proprio interesse i beni loro affidati, risultano, in concreto, mere depositarle di beni costituenti una massa patrimoniale distinta, a tutti gli effetti, dal loro personale patrimonio e, come tale, sottratta alle azioni esecutive degli eventuali creditori. Ancora si è osservato che la eventuale commistione dei conti tra più fiducianti non è idonea, di per sè, ad impedire il riconoscimento della separatezza dei beni intestati alla società nell’interesse di tali soggetti, perchè detta commistione non coinvolge i rapporti tra fiducianti e fiduciaria, ma è limitata a quelli che intercorrono tra i singoli fiducianti nell’ambito di una massa patrimoniale composta da beni dei quali questi ultimi sono i proprietari “effettivi”.

Nel caso esaminato questa Corte argomentò la separatezza delle somme di denaro versate dai fiducianti alla fiduciaria perchè le investisse nel loro interesse, acquistando titoli ed altri valori mobiliari che rimanevano nella titolarità formale della società, ma effettiva dei fiducianti, dal complesso della disciplina di legge che, già prima dell’entrata in vigore della L. n. 1 del 1991, escludeva che tali società potessero liberamente disporre dei beni ricevuti in consegna. Tale disciplina regolava l’attività di tali società – qualificando, da un lato, i fiducianti quali “effettivi proprietari” dei beni affidati in amministrazione fiduciaria e avendo cura, dall’altro, di prescrivere che le disponibilità liquide e i valori mobiliari “dei fiducianti” dovessero essere depositati presso terzi “in conti rubricati come di amministrazione fiduciaria” – sì che tali beni costituivano una massa patrimoniale “distinta”, a tutti gli effetti dal patrimonio della fiduciaria e, come tale, sottratta alle azioni esecutive dei suoi creditori.

Con riferimento al regime giuridico introdotto dalla L. n. 1 del 1991, poi confermato dalla disciplina successivamente entrata in vigore, questa Corte ha affermato che tale legge ha stabilito il principio della cosiddetta doppia separazione patrimoniale (poi ripreso, come s’è detto dalla successiva disciplina in materia di intermediazione finanziaria), che implica separazione del patrimonio della società da quello gestito per conto e nell’interesse dei clienti, nonchè, all’interno di quest’ultimo, reciproca separazione dei beni e dei valori riferibili individualmente a ciascun cliente.

Tale principio è ispirato dallo scopo di garantire un’efficace tutela degli investitori, soprattutto nel caso di crisi dell’intermediario, realizzata mediante la sottrazione dei beni alla liquidazione concorsuale, permettendo all’investitore l’immediato e completo recupero di quelli riconducibili al proprio patrimonio.

Tuttavia, questa tutela è garantita appieno soltanto nel caso in cui il regime di separazione sia stato effettivamente rispettato, con la conseguenza che, qualora ciò non sia accaduto – sia in quanto la società abbia confuso, in tutto o in parte, il proprio patrimonio con quello dei clienti, sia in quanto abbia violato la regola della reciproca separazione dei patrimoni dei singoli clienti l’investitore è titolare esclusivamente di un diritto di credito nei confronti dell’intermediario, che concorre con gli altri crediti vantati dai terzi nei confronti di quest’ultimo, in virtù di una regola ricavabile anche dal D.Lgs. n. 415 del 1996, art. 34, comma 3 (poi sostituito dal D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 57, comma 3), e dal rinvio ivi contenuto al D.Lgs. n. 385 del 1993, art. 91 (Cass. 11.3.2005, n. 5383; Cass. 5.4.2006, n. 7878).

Nel caso in esame la Corte d’appello ha ritenuto che le somme in questione rimanessero separate dal patrimonio della compagnia assicuratrice perchè:

  1. a) tali somme erano contabilizzate separatamente e corrispondevano ad un’autonoma posta di bilancio;
  2. b) dopo il 31.12.1991, data a far tempo dalla quale essendo scaduta la Convenzione tra la compagnia e la Cassa di previdenza era venuto meno il diritto di quest’ultima di pretendere gli interessi sulle somme depositate, la giacenza del denaro presso la compagnia non costituiva una forma di investimento, come si sarebbe potuto argomentare dal fatto che veniva corrisposto un interesse, ma rappresentava attuazione della funzione di supporto amministrativo- contabile che la compagnia assicuratrice doveva svolgere per conto della Cassa ai sensi dell’art. 19 della Convenzione tra la compagnia stessa e la Cassa;
  3. c) se anche era emerso che il denaro in questione era finanza di cui la compagnia si serviva (così il teste D’., secondo la sentenza impugnata), non era stato provato che ne derivasse confusione dei patrimoni nè che, se confusione vi era stata, essa fosse stata autorizzata dalla Cassa;
  4. d) in ogni caso non era dato sapere se tale situazione si fosse realizzata anche dopo il 31.12.1991;
  5. e) in ogni caso la compagnia doveva tenere a disposizione della Cassa, ai sensi degli artt. 15 e 16 della Convenzione, le somme necessarie per far fronte ai rimborsi nei confronti degli agenti che cambiavano compagnia e quindi Cassa di previdenza o cessavano definitivamente il loro rapporto di agenzia.

E’ evidente la violazione di legge ed il vizio di motivazione in cui è incorsa la sentenza impugnata nel far applicazione dei principi sanciti dalla giurisprudenza di questa Corte.

Come s’è detto, in tanto può affermarsi che vi sia separazione tra il patrimonio del depositante e quello del depositario, pur in presenza di un deposito di cose fungibili, in quanto non ricorrano le condizioni previste dall’art. 1782 c.c., che danno luogo ad un deposito irregolare, con acquisto della proprietà dei beni da parte del depositario, tenuto alla restituzione del tantumdem eiusdem generis et qualitatis, secondo la disciplina del mutuo. Occorre a tal fine che si verifichino alcune condizioni. In primo luogo che il depositario non abbia facoltà di servirsi della cosa; in secondo luogo che non si sia comunque determinata confusione tra il patrimonio del depositario ed il denaro o i beni fungibili affidati dal depositante.

Il difetto di tali condizioni comporta che trovi applicazione la regola generale sancita dall’art. 1782 c.c., in forza della quale il depositario acquista la proprietà del bene fungibile ed il depositante acquista la titolarità del corrispondente diritto di credito, da far valere nelle forme dell’insinuazione al passivo.

La Corte d’appello ha affermato che la compagnia assicuratrice non aveva facoltà di servirsi delle somme versate dalla Cassa, ma nel contempo ha riconosciuto che le somme depositate dalla Cassa erano fruttifere e che un teste aveva dichiarato che si trattava di finanza che la compagnia utilizzava. Ciò implica all’evidenza confusione tra il patrimonio della compagnia e le somme depositate dalla Cassa, non risultando dalla sentenza impugnata che la compagnia fosse vincolata a forme di investimento “dedicate”, idonee cioè a mantenere le sorti del capitale della Cassa investito autonome dalle sorti del restante capitale della compagnia.

Nè evidentemente vale a dimostrare la sussistenza della separazione la mera circostanza che alle somme depositate corrispondesse un’autonoma posta nel bilancio della compagnia, perchè tale posta di per se stessa non indicava se tali somme fossero individuate e gestite come un patrimonio separato ovvero se si trattasse di un semplice credito della Cassa nei confronti della compagnia, che ovviamente doveva essere iscritto in bilancio.

La Corte d’appello ha aggiunto che dopo il 31.12.1991, essendo scaduta la Convenzione tra la compagnia e la Cassa, non erano più dovuti interessi ed ha ritenuto che di conseguenza il titolo in virtù del quale la compagnia gestiva le somme fosse l’obbligo derivante dalla Convenzione (art. 19) di esperire il servizio amministrativo-contabile per conto della Cassa. Nel pervenire a tale conclusione, peraltro, la Corte non sembra aver considerato che la gestione del servizio amministrativo – contabile per conto della Cassa non dimostra ancora che tale gestione avvenisse in regime di separazione patrimoniale rispetto al patrimonio della compagnia.

Va sottolineato a questo proposito che l’art. 19 della Convenzione (che la Corte può esaminare direttamente in base al principio iura novit curia, in quanto atto a contenuto normativo, reso efficace erga omnes con D.P.R. 18 marzo 1961, n. 387) si limita a stabilire che il servizio amministrativo per la gestione della Cassa viene svolto da personale dipendente dalla Compagnia, messo gratuitamente a disposizione della Cassa, aggiungendo che ogni altro onere fa carico agli iscritti alla Cassa. La norma non contiene alcuna disposizione da cui si possa ricavare l’esistenza di una separazione delle somme gestite dal patrimonio dell’impresa assicuratrice.

La Corte di merito non da conto della deposizione del teste D’., così come riportata dalla ricorrente a pag. 47 del ricorso. Il teste ha dichiarato di aver respinto le richieste di restituzione avanzate dalla Cassa, dopo il 31.12.1991 e quindi quando non erano più dovuti interessi, perchè un esborso di oltre venti miliardi avrebbe provocato un depauperamento troppo ingente.

La Corte d’appello non ha considerato che tale dichiarazione sembra implicare che vi fosse piena confusione tra il patrimonio della compagnia e le somme ad essa affidate dalla Cassa, tanto che la compagnia, essendo insorte le difficoltà che avrebbero dato luogo all’apertura della procedura concorsuale, non era in condizioni di restituire le somme perchè ciò avrebbe inciso in maniera rilevante sulla sua liquidità.

Infine anche il ricorso all’argomento che vi fosse separazione perchè la compagnia doveva comunque tenere a disposizione le somme necessarie per liquidare gli agenti ai sensi degli artt. 15 e 16 della Convenzione (passaggio di agenti ad altra Cassa di previdenza e cessazione definitiva dell’attività di agente) cela un evidente vizio logico. La circostanza che la compagnia dovesse garantirsi una certa liquidità per far fronte agli obblighi correnti nei confronti della Cassa, peraltro quantificabili con il ricorso al metodo attuariale come osserva la ricorrente principale, non dice ancora nulla sul regime giuridico delle somme depositate. Tale esigenza di liquidità, infatti, poteva anche derivare dall’esistenza di un diritto di credito della Cassa nei confronti della compagnia, in difetto di ogni separazione di patrimoni nè più nè meno di come accade ogni giorno nei rapporti tra banca e clienti. Come questa Corte ha già osservato (Cass. 11.3.2005, n. 5383; Cass. 5.4.2006, n. 7878), il diritto del depositante a rivendicare le cose fungibili depositate sussiste soltanto in quanto l’obbligo di separazione dei patrimoni sia stato rispettato. Tale principio, affermato espressamente dal legislatore con riferimento alla disciplina delle società fiduciarie e di investimento finanziario, è in realtà espressione di una regola di carattere più generale. Posto infatti che il patrimonio del debitore costituisce la garanzia dei suoi creditori secondo il fondamentale dettato dell’art. 2740 c.c., in tanto tale principio è derogabile in quanto i beni che si pretende di sottrarre alla garanzia dei creditori siano esattamente individuati o, ove si tratti di beni fungibili, come tali non specificamente individuabili, siano sottratti alla regola della confusione nel patrimonio del debitore in forza del divieto di disporne stabilito per legge o per convenzione in capo al debitore stesso, purchè tale regola sia stata in concreto rispettata.

Va sottolineato che la disciplina speciale dettata dapprima per le società fiduciarie e poi per gli intermediari finanziari, ha segnato un mutamento nell’atteggiamento tradizionale del legislatore diretto in passato a ripartire il danno derivante dall’insolvenza su una più vasta cerchia di soggetti, sì da limitarne l’incidenza unitaria. Il concorso, è stato osservato, è figura che esige da un lato una massa di creditori aventi diritti omogenei e, almeno tendenzialmente, paritetici; dall’altro lato, una massa patrimoniale costituente la garanzia generica e comune di quei crediti. La disciplina speciale crea invece delle masse separate, evitando che ai soggetti titolari di diritti su tali masse possano estendersi i tradizionali principi propri del concorso.

La giurisprudenza di questa Corte ha individuato i casi ed i limiti per cui le regole dettate dalla legislazione speciale possono essere estese ad altre ipotesi. Ove non ricorrano tali condizioni, non resta che applicare la regola generale del concorso, che esclude la rivendica di una somma di denaro, riconoscendo un mero diritto di credito, sottoposto a quella regola generale.

Il terzo ed il quarto motivo del ricorso principale, proposti in via subordinata, rimangono assorbiti.

  1. Con il quinto motivo del ricorso la ricorrente principale si duole che la Corte d’appello abbia ritenuto sussistente il diritto della Cassa ad essere ammessa al passivo per il credito relativo ai contributi maturati dal 1.1.1992 al 27.5.1993 in via privilegiata ai sensi dell’art. 2751 bis c.c., n. 3. La Corte d’appello ha ritenuto che tale credito corrisponda a quote di contribuzione previste a carico del datore di lavoro – compagnia assicuratrice, consistenti in una parte delle provvigioni dovute agli agenti, quote che hanno natura e finalità previdenziale e costituiscono salario differito.

Spetterebbe il privilegio di cui all’art. 2751 bis c.c., n. 3, perchè tali somme sarebbero destinate “ad alimentare presso la Cassa le disponibilità destinate ad erogare ai singoli agenti una forma integrativa del trattamento di fine rapporto”. Si tratterebbe quindi di indennità dovute per la cessazione del rapporto di lavoro cui fa riferimento la norma citata.

Obietta la ricorrente che i contributi in parola sono dovuti alla Cassa e non rappresentano quindi una prestazione retributiva differita dovuta agli agenti di assicurazione ed, inoltre, che le prestazioni dovute agli agenti dalla Cassa, ai sensi dell’art. 16 della Convenzione Nazionale del 24.6.1953, resa efficace erga omnes, sono dovute soltanto nel caso di definitiva cessazione dell’attività di agente e non in ogni caso di cessazione del rapporto di agenzia, sì che non possono essere equiparate alle indennità previste dall’art. 2751 bis c.c., n. 3, norma di stretta interpretazione.

Replica la controricorrente osservando che il credito trae la sua origine dal rapporto di agenzia e pertanto è irrilevante che le somme siano dovute ad una Cassa di previdenza, anzichè agli agenti direttamente. Non si tratterebbe di contributi relativi a prestazioni previdenziali erogate dalla Cassa, ma di prestazioni che hanno carattere retributivo.

Il motivo è fondato.

Va premesso che ai sensi dell’art. 2751 bis c.c., n. 3, è riconosciuto il privilegio generale mobiliare sulle provvigioni derivanti dal rapporto di agenzia, dovute per l’ultimo anno di prestazione, e sulle indennità dovute per la cessazione del rapporto medesimo. Con tale ultima espressione il legislatore ha chiaramente inteso far riferimento all’indennità di cessazione del rapporto dovuta dal preponente all’agente stabilita dall’art. 1751 c.c., applicabile agli agenti di assicurazione in virtù del disposto dell’art. 1753 c.c., in quanto non derogato dalla disciplina collettiva e dagli usi, nei limiti della compatibilità con la natura dell’attività assicurativa.

Alla luce di tale disciplina può essere oggetto di discussione ( ma la questione non è rilevante ai fini del decidere) se il privilegio spetti soltanto sulle indennità di fine rapporto dovute in base alla disciplina di legge o anche sulle indennità stabilite dagli accordi economici collettivi.

Nel caso in esame, peraltro, non è questione delle somme dovute dalla preponente compagnia di assicurazioni agli agenti, ma di contributi che debbono essere versati in virtù della Convenzione nazionale del 24.6.1953, resa efficace erga omnes con D.P.R. 18 marzo 1961, n. 387, dalla compagnia alla Cassa di Previdenza degli agenti.

A fronte di tali contributi si forma un capitale destinato ad alimentare un’assicurazione sulla vita ovvero un contratto di capitalizzazione ovvero ancora all’incremento del conto individuale intestato all’agente che, alla definitiva cessazione dell’attività agenziale, sarà corrisposto all’agente dalla Cassa (cfr. art. 11 e segg. della Convenzione, nel testo approvato con D.P.R. n. 387 del 1961, pubblicato sul supplemento ordinario G.U. n. 128 del 25.5.1961, come già detto direttamente conoscibile da questa Corte trattandosi di atto normativo cui si applica il principio iura novit curia).

Va aggiunto che ai sensi dell’art. 16 della Convenzione “nel caso di scioglimento del contratto di agenzia con abbandono dell’attività agenziale” vengono consegnati all’agente la polizza di assicurazione o il contratto di assicurazione nonchè l’importo della liquidazione del conto individuale”.

E’ dunque evidente che altro è il credito dell’agente nei confronti della Cassa di Previdenza alla cessazione definitiva del rapporto di agenzia, altro è il credito per i contributi dovuti alla Cassa da parte dell’impresa di assicurazioni ai sensi dell’art. 6 della Convenzione, commisurato all’ammontare delle provvigioni maturate nell’anno in favore dell’agente, contribuzione cui si aggiunge quella a carico dell’agente ai sensi del successivo art. 8 della Convenzione.

Tale credito sorge in capo alla Cassa per effetto della disciplina dettata dalla Convenzione nei confronti dell’impresa assicuratrice ed è del tutto differente dall’indennità di fine rapporto prevista dall’art. 1751 c.c., e dalle forme sostitutive previste dalla contrattazione collettiva. Queste ultime indennità sorgono infatti in capo all’agente nei confronti del preponente e presuppongono la cessazione del contratto di agenzia tra preponente ed agente; il credito contributivo invece sorge in capo alla Cassa di Previdenza nei confronti dell’impresa di assicurazione per effetto del maturare delle provvigioni in favore dell’agente ed è destinato ad alimentare le varie forme di previdenza (in senso lato) previste dalla Convenzione a favore dell’agente in una con la contribuzione a carico dell’agente.

Tanto basta per affermare che non spetta il privilegio previsto dall’art. 2751 bis c.c., n. 3, che si riferisce alle indennità di fine rapporto spettanti agli agenti e non può essere esteso, anche in ragione del principio di stretta interpretazione delle norme in materia di privilegio, ad un credito che ha natura diversa e sorge nei confronti di un soggetto che non è l’agente. Altra e diversa questione, che non deve essere ora affrontata, è se tale credito possa essere assistito da altra forma di privilegio ed in particolare da quello previsto dall’art. 2754 c.c..

  1. Resta da esaminare il motivo di ricorso incidentale con cui la Cassa di Previdenza per l’ipotesi di accoglimento del ricorso principale, ripropone i motivi dell’appello incidentale con cui aveva domandato il riconoscimento del privilegio per il credito relativo alle somme rivendicate, credito ammesso invece al passivo della procedura di liquidazione coatta da parte del commissario liquidatore in via chirografaria.

Tale motivo è inammissibile.

Va infatti richiamato il principio più volte affermato da questa Corte, secondo il quale è inammissibile, per difetto di interesse, il ricorso incidentale, della parte vittoriosa in secondo grado per le questioni, domande o eccezioni, rilevanti per la decisione, da essa prospettate e non decise, neppure implicitamente, in quanto assorbite da quelle accolte (Cass. 23.5.2006, n. 12153; Cass. 16.5.2006, n. 11371; Cass. 18.5.2005, n. 10420; Cass. 18.10.2006, n. 22346). Tali questioni debbono essere riproposte al giudice di rinvio.

In conclusione in accoglimento del primo e del quinto motivo di ricorso la sentenza impugnata va cassata con rinvio alla Corte d’appello di Roma in diversa composizione, che pronuncerà anche sulle spese del giudizio di Cassazione.

PQM P.Q.M.

La. Corte riunisce i ricorsi; accoglie il primo ed il quinto motivo del ricorso principale, rigetta il secondo, assorbiti gli altri;

dichiara inammissibile il ricorso incidentale; cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’appello di Roma in diversa composizione, anche per le spese.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 13 dicembre 2007.

Depositato in Cancelleria il 12 febbraio 2008

 

 

 

 

 

 

Appalto. La garanzia decennale per gravi difetti è dovuta solo per le opere di iniziale fabbricazione o anche per le opere postume di ristrutturazione dell’edificio ? Cassazione Sez. Un. Civili, 27 Marzo 2017, n. 7756

 

“L’art. 1669 c.c. è applicabile, ricorrendone tutte le altre condizioni, anche alle opere di ristrutturazione edilizia e, in genere, agli interventi manutentivi o modificativi di lunga durata su immobili preesistenti, che (rovinino o) presentino (evidente pericolo di rovina o) gravi difetti incidenti sul godimento e sulla normale utilizzazione del bene, secondo la destinazione propria di quest’ultimo“.

All’affermazione di questo importante principio le Sezioni Unite della Corte di Cassazione – chiamate a dirimere un contrasto giurisprudenziale – sono giunte a conclusione di un esauriente analisi esegetica e dell’evoluzione giurisprudenziale,  convenendo che anche ove i gravi vizi riguardino opere non di nuova  costruzione, ma più limitate, aventi ad oggetto riparazioni straordinarie, ristrutturazioni, restauri o altri interventi di natura edilizia, può essere  invocata la garanzia decennale dovuta dall’appaltatore  ai sensi dell’’art. 1669 c.c.

Nella fattispecie, alcuni condomini avevano evocato in giudizio l’impresa appaltatrice che aveva eseguito opere di ristrutturazione edilizia sull’edificio condominiale ( afferenti scale interne, balconi e sottotetti) per ottenere il risarcimento dei danni dovuti a gravi difetti che si erano manifestati a seguito di detti lavori .

Invero,  la Corte già in passato aveva ritenuto più volte applicabili le regole disciplinate dall’art 1669 cc a prescindere dal fatto che i vizi, purchè gravi, riguardassero opere riguardanti “costruzioni nuove”.

La casistica in proposito, come segnala la Corte, è moto ampia e, senza pretesa di essere esaurienti, non è inutile segnalare che sono  stati ritenuti gravi difetti dell’opera, rilevanti ai fini dell’art. 1669 c.c: la pavimentazione interna ed esterna di una rampa di scala e di un muro di recinzione (sentenza n. 2238/12); opere di pavimentazione e di impiantistica (n. 1608/00); infiltrazioni d’acqua, umidità nelle murature e in generale problemi rilevanti d’impermeabilizzazione (nn. 84/13, 21351/05, 117/00, 4692/99, 2260/98, 2775/97, 3301/96, 10218/94, 13112/92, 9081/92, 9082/91, 2431/86, 1427/84, 6741/83, 2858/83, 3971/81, 3482/81, 6298/80, 4356/80, 206/79, 2321/77, 1606/76 e 1622/72); un ascensore panoramico esterno ad un edificio (n. 20307/11); l’inefficienza di un impianto idrico (n. 3752/07); l’inadeguatezza recettiva d’una fossa biologica (n. 13106/95); l’impianto centralizzato di riscaldamento (nn. 5002/94, 7924/92, 5252/86 e 2763/84); il crollo o il disfacimento degli intonaci esterni dell’edificio (nn. 6585/86, 4369/82 e 3002/81, 1426/76); il collegamento diretto degli scarichi di acque bianche e dei pluviali discendenti con la condotta fognaria (n. 5147/87); infiltrazioni di acque luride (n. 2070/78). Dunque la Corte ha ritenuto che lo scopo della norma ( operando una ricostruzione storica della norma a far luogo dal codice napoleonico  attraverso il codice civile del 1865 sino a  quello odierno) sia quello di garantire il pacifico godimento dell’immobile secondo la sua propria destinazione.

Secondo la logica sottesa a tali argomentazioni giuridiche è del tutto indifferente che i gravi difetti riguardino una costruzione interamente nuova o un’opera edile ristrutturata, essendo irrazionale la previsione di un trattamento diverso tra fabbricazione iniziale e ristrutturazione edilizia, dato che entrambe potrebbero essere foriere di gravi pregiudizi.

Testo della sentenza

 Corte di Cassazione, sez. Unite Civili, sentenza 10 gennaio – 27 marzo 2017, n. 7756 Presidente Di Palma – Relatore Manna

Svolgimento del processo

Gli odierni ricorrenti, partecipanti tutti al condominio di via (omissis) , convenivano in giudizio innanzi al locale Tribunale la società venditrice Fonte Sajano s.r.l. e la società P.F. e C. s.n.c., che su incarico di quest’ultima aveva eseguito sull’edificio interventi di ristrutturazione edilizia. Domandavano la condanna delle società convenute, in solido tra loro, al risarcimento dei danni consistenti in un esteso quadro fessurativo esterno ed interno delle pareti del fabbricato ed altri gravi difetti di costruzione. Nel resistere in giudizio entrambe le convenute chiamavano in causa la società che aveva eseguito gli intonaci, la Edilcentro s.r.l., per esserne tenute indenni. Nella contumacia della società chiamata in causa, il Tribunale, ritenuta la ricorrenza di gravi difetti dell’opera, accoglieva la domanda e condannava le società convenute al pagamento della somma di Euro 71.503,50, a titolo di responsabilità per danni ex art. 1669 c.c.. Impugnata dalla P.F. e C. s.n.c., tale decisione era ribaltata dalla Corte d’appello di Ancona, che con sentenza pubblicata il 12.7.2012 rigettava la domanda. Richiamato il precedente di Cass. n. 24143/07, la Corte territoriale osservava che ai fini dell’applicazione dell’art. 1669 c.c. la costruzione di un edificio o di altra cosa immobile destinata a lunga durata costituisce presupposto e limite della responsabilità dell’appaltatore. E poiché nella specie erano stati eseguiti solo interventi di ristrutturazione edilizia (con cambiamento di destinazione d’uso da ufficio ad abitazione), comprendenti la realizzazione di nuovi balconi ai primi due piani, di una scala in cemento armato e di nuovi solai ai sottotetti, non si trattava della nuova costruzione di un’immobile, ma di una mera ristrutturazione. Di qui l’inapplicabilità della norma anzi detta. La cassazione di questa sentenza è chiesta dagli odierni ricorrenti sulla base di un solo motivo. Vi resiste con controricorso la P.F. & C. s.n.c.. La Fonte Sajano s.r.l. in liquidazione e la Edilcentro s.r.l. non hanno svolto attività difensiva. La terza sezione civile di questa Corte, ravvisando un contrasto di giurisprudenza sulla riconducibilità all’art. 1669 c.c. anche delle opere edilizie eseguite su di un fabbricato preesistente, ha rimesso la causa al primo Presidente, che l’ha assegnata a queste Sezioni unite. Entrambe le parti, ricorrente e controricorrente, hanno depositato memoria.

Motivi della decisione

  1. – Con l’unico motivo di ricorso parte ricorrente deduce la “violazione e falsa applicazione dell’art. 1669 c.c. in relazione all’art. 360, nn. 3 e 5 c.p.c.”. Espone che la sentenza impugnata avrebbe erroneamente ritenuto che la ristrutturazione edilizia di un fabbricato non possa rientrare nella previsione dell’art. 1669 c.c.; lamenta che la Corte territoriale abbia omesso di motivare sull’entità dei lavori di ristrutturazione del fabbricato, nonché sulla consistenza e sulla rilevanza dei vizi accertati dal c.t.u.; deduce che) rispetto al caso esaminato da Cass. n. 24143/07, quello in oggetto concerne interventi edilizi di carattere straordinario riconducibili all’ipotesi di cui all’art. 1669 c.c.; e richiama, tra altre pronunce di questa Corte, Cass. n. 18046/12 per affermare che la ridetta norma è applicabile non solo alle nuove costruzioni, ma anche alle opere di ristrutturazione immobiliare e a quelle che siano comunque destinate ad avere lunga durata. 2. – Sotto quest’ultimo profilo, quello dell’ambito oggettivo coperto dall’art. 1669 c.c., l’ordinanza interlocutoria della terza sezione rileva un contrasto nella giurisprudenza di questa Corte (precisamente all’interno della seconda sezione). E senza mostrare di voler prendere partito per l’una o l’altra tesi, quella che esclude o quella che afferma l’applicabilità dell’art. 1669 c.c. anche alle ristrutturazioni immobiliari, ritiene che emerga ad ogni modo un contrasto sui principi di diritto affermati, al di là delle possibili peculiarità “fattuali” delle singole situazioni esaminate. 2.1. – Sulla peculiare questione in oggetto anche la dottrina mostra di dividersi. Pacifica l’applicabilità dell’art. 1669 c.c. ai casi di ricostruzione o di costruzione di una nuova parte dell’immobile, come ad esempio la sopraelevazione, che è essa stessa una “nuova costruzione”, prevale l’opinione dell’estensibilità della norma anche alle ipotesi di interventi di tipo manutentivo – modificativo che debbano avere una lunga durata nel tempo. Ciò sia nel caso in cui a seguito delle riparazioni o delle modifiche collassi l’intera e preesistente struttura immobiliare, indipendentemente dall’importanza in sé della parte riparata o modificata, sia ove la rovina o i gravi difetti riguardino direttamente quest’ultima. Ed escluse le riparazioni non di lunga durata, come quelle ordinarie, e quelle aventi ad oggetto parti strutturali anch’esse non destinate a conservarsi nel tempo, deve dunque ammettersi l’applicazione dell’art. 1669 c.c. nelle situazioni inverse. Si osserva da alcuni che, in definitiva, il problema è lo stesso che si presenta allorché rovini o sia gravemente difettosa soltanto una porzione dell’originario edificio, visto che la stessa norma contempla anche l’ipotesi che l’immobile rovini “in parte”. Non solo, ma si ipotizza che la soluzione inversa si presterebbe a dubbi di legittimità costituzionale, considerato che gli artt. 1667 e 1668 c.c., del pari riguardanti la responsabilità dell’appaltatore, si applicano ad opere consistenti in mere modificazioni o riparazioni, mentre l’art. 1669 c.c. restrittivamente inteso condurrebbe, irrazionalmente e in violazione dell’art. 3 Cost., ad applicare l’art. 1667 c.c. ancorché l’opera consista, previa demolizione, in una ricostruzione totale o parziale, del tutto sovrapponibile ad una costruzione ex novo. Minoritaria la tesi opposta, che rispetto alla disciplina degli artt. 1667 e 1668 c.c. ravvisa nell’art. 1669 c.c. una norma di carattere speciale. Si afferma che essa, insuscettibile di applicazione analogica, integri una garanzia vera e propria e una disposizione di favore per il committente, motivata dal fatto che nelle opere di lunga durata alcuni difetti possono presentarsi anche a distanza di molto tempo. L’art. 1669 c.c. riguarderebbe, per tale dottrina, le opere eseguite ex novo dalle fondamenta ovvero quelle dotate di propria autonomia in senso tecnico (come ad esempio una sopraelevazione). 3. – La giurisprudenza di questa Corte ha affrontato in maniera esplicita e diretta il tema di cui si discute solo in tre occasioni. O meglio in due, per le- – ragioni che seguono. 3.1. – La prima con sentenza n. 24143/07. Riferita ad un caso di opere d’impermeabilizzazione e pavimentazione del terrazzo condominiale d’un edificio preesistente, detta pronuncia ha osservato che l’art. 1669 c.c. delimita con una certa evidenza il suo ambito di applicazione alle opere aventi ad oggetto la costruzione di edifici o di altri beni immobili di lunga durata, ivi inclusa la sopraelevazione di un fabbricato preesistente, di cui ravvisa la natura di costruzione nuova ed autonoma. Non anche, però, le modificazioni o le riparazioni apportate ad un edificio o ad altre preesistenti cose immobili, da identificare a norma del’art. 812 c.c.. A tale conclusione è pervenuta attraverso l’interpretazione letterale della norma, laddove questa “raccorda il termine “opera” a quello di “edifici o di altre cose immobili, destinate per loro natura a lunga durata”, per poi connettere e disciplinare le conseguenze dei vizi costruttivi della medesima opera, così significando che la costruzione di un edificio o di altra cosa immobile, destinata per sua natura a lunga durata, costituisce presupposto e limite di applicazione della responsabilità prevista in capo all’appaltatore”. La conseguenza, conclude, è che ove non ricorra la costruzione d’un edificio o di altre cose immobili di lunga durata, ma un’opera di mera riparazione o modificazione su manufatti preesistenti, non è applicabile l’art. 1669 c.c. ma, ricorrendone le condizioni, le norme sulla garanzia ex art. 1667 c.c. Infine, detta sentenza ha escluso che questa Corte Suprema abbia mai affrontato ex professo la questione, se non nella vigenza del c.c. del 1865, sotto l’art. 1639 (si tratta della sentenza n. 754 del 1934, la quale nell’escludere l’applicabilità della norma alla copertura con asfalto d’un lastrico solare, si limitò, in realtà, ad affermare unicamente che la norma “ha, come è comune insegnamento, carattere eccezionale, e non può perciò essere estesa fuori dei casi ivi preveduti della fabbricazione di un edificio o d’altra opera notabile”: n.d.r.). 3.1.1. – In senso puramente adesivo è la n. 10658/15 (massimata in maniera del tutto conforme), avente ad oggetto lavori di consolidamento di una villetta preesistente che avevano provocato gravi fessurazioni su di un corpo di fabbrica aggiuntovi. A ben vedere, tuttavia, la motivazione chiarisce che il giudice d’appello, ricondotta la fattispecie all’art. 1669 c.c., aveva escluso la responsabilità dell’appaltatore a tale titolo non essendovi prova che questi avesse indicato i lavori da eseguire, né che fosse stato messo al corrente dei difetti strutturali che avevano determinato le lesioni riscontrate. Sicché, in definitiva, la Corte territoriale aveva escluso sia il nesso eziologico tra le opere eseguite dall’appaltatore e i danni lamentati, sia una colpa di lui. Il consenso prestato a Cass. n. 24143/07 è frutto, dunque, di una considerazione svolta ad abundantiam rispetto alla ratio decidendi, basata su altro; il che rende dubbio che detto precedente possa effettivamente militare nell’ambito della tesi negativa.  3.2. – Di segno opposto la sentenza più recente, n. 22553/15, secondo cui risponde ai sensi dell’art. 1669 c.c. anche l’autore di opere realizzate su di un edificio preesistente, allorché queste incidano sugli elementi essenziali dell’immobile o su elementi secondari rilevanti per la funzionalità globale. In quella fattispecie, le opere avevano riguardato lavori di straordinaria manutenzione presso uno stabile condominiale, consistiti nel rafforzamento dei solai e delle rampe delle scale (queste ultime ricostruite completamente). Nel darsi carico dei due precedenti massimati di segno contrario all’avviso espresso, detta sentenza ravvisa una “diversa valutazione complessiva delle emergenze fattuali”, più che un “contrasto sincrono di giurisprudenza”. Afferma, quindi, che la lettura della norma giustifica una diversa impostazione ermeneutica, “perché non a caso il legislatore discrimina tra edificio o altra cosa immobile destinata a lunga durata, da un lato, e opera, dall’altro. L’opera cui allude la norma non si identifica necessariamente con l’edificio o con la cosa immobile destinata a lunga durata, ma ben può estendersi a qualsiasi intervento, modificativo o riparativo, eseguito successivamente all’originaria costruzione dell’edificio, con la conseguenza che anche il termine compimento, ai fini della delimitazione temporale decennale della responsabilità, ha ad oggetto non già l’edificio in sé considerato, bensì l’opera, eventualmente realizzata successivamente alla costruzione dell’edificio”. Ha osservato, inoltre, che “l’etimologia del termine costruzione non necessariamente deve essere ricondotta alla realizzazione iniziale del fabbricato, ma ben può riferirsi alle opere successive realizzate sull’edificio pregresso, che abbiano i requisiti dell’intervento costruttivo”. Pertanto, anche “gli autori di tali interventi di modificazione o riparazione possono rispondere ai sensi dell’art. 1669 c.c. allorché le opere realizzate abbiano una incidenza sensibile sugli elementi essenziali delle strutture dell’edificio ovvero su elementi secondari od accessori, tali da compromettere la funzionalità globale dell’immobile stesso”. Per contro, prosegue la sentenza, “nessun valore può essere attribuito con riguardo alla responsabilità di cui all’art. 1669 c. c. alle classificazioni urbanistiche predisposte dal legislatore al diverso fine del recupero di manufatti preesistenti: la differenza dei parametri di riferimento giustifica l’integrale responsabilità dell’appaltatore sia in presenta di interventi di manutenzione straordinaria sia in ipotesi di manutenzione ordinaria ai sensi dell’art. 31 della legge n. 457 del 1978”. 3.3. – Invece, Cass. n. 18046/12, richiamata tra altre nel motivo di ricorso, non pare prendere posizione nell’un senso piuttosto che nell’altro, sebbene in quel caso fosse sul tappeto, perché dedotta dalla ricorrente venditrice – (ri)costruttrice, la differenza tra l’imperfetta realizzazione di immobili di nuova costruzione, rientrante nell’art. 1669 c.c., e i difetti di specifici lavori di ristrutturazione, che sosteneva non riconducibili alla norma. In detta sentenza, infatti, questa Corte ha ritenuto la censura non accoglibile in parte per difetto di autosufficienza, e in parte perché la pronuncia impugnata faceva riferimento all’inadeguatezza sia dei lavori di completa ristrutturazione compiuti dai venditori a stregua della concessione, sia di quelli di rifinitura, mentre le censure della ricorrente attenevano alla configurabilità, affermata dalla Corte territoriale, della violazione dell’art. 1669 c.c. in relazione solo a tali ultimi lavori. 4. – Queste Sezioni unite aderiscono all’orientamento meno restrittivo, ritenendolo sostenibile sulla base di ragioni d’interpretazione storico-evolutiva, letterale e teleologica. 4.1. – In primo luogo vale premettere e chiarire che anche opere più limitate, aventi ad oggetto riparazioni straordinarie, ristrutturazioni, restauri o altri interventi di natura immobiliare, possono rovinare o presentare evidente pericolo di rovina del manufatto, tanto nella porzione riparata o modificata, quanto in quella diversa e preesistente che ne risulti altrimenti coinvolta per ragioni di statica. L’attenzione va, però, soffermata principalmente sull’ipotesi dei “gravi difetti”, sia perché confinaria rispetto al regime ordinario degli artt. 1667 e 1668 c.c., sia per il rilievo specifico che i “gravi difetti” assumono nel caso in oggetto, sia per le ragioni di carattere generale che emergeranno più chiaramente di seguito. 4.2. – Innumerevoli altre volte la giurisprudenza di questa Corte, pur non esaminando in maniera immediata e consapevole la questione in esame, si è occupata dell’art. 1669 c.c., presupponendone (per difetto di contrasto fra le parli o per altre ragioni) l’applicabilità anche in riferimento ad opere limitate. Ed è pervenuta a soluzioni applicative di detta norma che appaiono poter prescindere dalla necessità logica di un’edificazione ab imo o di una costruzione ex novo. Si è ritenuto, infatti, che sono gravi difetti dell’opera, rilevanti ai fini dell’art. 1669 c.c., anche quelli che riguardano elementi secondari ed accessori (come impermeabilizzazioni, rivestimenti, infissi ecc.) purché tali da compromettere la funzionalità globale dell’opera stessa e che, senza richiedere opere di manutenzione straordinaria, possono essere eliminati solo con interventi di manutenzione ordinaria ai sensi dell’art. 31 legge n. 457/78 e cioè con “opere di riparazione, rinnovamento e sostituzione delle finiture degli edifici” o con “opere necessarie per integrare o mantenere in efficienza gli impianti tecnologici esistenti” (sentenze nn. 1164/95 e 14449/99; in senso del tutto analogo e con riferimento a carenze costruttive anche di singole unità immobiliari, v. n. 8140/04, che ha ritenuto costituire grave difetto lo scollamento e la rottura, in misura percentuale notevole rispetto alla superficie rivestita, delle mattonelle del pavimento dei singoli appartamenti; da premesse conformi procedono le nn. 11740/03, 81/00, 456/99, 3301/96 e 1256/95; di un apprezzabile danno alla funzione economica o di una sensibile menomazione della normale possibilità di godimento dell’immobile, in relazione all’utilità cui l’opera è destinata, parlano le sentenze nn. 1393/98, 1154/02, 7992/97, 5103/95, 1081/95, 3644/89, 6619/88, 6229/83, 2523/81, 1178/80, 839/80, 1472/75 e 1394/69). Esemplificando, sono stati inquadrati nell’ambito della norma in oggetto i gravi difetti riguardanti: la pavimentazione interna ed esterna di una rampa di scala e di un muro di recinzione (sentenza n. 2238/12); opere di pavimentazione e di impiantistica (n. 1608/00); infiltrazioni d’acqua, umidità nelle murature e in generale problemi rilevanti d’impermeabilizzazione (nn. 84/13, 21351/05, 117/00, 4692/99, 2260/98, 2775/97, 3301/96, 10218/94, 13112/92, 9081/92, 9082/91, 2431/86, 1427/84, 6741/83, 2858/83, 3971/81, 3482/81, 6298/80, 4356/80, 206/79, 2321/77, 1606/76 e 1622/72); un ascensore panoramico esterno ad un edificio (n. 20307/11); l’inefficienza di un impianto idrico (n. 3752/07); l’inadeguatezza recettiva d’una fossa biologica (n. 13106/95); l’impianto centralizzato di riscaldamento (nn. 5002/94, 7924/92, 5252/86 e 2763/84); il crollo o il disfacimento degli intonaci esterni dell’edificio (nn. 6585/86, 4369/82 e 3002/81, 1426/76); il collegamento diretto degli scarichi di acque bianche e dei pluviali discendenti con la condotta fognaria (n. 5147/87); infiltrazioni di acque luride (n. 2070/78). Se ne ricava, inconfutabile nella sua oggettività, un dato di fatto. Nell’economia del ragionamento giuridico sotteso ai casi sopra menzionati, che fa leva sulla compromissione del godimento dell’immobile secondo la sua propria destinazione, è del tutto indifferente che i gravi difetti riguardino una costruzione interamente nuova. La circostanza che le singole fattispecie siano derivate o non dall’edificazione primigenia di un fabbricato non muta i termini logico-giuridici dell’operazione ermeneutica compiuta in ormai quasi mezzo secolo di giurisprudenza, perché non preordinata al (né dipendente dal) rispetto dell’una o dell’altra opzione esegetica in esame. Spostando l’attenzione sulle componenti non strutturali del risultato costruttivo e sull’incidenza che queste possono avere sul complessivo godimento del bene, la giurisprudenza ha mostrato di porsi dall’angolo visuale degli elementi secondari ed accessori. Questo non implica di necessità propria che si tratti della prima realizzazione dell’immobile, essendo ben possibile che l’opus oggetto dell’appalto consista e si esaurisca in questi stessi e soli elementi. Ferma tale angolazione, a fortiori deve ritenersi che ove l’opera appaltata consista in un intervento di più ampio respiro edilizio (come, appunto, una ristrutturazione), quantunque non in una nuova costruzione, l’art. 1669 c.c. sia ugualmente applicabile. In conclusione, considerare anche gli elementi “secondari” ha significato distogliere il focus dal momento “fondativo” dell’opera per direzionarlo sui “gravi difetti” di essa; per desumere i quali è stato necessario indagare altro, vale a dire l’aspetto funzionale del prodotto conseguito. 5. – Come la previsione dei “gravi difetti” dell’opera sia il risultato d’un progressivo allontanamento del precetto dal suo nucleo originario, lo dimostra la storia della norma. Derivata dall’art. 1792 del codice napoleonico (il quale stabiliva che “Si l’edifice construit a prix fait, perit en tout ou en partie par le vice de la construction, meme par le vice du sol, les architecte et entrepreneur en sont roonsables pendant dix ans”), essa così recitava sotto l’art. 1639 del c.c. del 1865: “Se nel corso di dieci anni dal giorno in cui fu compiuta la fabbricazione di un edificio o di altra opera notabile, l’uno o l’altra rovina in tutto o in parte, o presenta evidente pericolo di rovinare per difetto di costruzione o per vizio del suolo, l’architetto e l’imprenditore ne sono responsabili”. Rispetto all’ascendente francese, la norma aveva, dunque, aggiunto un quid pluris (cioè le altre opere notabili e il pericolo di rovina). Ma – si noti – aveva mantenuto inalterato il soggetto della seconda proposizione subordinata (“…l’uno o l’altra…”), cioè l’edificio, cui appunto aveva aggiunto “altra opera notabile”. Un ulteriore e consapevole passo in avanti è stato operato dal codice civile del 1942, il quale prevede che quando si tratta di edifici o di altre cose immobili destinate per la loro natura a lunga durata, se, nel corso di dieci anni dal compimento, l’opera, per vizio del suolo o per difetto della costruzione, rovina in tutto o in parte, ovvero presenta evidente pericolo di rovina o gravi difetti, l’appaltatore è responsabile nei confronti del committente e dei suoi aventi causa, purché sia fatta la denunzia entro un anno dalla scoperta. Si legge nella relazione del Guardasigilli (par. 704): “Innovando poi al codice del 1865 si è creduto di non dover limitare la sfera di applicazione della norma in questione alle sole ipotesi di rovina di tutto o parte dell’opera o di evidente pericolo di rovina, ma si è estesa la garanzia anche alle ipotesi in cui l’opera presenti gravi difetti. Naturalmente questi difetti devono essere molto gravi, oltre che riconoscibili al momento del collaudo, e devono incidere sempre sulla sostanza e sulla stabilità della costruzione, anche se non minacciano immediatamente il crollo di tutta la costruzione o di una parte di essa o non importano evidente pericolo di rovina. Non vi è dubbio che la giurispruden.za farà un’applicazione cauta di questa estensione, in conseguenza del carattere eccezionale della responsabilità dell’appaltatore”. (Il riferimento alla riconoscibilità dei gravi difetti al momento del collaudo è, ad evidenza, un fuor d’opera. Concessa per un decennio, la garanzia ex art. 1669 c.c. copre anche e soprattutto i gravi difetti che si manifestino soltanto in progresso di tempo). Come si è visto, però, la postulata eccezionalità dell’art. 1669 c.c. non è valsa ad arginarne l’applicazione. Chiamata a dotare il sintagma “gravi difetti” di un orizzonte di senso, la giurisprudenza ha ovviamente seguito l’unica strada percorribile, quella di stemperare la vaghezza del concetto giuridico al calore dei fatti. 5.1. – Il mutamento di prospettiva nel codice del 1942 è evidente per due ragioni. La prima, d’ordine logico, è che la nozione di “gravi difetti” per la sua ampiezza è omogenea a qualunque opera, edilizia e non, per cui meglio si presta al riferimento, del pari generico, alle altre cose immobili. In secondo luogo, e l’argomento è di indole letterale, mentre nel testo del 1865 il soggetto della seconda proposizione subordinata era l’edificio o altra opera notabile (“l’uno o l’altra”), nella frase che vi corrisponde nell’art. 1669 c.c. il soggetto diviene “l’opera”, nozione che rimanda al risultato cui è tenuto l’appaltatore (art. 1655 c.c.). E dunque qualsiasi opera su di un immobile destinato a lunga durata, a prescindere dal fatto che, ove di natura edilizia, essa consista o non in una nuova fabbrica. Ben si comprende, allora, che nell’ampliare il catalogo dei casi di danno rilevante ai sensi dell’art. 1669 c.c., l’aggiunta dei “gravi difetti” ha comportato per trascinamento l’estensione dell’area normativa della disposizione, includendovi qualsiasi opera immobiliare che (per traslato) sia di lunga durata e risulti viziata in grado severo per l’inadeguatezza del suolo o della costruzione. Ne è seguita, coerente nel suo impianto complessivo, l’interpretazione teleologica fornita dalla giurisprudenza, che è andata oltre l’originaria visione dell’art. 1669 c.c. come norma di protezione dell’incolumità pubblica, valorizzando la non meno avvertita esigenza che l’immobile possa essere goduto ed utilizzato in maniera conforme alla sua destinazione. Completano e confermano la validità di tale esito ermeneutico, l’irrazionalità (non conforme ad un’interpretazione costituzionalmente orientata) di un trattamento diverso tra fabbricazione iniziale e ristrutturazione edilizia, questa non diversamente da quella potendo essere foriera dei medesimi gravi pregiudizi; e la pertinente osservazione (v. la richiamata sentenza n. 22553/15) per cui costruire, nel suo significato corrente (oltre che etimologico) implica non l’edificare per la prima volta e dalle fondamenta, ma l’assemblare tra loro parti convenientemente disposte (cum struere, cioè ammassare insieme). 6. – Così ricomposta (la storia e) l’esegesi della norma, il vincolo letterale su cui l’interpretazione restrittiva dell’art. 1669 c.c. pretende di fondarsi perde la propria base logico-giuridica. Infatti, riferire l’opera alla “costruzione” e questa a un nuovo fabbricato, inteso quale presupposto e limite della responsabilità aggravata dell’appaltatore (come ritiene Cass. n. 24143/07), non sembra possibile proprio dal punto di vista letterale. Si noti che nel testo della norma il sostantivo “costruzione” rappresenta un nomen actionis, nel senso che sta per “attività costruttiva”; e non potrebbe essere altrimenti, visto che se esso valesse (come mostra d’intendere la sentenza appena citata) quale specificazione riduttiva del soggetto (l’opera) della (terza, nel testo vigente) proposizione subordinata, si avrebbe una duplicazione di concetti ad un tempo inutile e fuorviante. Inoltre, il supposto impiego sinonimico di “costruzione” quale nuovo edificio, porterebbe a intendere la norma come se affermasse che l’opera può rovinare per difetto suo proprio. Lettura criptica, questa, che restituirebbe inalterato all’interprete il problema ermeneutico, dovendosi stabilire cosa sia il vizio proprio di un’opera; salvo convenire che esso è quello che deriva (da un vizio del suolo o) dal difetto di costruzione, così confermandosi che quest’ultimo sostantivo allude, appunto, all’attività dell’appaltatore. Non senza aggiungere che supponendo la tesi qui non condivisa, a) sarebbe stato ben più logico un diverso incipit della norma (e cioè, “Quando si tratta (della costruzione) di edifici…”); e b) il termine “costruzione” risulterebbe irriferibile agli altri immobili di lunga durata, pure contemplati dall’art. 1669 c.c., per i quali, paradossalmente, questa sarebbe applicabile solo se rovina, evidente pericolo di rovina o gravi difetti dipendessero da vizio del suolo, cioè da una soltanto delle due cause ivi indicate (e, per soprammercato, proprio quella che naturaliter fa pensare alle opere murarie). Ancora. Incentrando l’interpretazione dell’art. 1669 c.c. sul concetto di “costruzione” quale nuova edificazione, diverrebbe (se non automatico, almeno) spontaneo il rinvio al concetto normativo di costruzione così come elaborato dalla giurisprudenza di questa Corte in materia di distanze. E, in effetti, Cass. n. 24143/07 sembra presupporlo lì dove afferma (cosa in sé condivisibile) che la norma in commento ricomprende la sopraelevazione, la quale è costruzione nuova ed autonoma rispetto all’edificio sopraelevato. Ma è una tematica del tutto estranea, quella degli artt. 873 e ss. c.c., il rimando alla quale sortirebbe effetti contraddittori e inaccettabili anche per la tesi seguita dal citato precedente, sol che si consideri che ai fini delle distanze è costruzione un balcone (v. sentenza n. 18282/16), ma non la ricostruzione fedele, integrale e senza variazioni plano-volumetriche di un edificio preesistente (v. ordinanza S.U. n. 21578/11 e sentenza n. 3391/09). 6.1. – Non meno controvertibile l’altro argomento – la specialità o l’eccezionalità della norma – utilizzato dall’interpretazione restrittiva dell’art. 1669 c.c. per escluderne l’applicazione analogica. In disparte il fatto che (i) solo di specialità potrebbe trattarsi, nel senso che la responsabilità aggravata prevista da detta disposizione è speciale rispetto al regime ordinario del risarcimento del danno per colpa ai sensi dell’art. 1668, 1 comma c.c.; che (ii) tale specialità si è già attenuata fortemente allorché la giurisprudenza di questa Corte ha ammesso, oltre all’azione risarcitoria, quella di riduzione del prezzo, di condanna specifica all’eliminazione dei difetti dell’opera e di risoluzione, che costituiscono il contenuto della garanzia ordinaria cui è tenuto l’appaltatore (per l’affermativa, che sembra ormai consolidata, cfr. nn. 815/16, 8140/04, 8294/99, 10624/96, 1406/89 e 2763/84; contra, le più risalenti sentenze nn. 2954/83, 2561/80 e 1662/68); e che (iii) l’analogia serve a disciplinare ciò che non è positivizzato, non a riposizionare i termini di una regolamentazione data; tutto ciò a parte, quanto fin qui considerato dimostra come l’art. 1669 c.c. includa a pieno titolo gli interventi manutentivi o modificativi di lunga durata, la cui potenziale incidenza tanto sulla rovina o sul pericolo di rovina quanto sul normale godimento del bene non opera in modo dissimile dalle ipotesi di edificazione ex novo. Pertanto, la pur indubbia specialità della protezione di lunga durata accordata al committente (protezione che resiste anche al collaudo: cfr. Cass. nn. 7914/14, 1290/00 e 4026/74), non interferisce con la questione in oggetto. 7. – Poco o punto rilevante, e dunque non decisiva ai fini in esame, la natura extracontrattuale della responsabilità ex art. 1669 c.c. – con carattere di specialità rispetto alla previsione generale dell’art. 2043 c.c. – costantemente affermata dalla giurisprudenza (tanto che Cass. nn. 4035/17 e 1674/12 hanno escluso che la relativa controversia possa rientrare nell’ambito della clausola che si limiti a compromettere in arbitri le liti nascenti da un contratto d’appalto). Tutt’altro che monolitica, invece, è al riguardo la dottrina. Ammessa anche dalle sentenze nn. 24143/07 e 10658/15, che come detto escludono l’applicazione dell’art. 1669 c.c. alle ipotesi di riparazioni o modificazioni, la tesi della natura extracontrattuale di detta responsabilità; qualificata come ex lege (cfr. Cass. n. 261/70 e il brano della relazione al c.c. del 1942 riportato supra al paragrafo 5) e prevista per ragioni di ordine pubblico e di tutela dell’incolumità personale dei cittadini, quindi, inderogabile e irrinunciabile (v. Cass. n. 81/00), ha anch’essa origini remote, essendo stata altrettanto costantemente affermata dalla giurisprudenza sotto l’impero del c.c. del 1865 a partire dagli anni venti del XX secolo. Ciò allo scopo di riconoscere l’azione risarcitoria anche agli acquirenti del costruttore-venditore, essendo invalsa già in allora, con lo sviluppo delle attività edilizie, l’unificazione delle due figure. 7.1. – Ai limitati fini che qui rilevano può solo osservarsi che, come sopra detto, la categoria dei gravi difetti tende a spostare il baricentro dell’art. 1669 c.c. dall’incolumità dei terzi alla compromissione del godimento normale del bene, e dunque da un’ottica pubblicistica ed aquiliana ad una privatistica e contrattuale. Oltre a ciò, va considerata la maggior importanza che sul tema della tutela dei terzi ha assunto, invece, l’esperienza dell’appalto pubblico; l’espresso riconoscimento dell’azione anche agli aventi causa del committente (i quali possono agire anche contro il costruttore-venditore: fra le tante, v. Cass. nn. 467/14, 9370/13 e 2238/12 e 4622/02), il che ha privato del suo principale oggetto la teoria della responsabilità extracontrattuale ex art. 1669 c.c.; i più recenti approdi della dottrina sull’efficacia ultra partes del contratto; e – da ultima, ma non ultima – la possibilità che tale efficacia operi in favore dei terzi nei casi previsti dalla legge (art. 1372, cpv. c.c.). Tutto ciò rende ormai meno attuale il tema della natura extracontrattuale della responsabilità di cui all’art. 1669 c.c., che se non ha esaurito la propria funzione storica (per difetto di rilevanza non è questa la sede per appurarlo), di sicuro ha perso l’originaria centralità che aveva nell’interpretazione della norma. 8. – Per le considerazioni svolte l’unico motivo di ricorso deve ritenersi fondato. Consegue la cassazione della sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Ancona, che nel decidere il merito si atterrà al seguente principio di diritto: “l’art. 1669 c.c. è applicabile, ricorrendone tutte le altre condizioni, anche alle opere di ristrutturazione edilizia e, in genere, agli interventi manutentivi o modificativi di lunga durata su immobili preesistenti, che (rovinino o) presentino (evidente pericolo di rovina o) gravi difetti incidenti sul godimento e sulla normale utilizzazione del bene, secondo la destinazione propria di quest’ultimo”. 9. – Al giudice di rinvio è rimessa, ai sensi dell’art. 385, terzo comma, c.p.c., anche la statuizione sulle spese del presente giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso e cassa la sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Ancona, che provvederà anche sulle spese di cassazione.

 

 

 

 

Reati tributari. Sussiste il reato di emissione di fatture per operazioni inesistenti se

“Il reato di emissione di fatture od altri documenti per operazioni inesistenti […] ricorra, da un lato, ove i beni o i servizi siano effettivamente entrati nella sfera giuridico-patrimoniale dell’impresa utilizzatrice delle fatture e, dall’altro lato, ove sussista l’elemento della simulazione soggettiva, ossia la rappresentazione documentale della provenienza della prestazione oggetto dell’imposizione, da un soggetto giuridico differente da quello indicato in fattura il quale, dunque, l’abbia effettivamente erogata”.

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza n. 24307/17; depositata il 17 maggio

Testo della sentenza

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 19 gennaio – 17 maggio 2017, n. 24037
Presidente Amoroso – Relatore Renoldi

Ritenuto in fatto

1. A seguito di una verifica fiscale effettuata dall’Agenzia Entrate – Direzione Regionale della Liguria nei confronti della società E.R.M. S.p.A. era emerso che in occasione della cessione, da parte della predetta società, del 49% delle quote della partecipata I. S.r.l. a favore di una società olandese del gruppo russo L., era stata indicato, quale onere accessorio, il versamento della somma di 3.368.750 euro di imponibile quale corrispettivo dell’attività di mediazione svolta da F.C., legale rappresentante della F. S.r.I., la quale svolgeva attività di commercio al dettaglio di articoli di cancelleria e che in data 3/12/2008 aveva emesso, in relazione a tale operazione, la fattura n. 111 (per un importo di 4.042.500 euro, pari alla somma di 3.368.750 euro di imponibile maggiorata del 20% a titolo di IVA da corrispondere).
Il successivo controllo, eseguito nei confronti della società F. S.r.l., aveva consentito di appurare che sul conto corrente bancario alla stessa intestato era stata effettivamente accreditata, in data 18/12/2008, la somma di 3.655.093,75 euro (divergente dalla somma indicata in fattura in quanto comprensiva anche di una ritenuta di acconto a favore della F.); e che i risultati dell’operazione non erano stati, però, riportati nella dichiarazione IVA, presentata dalla società di capitali di cui era legale rappresentante l’odierno imputato.
Inoltre, da ulteriori accertamenti eseguiti dalla Guardia di Finanza era, altresì, emerso che le somme corrisposte per la ricordata provvigione erano successivamente affluite, nell’arco di circa un trimestre, sui conti personali di C., il quale aveva successivamente eseguito una serie di prelievi da tali conti. E tuttavia, lo stesso C. non aveva indicato, nella propria dichiarazione dei redditi, le somme percepite per la mediazione svolta, sicché la Guardia di finanza aveva calcolato in 1.732.661 euro l’imposta da costui evasa a titolo di IRPEF.
1.1. A seguito di tali accertamenti, la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Genova aveva, quindi, chiesto il rinvio a giudizio di F.C., ipotizzando, nei suoi confronti, i delitti di cui agli artt. 81 cpv. cod. pen., 4 del D.Igs. n. 74/2000 (capo 1), 8 comma 1 del D.Igs. n. 74/2000 (capo 2), 4 del D.Igs. n. 74/2000 (capo 3). Secondo l’ipotesi accusatoria, infatti, C., in esecuzione di un medesimo disegno criminoso, nella sua qualità di legale rappresentante della F. S.r.l. ed al fine di evadere le imposte sui redditi e l’IVA, aveva per un verso omesso di indicare, nella dichiarazione annuale della società relativa all’anno 2008, le somme dalla stessa percepite ed attestate dalla fattura n. 111 del 3/12/2008 per 3.678.750,00 euro, con Iva non versata pari a 673.750,00 euro e IRES a 926.406,25 euro, e, dunque, elementi attivi per un ammontare superiore al 10% di quelli dichiarati, realizzando così un’evasione dell’imposta superiore a 103.291,38 euro (capo 1); e, per altro verso, egli aveva omesso di indicare, nella propria dichiarazione dei redditi relativa all’anno 2008, al fine di evadere le imposte Irpef, le somme percepite a titolo di provvigione per la ricordata attività di mediazione (costituenti elementi attivi di ammontare superiore 103.91,38 euro ed al 10% di quelli dichiarati), realizzando così un’evasione Irpef pari a 1.732.661 euro (capo 3). Inoltre, secondo la tesi accusatoria, al fine di realizzare quest’ultima attività illecita a proprio personale vantaggio, C. aveva fittiziamente emesso, nella sua qualità di legale rappresentante della Fin cor S.r.I., la fattura n. 111 del 3/12/2008 per 3.678.750 euro in relazione ad un’operazione soggettivamente inesistente (capo 2).
1.2. Con sentenza in data 15/01/2015, emessa all’esito di giudizio abbreviato, il Giudice dell’udienza preliminare presso il Tribunale di Genova aveva, quindi, condannato F.C., con la diminuente del rito e con la recidiva reiterata infraquinquennale, alla pena di quattro anni e sei mesi di reclusione, riconoscendolo colpevole dei reati, unificati dal vincolo della continuazione, contestati ai capi 2) e 3) dell’imputazione; e disponendo, altresì, la confisca per equivalente degli immobili e delle somme di denaro in sequestro fino alla concorrenza del valore di € 1.732.661,00. Con lo stesso provvedimento C. era stato, invece, assolto, con la formula “perché il fatto non sussiste”, in relazione al delitto di cui all’art. 4 del D.Igs. n. 74/2000, contestato al capo 1);
ciò sul presupposto che l’attività di mediazione, dal lato della società, configurasse un’operazione inesistente e che, di conseguenza, la F. S.r.l. non avesse, in realtà, percepito alcun reddito da tale attività.
2. Con sentenza in data 10/12/2015 la Corte di appello di Genova riformò, solo in parte, la pronuncia di primo grado, ritenendo che la E.R.M. S.p.A. avesse versato una somma pari a 387.406,25 euro a titolo di ritenuta d’acconto e che, pertanto, la somma evasa a titolo di IRPEF fosse pari a soli 1.345.254,75 euro, per l’effetto riducendo la confisca all’importo corrispondente.
3. Avverso la sentenza di appello ha proposto ricorso per cassazione lo stesso C., a mezzo del proprio difensore, sollecitando il suo proscioglimento in relazione al reato di cui al n. 2) del capo di imputazione, nonché l’accoglimento delle doglianze relative al trattamento sanzionatorio e la limitazione dell’ammontare dell’imposta evasa a soli 1.055.542,30 euro.
A sostegno dell’impugnazione C. ha dedotto sei motivi di censura.
3.1. Con il primo di essi, il ricorrente denuncia, ex art. 606, comma 1, lett. e) cod. proc. pen., la mancanza di motivazione in relazione al fatto che l’attività di mediazione svolta dalla E. dissimulasse, fin dall’inizio, un meccanismo volto a consentire a C. di non pagare le imposte sul reddito delle persone fisiche.
3.2. Con il secondo motivo deduce, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. e) cod. proc. pen., la contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione per avere la sentenza affermato che l’intera operazione sarebbe stata realizzata da C. attraverso lo schermo costituito dalla società di capitali F. S.r.l. in modo da garantire il patrimonio personale dell’imputato ed in quanto la sanzione prevista per l’omessa dichiarazione era più lieve rispetto a quella per la frode fiscale. In realtà ove C. avesse agito, fin dal principio, con il proposito di evadere le imposte sui futuri emolumenti, avrebbe operato come persona fisica e non per il tramite della società, atteso che in caso di accertamento fiscale egli sarebbe incorso soltanto nella violazione dell’art. 4 D.Igs. n. 74/2000, laddove operando, invece, come amministratore della F. sarebbe incorso, come poi avvenuto, anche nella violazione dell’art. 8 del predetto decreto.
3.3. Con il terzo motivo, il ricorrente deduce, ex art. 606, comma 1, lett. b) ed e) cod. proc. pen., l’erronea interpretazione dell’art. 530 cod. proc. pen. nonché l’illogicità della motivazione con riferimento al principio dell’oltre ogni ragionevole dubbio. Dopo avere ribadito le ragioni per le quali la condotta di C., quale legale rappresentante della F., avrebbe configurato una violazione della normativa fiscale IVA ed IRES e non una evasione IRPEF dello stesso imputato, realizzata quale persona fisica, il ricorso argomenta in ordine al fatto che la fattura n. 111 non sarebbe riferibile ad una operazione soggettivamente inesistente; ciò sul presupposto che tale situazione ricorrerebbe quando “uno dei soggetti dell’operazione sia rimasto del tutto estraneo alla stessa”, laddove, nel caso di specie, la F. avrebbe realmente percepito le somme pattuite per l’attività di mediazione, la quale ovviamente non avrebbe potuto che essere svolta, concretamente, da una persona fisica, individuata proprio in F.C.. Il fatto che, poi, quest’ultimo avesse effettuato una serie di prelievi dai conti correnti della società, avrebbe potuto, al più, rilevare come inadempienza ai doveri impostigli dalla sua qualità di Amministratore Unico della F. S.r.l..
3.4. Con il quarto motivo, il ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b) cod. proc. pen., l’inosservanza e/o erronea applicazione degli artt. 220 disp. att. cod. proc. pen., 191 cod. proc. pen., 234 cod. proc. pen. in relazione alla prova della sussistenza del reato di cui all’art. 8, comma 1, d.lgs. n. 74/2000. Ciò in quanto l’Agenzia delle Entrate – Direzione Regionale della Liguria, dopo che era emersa l’esistenza di indizi di reità aveva, comunque, proseguito nell’attività amministrativa di indagine ed accertamento, laddove il citato art. 220 dispone che, in tal caso, le operazioni debbano proseguire con l’osservanza delle disposizioni del codice di procedura penale. Per tale motivo, le risultanze contenute nella nota in data 6/07/2011, inviata dalla Agenzia delle Entrate, acquisite dopo la data del 16/05/2011 e fino a quella dell’inoltro della stessa, sarebbero state inutilizzabili ex art. 234, comma 2 cod. proc. pen..
3.5. Con il quinto motivo il ricorrente censura, ex art. 606, comma 1, lett. e) cod. proc. pen., la manifesta illogicità della motivazione della sentenza impugnata in ordine alla eccesiva severità del trattamento sanzionatorio, fondata sul presupposto che l’imputato non avesse riparato l’illecito, senza però tenere conto sia del suo precedente stato detentivo, sia della sottoposizione dei suoi beni a sequestro preventivo, sia della brevità dei tempi processuali, che non gli avrebbero permesso, suo malgrado, di attivare alcuna iniziativa riparatoria.
3.6. Con il sesto motivo si lamenta, ex art. 606, comma 1, lett. b) ed e) cod. proc. pen., la erronea applicazione dell’art. 4 d.lgs. n. 74/2000 e la contraddittorietà e/o manifesta illogicità della motivazione per avere la sentenza impugnata ritenuto che, quale base imponibile, sia stata correttamente indicata (ai fini delle imposte dirette), la somma di 4.042.500,00 euro comprensiva di IVA, avendo C. introitato tutto quanto aveva percepito. In realtà, dal momento che all’imputato era stata contestata la sola evasione IRPEF, non si sarebbe dovuto tenere conto dell’IVA, pari a 673.750,00 euro.

Considerato in diritto

1. Il ricorso è manifestamente infondato.
2. Occorre muovere, secondo l’ordine logico, dal quarto motivo di impugnazione, con il quale si censura la violazione dell’art. 220 disp. att. cod. proc. pen..
2.1. Sul punto, rileva preliminarmente il Collegio come la nota in data 6/07/2011 dell’Agenzia Entrate – Direzione Regionale della Liguria sia stata trasmessa, secondo quanto ammesso dalla stessa difesa dell’imputato, ex art. 331 cod. proc. pen., sicché è innanzitutto infondata la tesi secondo cui essa configuri un documento extraprocessuale ricognitivo di natura amministrativa, dovendo essa essere qualificata, ai sensi del comma 4 del citato art. 331, quale denuncia, presentata dall’autorità amministrativa, di un reato perseguibile di ufficio.
Nondimeno, è invece corretto il richiamo difensivo alla previsione dell’art. 220 disp. att. cod. proc. pen., secondo cui quando nel corso di attività ispettive o di vigilanza previste da leggi o decreti emergono indizi di reato e non meri sospetti, “gli atti necessari per assicurare le fonti di prova e raccogliere quant’altro possa servire per l’applicazione della legge penale sono compiuti con l’osservanza delle disposizioni del codice”.
Pertanto, come riconosciuto dallo stesso ricorrente, la parte di documento, compilata prima dell’insorgere degli indizi, ha sempre efficacia probatoria ed è come tale utilizzabile, mentre non può assumere una siffatta valenza quella redatta successivamente, qualora non siano state rispettate le disposizioni del codice di procedura penale (v. Sez. 3, n. 7930 del 30/01/2015, Marchetti e altro, Rv. 262518).
A tale proposito questa Corte ha pure osservato come, dalla semplice lettura della norma, emerga che la stessa presuppone, per la sua applicazione, la sussistenza della mera possibilità di attribuire rilevanza penale al fatto riscontrato nel corso dell’inchiesta amministrativa e, nel momento in cui esso viene rilevato, a prescindere dalla circostanza che esso possa essere riferito ad una persona determinata (Sez. 2, n. 2601 del 13/12/2005, Cacace, Rv. 233330;
Sez. U, n. 45477 del 28/11/2001, Raineri, Rv. 220291).
Ove le richiamate condizioni si verifichino, è dunque necessario che, a pena di inutilizzabilità, vengano osservate le disposizioni del codice di rito, ma soltanto per il compimento degli atti necessari all’assicurazione delle fonti di prova ed alla raccolta di quant’altro necessario per l’applicazione della legge penale (Sez. 3, n. 7930 del 30/01/2015, Marchetti e altro, Rv. 262518; Sez. 3, n. 27682 del 17/06/2014, Palmieri, Rv. 259948). Epperaltro, se le forme del codice di procedura penale devono essere osservate soltanto ove si faccia luogo al compimento degli atti necessari alla raccolta ed all’assicurazione delle fonti di prova, ciò significa che ogni qual volta non si debba fare luogo all’espletamento di atti garantiti, non è necessario osservare le norme del codice di rito.
Al fine di stabilire quando tale condizione sussista, l’art. 114 disp. att. cod. proc. pen. prevede che “nel procedere al compimento degli atti indicati nell’art. 356 [cod. proc. pen.], la polizia giudiziaria avverte la persona sottoposta alle indagini, se presente, che ha facoltà di farsi assistere dal difensore di fiducia”.
Ciò posto, dal contenuto testuale della norma in esame emerge con chiarezza che le attività ispettive fiscali non rientrano tra quelle indicate dall’art. 356 cod. proc. pen., che l’art. 114 disp. att. cod. proc. pen., espressamente richiama. In altre parole, la disposizione in esame impone l’avviso del diritto all’assistenza del difensore solo ed esclusivamente nel caso in cui si proceda al compimento di uno degli atti indicati dall’art. 356 cod. proc. pen., il quale, a sua volta, stabilisce che il difensore della persona nei cui confronti vengono svolte le indagini ha facoltà di assistere, senza diritto di essere preventivamente avvisato, agli atti previsti dagli artt. 352 (perquisizioni) e 354 (accertamenti urgenti sui luoghi, sulle cose e sulle persone e sequestro) oltre che all’immediata apertura del plico autorizzata dal pubblico ministero a norma dell’art. 353, comma 2, cod. proc. pen.. E’ questa una elencazione tassativa, come si desume dal puntuale richiamo ai singoli atti elencati.
Consegue alle considerazioni fin qui svolte che non avendo la Corte di legittimità la possibilità di un accesso indiscriminato agli atti del procedimento penale, al fine di verificare la utilizzabilità del risultato di singole attività di acquisizione di elementi indiziari è indispensabile che il ricorso specifichi quali risultati dell’attività investigativa debbano ritenersi, per le ragioni più sopra esposte, inutilizzabili.
2.2. Orbene, nel caso di specie, la difesa di C. si è limitata a censurare tutte le attività di accertamento e di acquisizione di documenti compiute successivamente alla data del 16/05/2011, allorché l’Agenzia delle entrate aveva instaurato il contraddittorio con la Società E.R.M. allo scopo di ottenere chiarimenti in merito alla natura ed al contenuto delle mediazioni oggetto di fatturazione, ritenendosi che da tale momento potesse ritenersi acclarata l’esistenza di reati tributari quali quelli previsti dagli artt. 4 e 8, comma 1 del D.Lgs. n. 74/2000. Sotto altro profilo, poi, il ricorso non contiene alcuna indicazione in ordine alla rilevanza della dedotta inutilizzabilità del materiale probatorio, non specificando quali conseguenze deriverebbero sotto il profilo della complessiva inidoneità del materiale probatorio residuo a dimostrare la responsabilità dell’imputato per i reati a lui ascritti.
Del resto, come osservato dalla sentenza impugnata, successivamente all’inoltro della notizia di reato, il Pubblico ministero aveva conferito una delega di indagini, ai sensi dell’art. 370 cod. proc. pen., alla Guardia di Finanza, sicché i riscontri rispetto all’originaria segnalazione era provenuti, soprattutto, dall’attività investigativa successivamente posta in essere; a nulla rilevando che detta delega, come osservato dalla difesa, fosse stata rilasciata in data 27/09/2011, non essendo tale circostanza indicativa, come invece opina il ricorrente, di un’affermazione di responsabilità basata su atti d’indagine inutilizza bili.
A fronte di doglianze formulate, in sede di ricorso, in maniera del tutto generica e non essendo, dunque, possibile, alla stregua di censure assolutamente aspecifiche verificare l’incidenza, sul materiale probatorio raccolto, dei lamentati vizi di inutilizzabilità di alcuni atti (cd. prova di resistenza), deve conclusivamente rilevarsi la manifesta infondatezza della questione dedotta con il quarto motivo di impugnazione.
3. Venendo, quindi, al terzo motivo di ricorso, giova in premessa ricordare che al giudice di legittimità non è consentito ipotizzare alternative opzioni ricostruttive della vicenda fattuale, sovrapponendo la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi, saggiando la tenuta logica della pronuncia portata alla sua cognizione mediante un raffronto tra l’apparato argomentativo che la sorregge ed eventuali altri modelli di ragionamento mutuati dall’esterno (Sez. Un., n. 12 del 31/05/2000, Jakani, Rv. 216260; in termini v. Sez. 2, n. 20806 del 5/05/2011, Tosto, Rv. 250362). Ne consegue che, quando i giudici di merito abbiano motivato, alla stregua di un percorso argornentativo scevro da profili di illogicità, le ragioni di fatto poste a fondamento della propria decisione, al giudice di legittimità non è consentito censurarne, sul piano della ricostruzione dei fatti, le scelte compiute accedendo ad ipotesi alternative, ove anche dotate di un maggiore grado di persuasività.
3.1. Tanto premesso, osserva il Collegio che, nel caso di specie, i giudici di merito hanno offerto una spiegazione perfettamente logica e plausibile del complesso delle ragioni per cui si è ritenuto che C. avesse svolto l’attività di intermediazione tra la ERG e la L. non come legale rappresentante della F. S.r.I., sottolineando, in primo luogo, come le due società non avrebbero potuto certo rivolgersi, per lo svolgimento di un’attività così peculiare, che certamente richiedeva competenze anche specialistiche, ad una società costituita per commerciare, al dettaglio, articoli di cancelleria; come le somme percepite da F. fossero successivamente confluite su conti riconducibili a C. o, comunque, fatte oggetto di prelievi in contanti da parte dell’imputato; come un altro degli intermediari coinvolti nell’operazione avesse avviato una causa civile nei confronti della persona fisica di C. in relazione ad una quota della provvigione pagata da E. S.p.A. e come lo stesso C. avesse avviato, personalmente e non nella qualità di amministratore unico della F. S.r.l., un’analoga iniziativa giudiziaria nei confronti della società L.. Elementi dai quali i giudici di merito hanno tratto, in maniera del tutto logica, il convincimento, criticato genericamente con il primo motivo di ricorso, secondo cui “il meccanismo ideato nascondeva ab initio un interesse di C. a non pagare le imposte come persona fisica”, sicché la F. S.r.l. fosse servita a realizzare un’operazione fraudolenta per il fisco venendo, non a caso, subito posta in liquidazione, il 31/12/2009, una volta esaurito l’affare.
3.2. A fronte di tale ricostruzione dei fatti, attraverso cui la sentenza impugnata ha adeguatamente esplicato, con percorso motivazionale coerente ed immune da censure logiche, le ragioni per le quali ha ritenuto che C. avesse agito in proprio e non nella qualità di legale rappresentante della società formalmente investita dell’attività di mediazione, il ricorso per un verso articola delle mere censure in fatto e, per altro verso, si limita a prospettare una ipotesi alternativa e, dunque, una differente lettura del materiale probatorio, sottolineando come fosse lecito che la società avesse compiuto atti giuridici esulanti dal suo oggetto sociale (circostanza mai messa in dubbio dai giudici di merito, i quali avevano, invece, rilevato come fosse del tutto inverosimile che una società che commerciava in articoli di cancelleria fosse stata incaricata di gestire una delicata operazione di mediazione, per svariati milioni di euro, tra società operanti nel settore petrolifero) o come potessero darsi altre possibili spiegazioni della condotta tenuta da C., il quale aveva effettuato ripetuti prelievi dai conti della società.
Ne consegue, dunque, sotto il profilo illustrato, la declaratoria di manifesta infondatezza della censura, atteso che il ricorso finisce per sollecitare un controllo da parte del giudice di legittimità che pacificamente esorbita, per le ragioni già illustrate, dagli stretti confini assegnati alla sua cognizione.
3.3. Sotto altro e concorrente profilo, è manifestamente infondata l’ulteriore questione, dedotta dal ricorrente, in relazione alla non configurabilità, nel caso di specie, di operazioni soggettivamente inesistenti.
In proposito, infatti, la difesa di C., dopo avere premesso che l’operazione di mediazione nella compravendita Erg-L. era stata prevista contrattualmente, atteso che F. S.r.l. era stata incaricata con il Mediation and Service Agreement del 21/06/2008, ha sottolineato altresì come fosse destituita di fondamento l’affermazione secondo cui la stessa F. non avesse percepito alcun effettivo reddito dall’operazione, avendo la E. effettivamente versato, in data 19/12/2008, l’importo dovuto sul c/c 437380 intestato a F. S.r.I., acceso presso la Banca C.. E per tale motivo, dal momento che nessuno dei soggetti dell’operazione era rimasto del tutto estraneo alla stessa, avrebbe fatto difetto il presupposto indispensabile per configurare una operazione soggettivamente inesistente, così come richiesto dalla giurisprudenza di legittimità.
3.3.1. Tale ricostruzione è, però, giuridicamente infondata.
Ritiene, infatti, il Collegio che il reato di emissione di fatture od altri documenti per operazioni inesistenti, previsto dall’art. 8 del D.Lgs. n. 74 del 2000, pacificamente configurabile anche in caso di fatturazione solo soggettivamente falsa, ricorra, da un lato, ove i beni o i servizi siano effettivamente entrati nella sfera giuridico-patrimoniale dell’impresa utilizzatrice delle fatture (in questo caso la Erg) e, dall’altro lato, ove sussista l’elemento della simulazione soggettiva, ossia la rappresentazione documentale della provenienza della prestazione oggetto dell’imposizione, da un soggetto giuridico differente da quello indicato in fattura, il quale, dunque, l’abbia effettivamente erogata.
Tale interpretazione, infatti, è consentita, innanzitutto, sia dall’argomento testuale, fondato sull’ampiezza della previsione normativa, la quale si riferisce genericamente ad “operazioni inesistenti”; sia dall’argomento teleologico, fondato sulla considerazione per cui, anche in tali casi, è possibile conseguire il fine illecito indicato dalla norma in esame, ovvero consentire ai terzi l’evasione delle imposte sui redditi e sul valore aggiunto (cfr. Sez. 3, n. 20353 del 17/03/2010, dep. 28/05/2010, Bizzozzero e altro, Rv. 247110; Sez. 3, n. 14707 del 14/11/2007, dep. 09/04/2008, Rossi e altri, Rv. 239658). Inoltre, lo stesso art. 1, comma 1, lett. a) del d.lgs. n. 74 del 2000 stabilisce che “per “fatture o altri documenti per operazioni inesistenti” si intendono le fatture o gli altri documenti aventi rilievo probatorio analogo in base alle norme tributarie, emessi a fronte di operazioni non realmente effettuate in tutto o in parte o che indicano i corrispettivi o l’imposta sul valore aggiunto in misura superiore a quella reale, ovvero che riferiscono l’operazione a soggetti diversi da quelli effettivi”.
Ne consegue che le operazioni soggettivamente inesistenti devono ritenersi configurabili anche quando, come nel caso di specie, la fattura rechi l’indicazione di un soggetto erogatore della prestazione imponibile (nel caso di specie la F.) diverso da quello effettivo (individuato nello stesso C.). Anche in una siffatta ipotesi, del resto, il documento esprime una chiara capacità decettiva, idonea a impedire la identificazione degli attori effettivi delle operazioni commerciali, precludendo o comunque ostacolando la possibilità dell’accertamento tributario e palesando, in questo modo, un nucleo di disvalore che ne giustifica pienamente la riconducibilità all’area del penalmente rilevante.
Sulla base delle considerazioni che precedono, il terzo motivo deve ritenersi manifestamente infondato, così come i primi due motivi di ricorso, i quali attengono a profili di ricostruzione della complessiva vicenda, con particolare riguardo al carattere fraudolento dell’intera operazione, secondo il ricorrente rimasto indimostrato; sicché gli stessi debbono ritenersi confutati alla stregua delle considerazioni svolte nell’analisi del terzo motivo.
3.4. Quanto, poi, al sesto motivo di ricorso, con il quale C. lamenta l’indebito computo, ai fini della evasione Irpef contestata al capo 3) dell’imputazione, delle somme dovute a titolo di IVA, ritiene il Collegio che le censure difensive siano totalmente inconferenti.
Infatti, nel caso di specie all’imputato non è stato contestato, al predetto capo di imputazione, il mancato versamento dell’IVA, quanto piuttosto, come ben evidenziato dai giudici di merito, il fatto che l’intera somma, comprensiva anche dell’IVA al 20%, fosse stata interamente introitata dall’imputato, sicché correttamente il calcolo dell’evasione dell’imposta sui redditi delle persone fisiche ha tenuto conto anche dell’ulteriore somma percepita e non dichiarata.
Ne consegue la manifesta infondatezza del relativo motivo di censura.
3.5. Venendo, infine, al quinto motivo di impugnazione, relativo alle questioni poste con riferimento al trattamento sanzionatorio, con l’atto di appello il ricorrente ne aveva chiesto il sensibile contenimento, sollecitando una rideterminazione della pena base a partire dal minimo edittale nonché il riconoscimento delle attenuanti generiche, da considerare equivalenti alla recidiva contestata. Ed a tal fine aveva sottolineato l’illogicità della decisione del giudice di prime cure, il quale aveva attribuito rilevanza al fatto che C. non avesse attivato alcuna iniziativa riparatoria, ciò che, tuttavia, l’imputato non sarebbe stato nelle condizioni di fare, dal momento che egli era stato dapprima detenuto in Svizzera, quindi aveva patito il sequestro preventivo dei beni e, infine, si era trovato, a seguito della rapida chiusura delle indagini preliminari ed alla immediata instaurazione del giudizio abbreviato, di fronte a cadenze processuali contratte e, comunque, assai ravvicinate.
Nel rispondere a tali doglianze, la sentenza impugnata aveva affermato che C. aveva chiesto di essere giustificato dalla predetta condizione, laddove “dalle proprie colpe non si può trarre un beneficio”; ciò che, si duole oggi il ricorrente, non sarebbe stato in realtà mai sostenuto in sede di impugnazione.
Similmente, il ricorso opina che il primo gravame non abbia mai affermato, diversamente da quanto riportato nella sentenza di secondo grado, che la condizione di contumacia dell’imputato non potesse giustificare l’asserito atteggiamento “di disinteresse del C. alle conseguenze del reato”.
3.5.1. In proposito, rileva nondimeno il Collegio che la Corte territoriale ha sviluppato, a partire dalla prima censura dell’imputato, una più articolata valutazione, fondata sul fatto che, da un lato, non possa invocarsi una situazione di asserita inesigibilità di condotte riparatorie da parte di chi vi abbia dato causa e che, dall’altro lato, C. non si fosse comunque attivato, sul piano riparatorio, successivamente alla sua liberazione. Tale apprezzamento deve ritenersi del tutto immune da vizi di natura logica e, come tale, non censurabile in questa sede, essendo la valutazione compiuta dai giudici genovesi sostanzialmente incentrata sull’assenza di qualunque manifestazione di disponibilità a farsi carico, anche parzialmente, delle conseguenze delle proprie condotte illecite, con ciò essendosi fatta corretta applicazione degli indici dettati dall’art. 133 cod. pen., con particolare riguardo al n. 3 del comma 2, relativo alla rilevanza da attribuire, sul piano dosimetrico, alla condotta susseguente al reato.
3.5.2. Analogamente, il ricorso censura il passaggio motivazionale con cui la Corte aveva rigettato la parte del motivo di appello sul trattamento sanzionatorio con cui si chiedeva la determinazione di una pena base inferiore, sul presupposto che le precedenti condotte di rilevanza penale dell’imputato venissero valutate due volte: in primis al momento della determinazione della pena base e, in un momento successivo, in sede di aumento per la recidiva.
Anche in relazione a tale profilo va, nondimeno, rilevato che le censure mosse al provvedimento si fondano sulla estrapolazione di una parte della più articolata motivazione resa dalla Corte d’appello, la quale ha, invece, sottolineato come l’entità della pena base, determinata in misura pari a tre anni di reclusione, trovasse giustificazione “più ancora che nella personalità negativa del C., nell’elevato importo dell’evasione fiscale, molto superiore al milione di euro”, con ciò palesandosi la sostanziale inconferenza delle deduzioni difensive espresse sul punto nel ricorso, avendo i giudici di merito fatto buon governo dei criteri enunciati negli artt. 132 e 133 cod. pen. che orientano l’esercizio della discrezionalità nella commisurazione del trattamento sanzionatorio; esercizio non censurabile in questa sede attraverso doglianze dirette a determinare una nuova valutazione della congruità della pena, la cui commisurazione non sia frutto, come in questo caso, di mero arbitrio o di ragionamento illogico (Sez. 5, n. 5582 del 30/09/2013, dep. 4/02/2014, Ferrario, Rv. 259142).
Pertanto, anche le doglianze sviluppate con il quinto motivo di impugnazione sono manifestamente infondate.
4. Alla stregua delle considerazioni che precedono il ricorso deve essere, dunque, dichiarato inammissibile.
Alla luce della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in 2.000,00 euro.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e della somma di euro 2.000 (duemila) in favore della Cassa delle Ammende.

Reati edilizi . Se v’è buona fede l’ignoranza può escludere la colpa

“Nelle fattispecie contravvenzionali la buona fede può acquistare rilevanza giuridica solo a condizione che essa si traduca nella mancanza di consapevolezza dell’illiceità del fatto e che derivi da un elemento positivo estraneo all’agente, consistente in una circostanza che induca alla convinzione della liceità del comportamento tenuto”

Testo della sentenza

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 7 febbraio – 18 maggio 2017, n. 24585
Ritenuto in fatto

  1. Con sentenza in data 4/07/2016 il Tribunale di Asti aveva assolto, con la formula “perché il fatto non costituisce reato”, M.N. , S.G. e Ma.Sa. in relazione ai reati di cui agli artt. 71 (capo a) e 93 e 95 (capo b) del d.p.r. n. 380 del 2001, per avere: la prima in qualità di committente, il secondo di esecutore ed il terzo di direttore dei lavori, eseguito opere in conglomerato cementizio armato – consistenti in un muro di confine, in piloni di sostegno del cancello, in un muretto di recinzione su strada – in violazione dell’art. 64, commi 2, 3 e 4, nonché per avere omesso di presentare allo Sportello unico per l’edilizia la denuncia delle predette opere strutturali prima del loro inizio; fatti accertati in (omissis) .

1.1. Secondo il primo giudice, infatti, pur essendo stata pacificamente dimostrata la realizzazione delle opere sopra menzionate, dall’istruttoria dibattimentale era, altresì, emerso che i manufatti, costruiti in cemento armato, non erano destinati ad assolvere alcuna funzione statica e che, per tale motivo, gli imputati avevano ritenuto di non dovere presentare preventivamente la denuncia prevista dall’art. 65 del d.p.r. n. 380/2001 per le opere in conglomerato cementizio armato, che l’art. 53, comma 1 considera come tali, appunto, solo quando assolvano ad una funzione statica. Sulla base della riportata interpretazione della normativa di riferimento, avallata dalla Circolare del Ministero dei lavori pubblici 14/02/1974, n. 11951, gli imputati si erano, dunque, consapevolmente determinati a non presentare la denuncia in questione, incorrendo in un errore scusabile, siccome indotto da una normativa suscettibile di differenti opzioni esegetiche e non potendo attribuirsi rilievo dirimente al contrario indirizzo della giurisprudenza di legittimità, che gli imputati non sarebbero stati tenuti a conoscere. 2. Avverso la predetta sentenza ha presentato ricorso per cassazione il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Asti, deducendo, con un unico motivo di impugnazione proposto ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b) cod. proc. pen., l’inosservanza o erronea applicazione della legge penale in relazione alla sola contravvenzione di cui agli artt. 93 e 95 del d.p.r. n. 380 del 2001 contestata al capo b). Ciò sul presupposto che tale figura di reato sia applicabile a tutte le opere realizzate in zona sismica, indipendentemente dalla funzione statica dalle stesse svolte; e non essendo stato, per altro verso, dimostrato che gli imputati versassero, nella specie, in una situazione di errore scusabile, anche tenuto conto del consolidato indirizzo interpretativo della giurisprudenza di legittimità in materia di obblighi di informazione sulla normativa settoriale.

Considerato in diritto

  1. Il ricorso è fondato. 2. Con la fattispecie descritta al capo b) della rubrica è stato contestato agli imputati di avere omesso di presentare allo Sportello unico per l’edilizia la denuncia delle opere strutturali indicate al capo a) – consistenti di un muro di confine, dei piloni di sostegno di un cancello, di un muretto di recinzione su strada – prima di procedere al loro inizio. Come correttamente posto in luce dal ricorrente, la contravvenzione de qua sanziona, al comma 1, l’omesso preavviso scritto allo sportello unico delle “costruzioni, riparazioni e sopraelevazioni” alla cui presentazione è tenuto chiunque intenda procedervi “nelle zone sismiche di cui all’articolo 83”. Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di questa Corte il reato in contestazione resta integrato indipendentemente sia dalle caratteristiche dell’opera edilizia, che può consistere in qualsiasi intervento edilizio – con la sola eccezione di quelli di semplice manutenzione ordinaria – effettuato in zona sismica, comportante o meno l’esecuzione di opere in conglomerato cementizio armato (Sez. 3, n. 48005 del 17/09/2014, dep. 20/11/2014, Gulizzi e altro, Rv. 261155), sia dal grado di sismicità dell’area, essendo il reato de quo configurabile anche in caso di esecuzione di lavori in zona inclusa tra quelle a basso indice sismico (v. Sez. 3, n. 22312 del 15/02/2011, dep. 6/06/2011, Morini, Rv. 250369). Ne consegue che, già sotto il profilo dell’elemento oggettivo, la sentenza impugnata si mostra gravemente carente, essendosi la stessa soffermata unicamente sulle caratteristiche dell’opera in rapporto alla sua funzione statica ed ai conseguente obbligo di denuncia, senza in alcun modo affrontare il concorrente profilo della sismicità dell’area interessata dall’intervento, la quale avrebbe, dunque, imposto di ottemperare agli obblighi comunicativi. 3. Sotto altro aspetto, si è opinato, da parte della difesa degli imputati, e il primo giudice ha condiviso tale prospettazione, che gli stessi sarebbero incorsi in errore scusabile per avere deciso di non presentare la denuncia allo Sportello unico sulla base della Circolare del Ministero dei lavori pubblici 14/02/1974, n. 11951, non essendo gli stessi tenuti a conoscere il contrario indirizzo della giurisprudenza di legittimità, che affermerebbe, in siffatte ipotesi, la rilevanza penale dell’omissione della denuncia e, per converso, l’irrilevanza delle eventuali previsioni difformi da parte delle circolari amministrative. 3.1. Sul punto, osserva il Collegio che la consolidata produzione giurisdizionale di questa Corte è ormai pervenuta ad affermare, sulla scia della fondamentale sentenza n. 368/88 della Corte costituzionale, che nelle fattispecie contravvenzionali la buona fede può acquistare rilevanza giuridica solo a condizione che essa si traduca nella mancanza di consapevolezza dell’illiceità del fatto e che derivi da un elemento positivo estraneo all’agente, consistente in una circostanza che induca alla convinzione della liceità del comportamento tenuto, la prova della sussistenza del quale deve essere fornita dall’imputato, unitamente alla dimostrazione di avere compiuto tutto quanto poteva per osservare la norma violata (Sez. 3, n. 35314 del 20/05/2016, dep. 23/08/2016, P.M. in proc. Oggero, Rv. 268000; Sez. 4, n. 9165 del 5/02/2015, dep. 2/03/2015, Felli, Rv. 262443; Sez. 3, n. 42021 del 18/07/2014, dep. 9/10/2014, Paris, Rv. 260657; Sez. 3, n. 49910 del 4/11/2009, dep. 30/12/2009, Cangialosi e altri, Rv. 245863; Sez. 3, n. 46671 del 5/10/2004, dep. 1/12/2004, Sferlazzo, Rv. 230889; Sez. 3, n. 12710 del 29/11/1994, dep. 21/12/1994, D’Alessandro, Rv. 200950). Ciò sul presupposto che gli inderogabili doveri di solidarietà sociale stabiliti dall’art. 2 Cost. impongono al destinatario di una determinata normativa di adempiere a stringenti oneri informativi, i quali richiedono che, prima di porre in essere l’attività disciplinata da specifiche disposizioni, egli si adoperi per sciogliere i dubbi che eventualmente concernano il lecito svolgimento di essa o le particolari modalità previste per la sua esecuzione. Ora, se per un verso non può in assoluto escludersi che la presenza di determinate circolari amministrative possa contribuire a delineare un quadro regolativo confuso e scarsamente idoneo a orientare il comportamento dei consociati (rientrando, l’ipotesi delle circolari, tra gli esempi offerti dalla citata sentenza n. 364/88 per configurare una situazione di scarsa perspicuità dell’assetto normativo, tale eventualmente determinare un errore scusabile), deve nondimeno rilevarsi che, nel caso di specie, le circolari invocate riguardavano, come già osservato (v. supra § 2), tutt’altro oggetto rispetto alla problematica che viene, qui, in rilievo: ovvero l’obbligatorietà della preventiva denuncia di opere in cemento armato inidonee ad assolvere una funzione statica e non, come invece sarebbe stato necessario, l’obbligatorietà della comunicazione connessa alla sismicità dell’area interessata dall’intervento edificatorio. Consegue a quanto appena rilevato che, in ogni caso, anche sotto questo dirimente profilo, deve escludersi qualunque rilevanza, sotto il profilo scusante, a quanto stabilito dalla cennata circolare e, corrispondentemente, al convincimento maturato dagli imputati alla stregua delle sue disposizioni. 4. Alla luce delle considerazioni che precedono, il ricorso deve essere accolto, sicché la sentenza impugnata deve essere annullata limitatamente al reato di cui al capo b), con rinvio ai Tribunale di Asti.

P.Q.M.

annulla la sentenza impugnata limitatamente al reato di cui al capo b) e rinvia al Tribunale di Asti.