Anno: 2012

FALLIMENTO – PEGNO DI CREDITO

                                                                                                  Cass. civ., Sez. Un., 2 ottobre 2012, n. 16725

L’automatica trasformazione del pegno di credito alla consegna in pegno di titoli per effetto di un’apposita convenzione tra le parti, determina una sostituzione dell’oggetto del pegno equivalente ad una nuova garanzia. Nella descritta circostanza, inoltre, la convenzione sarebbe posta in essere in violazione del divieto di patto commissorio, perché l’appropriazione dei titoli da parte della banca, successivamente alla consegna, realizza un effetto sostanzialmente analogo al patto commissorio, in quanto la banca finirebbe in tal modo per appropriarsi dell’oggetto del credito del cliente

Non è assistita da prelazione ai fini dell’ammissione al passivo fallimentare la convenzione di pegno avente ad oggetto non titoli di stato, ma il credito del cliente nei confronti della banca all’acquisto ed alla consegna di una determinata quantità di titoli per un controvalore altrettanto determinato, senza che tali titoli risultino ancora materialmente formati al momento della convenzione, né successivamente. In merito deve rilevarsi che il pegno di credito all’acquisto ed alla consegna di titoli non ancora emessi ha natura di pegno di credito futuro, avente effetti obbligatori fino a quando non si verifica la consegna, pertanto inidoneo ad attribuire prelazione, che sorge solo dopo la specificazione e la consegna. A differenza del pegno di credito alla consegna di denaro o altra cosa fungibile (art. 2803 c.c.), già esistenti al momento della convenzione, i titoli di Stato, in regime di materializzazione, non possono dirsi ancora esistenti fino a quando non viene formato il documento che li incorpora e, dunque, fino a quando non ha luogo la individuazione, non può ritenersi sussistente alcuna prelazione.

La nouvelle vague della pizza

   Berberè, light pizza & food, di Beniamino Bilali e Matteo Aloe,  a Castel Maggiore (BO).

Provato da Il Giurista goloso Ottobre 2012

L’Italia della pizza s’è desta. Finalmente è sorto un movimento spontaneo che punta alla qualità e a valorizzare un prodotto ormai svilito e standardizzato, lontano parente di quella tradizione gastronomica d’eccellenza che rappresenta il vanto del nostro paese.   Ingredienti sempre più scadenti,  polemiche sulla provenienza del  pomodoro (cinese ?) e la mozzarella (sarà vera mozzarella ?)  e così via, e poi l’impasto sovente indigeribile e immangiabile appena la pizza si raffredda.                                                                                                                                      V’è una schiera, che va facendo proseliti, di giovani pizzaioli scienziati, veri e propri alchimisti che avvalendosi di ingredienti di grande qualità e tutti rigorosamente di produzione nazionale, sperimentando  e riscoprendo le tradizioni, ottengono risultati davvero sorprendenti.   Desta particolare interesse e piacevolissima sensazione scoprire che l’attenzione dedicata alla lievitazione e alle farine, consente di  realizzare impasti estremamente digeribili, tanto da fare degradare quelli comunemente  proposti  dalle pizzerie “standard” ad  attentati alla salute.  Viene quasi spontaneo,  d’acchito,  affermare  “Questa non è una pizza, o sì, forse, anche no, non credo proprio, può essere. Chissà.”  E che è allora? Acqua, farina, lievito e ingredienti di primissima qualità. Eh no, nemmeno questo. Perché il buon Beniamino del Berberè si è “inventato” anche l’impasto senza aggiunta di lievito: idrolisi degli amidi, gelatinizzazione; per l’uomo della strada è la possibilità di mangiare un impasto molto più digeribile perché privo di lieviti aggiunti, se poi gli vogliamo aggiungere un valore più filosofico è la vera rivincita del grano e del naturale: nulla si aggiunge rispetto quello che già c’è, solo acqua, sale e farina. Non di sola idrolisi ci si nutre, a rotazione vengono proposti vari impasti speciali. Va segnalato  per merito e originalità anche il “7effe”: 7 farine diverse: mais, riso, segale, grano duro, grano tenero, saraceno, farro. Poi c’è il classico, farina macinata a pietra, lievito madre, cottura in forno a legna e tanto amore. L’alter ego, Matteo Aloe, è  responsabile del topping, di tutto quello che a fresco viene appoggiato sopra questo disco pastoso. Prodotti di grande qualit, a cominciare dai pomodori San Marzano acquistati di una seria cooperativa e poi dalla burrata e dalla mozzarella di bufala autentiche e  i capperi di Pantelleria, tutti prodotti selezionatissimi. A livello di impasto, Beniamino Bilali ha davvero poco da imparare: straordinario il gusto, la digeribilità, il concetto applicato all’arte della panificazione.  E conversando abbiamo scopertaio che l’impasto viene fatto lievitare dalle 24 alle 48 h a temperatura costante di 26° (mentre nelle pizzerie “standard” i panetti vengono mantenuti alla temperatura di 6° gradi per garantire la durata, anche se così facendo la lievitazione non giunge a compimento, è inibita  la fase tecnicamente definita “lattica” ) In pochi altri posti come in questo sentirete il vero sapore emozionante dei cereali. E poco importa se una pizza costa anche 10-12 €, il salto di qualità giustifica ampiamente il prezzo. Ottima la selezione di vini bio e soprattutto di birre, validissimo anche il servizio: in una serata da tutto esaurito i tempi di servizio sono stati perfetti e anche il personale non ha lesinato spiegazioni e sorrisi.   Originali i dolci e di buona fattura .  Personale all’altezza, cortese e disponibile. La qualità val bene una trasferta . Il successo di pubblico  suggerisce la prenotazione.

Berberè, light pizza & food Presso Le Piazze – Lifestyle Shopping Centre Via Pio La Torre n°4/b – 40013 Castel Maggiore – BO +39.051.705715 Prezzo: da 10 a 20 euro. Impasto speciale: aggiunta di due euro Chiuso: lunedì

 

 

Contratto preliminare – obbligo di conservazione

Corte di Cassazione nella sentenza n. 1377 depositata il 17 gennaio 2012

 Suscita interesse il principio affermato da tale sentenza che attiene a interessi di natura esclusivamente tributaria e che deve indurre a riflettere e a correggere condotte che potrebbero essere autorizzate diversi principi affermati dalla stessa Corte, in un ottica esclusivamente civilistica, in particolare laddove è stato affermato che l’atto pubblico di vendita sostituisce del tutto i patti contenuti nel preliminare di vendita, atto che dopo la stipulazione del definitivo sembra quindi perdere ogni rilievo al punto da rendere apparentemente inutile la sua conservazione.

Con questa pronuncia, infatti, la Cassazione penale statuisce che è obbligatorio conservare la convenzione preliminare.

Risponde, infatti, del reato di occultamento e distruzione delle scritture contabili l’agente immobiliare che occulta o distrugge contratti preliminari, impedendo di fatto all’Amministrazione finanziaria la riscossione delle imposte sulle provvigioni.

Nel caso in esame, la condotta incriminata è quella disciplinata dall’art. 10 del D.Lgs. 74/2000, ai sensi del quale, salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da 6 mesi a 5 anni chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, ovvero di consentire l’evasione a terzi, occulti o distrugga, in tutto o in parte, non solo le “scritture contabili” ma anche “i documenti” di cui è obbligatoria la conservazione, in modo da non consentire la ricostruzione dei redditi o del volume d’affari.

La norma citata, secondo la Suprema Corte, intende anche assicurare la possibilità che attraverso il vaglio della documentazione contabile sia possibile operare un controllo delle attività imprenditoriali ai fini fiscali, come lascia intendere il dato testuale laddove fa riferimento alla“ricostruzione dei redditi o del volume d’affari” nell’intento di impedire l’occultamento della distruzione dei documenti.

La regola poi è confortata anche dal disposto dell’articolo 2214, co.2, CC che impone la tenuta delle scritture contabili che siano richieste dalla natura e dalle dimensioni dell’impresa. Inoltre si consideri che normalmente è previsto il versamento, da parte di chi acquista, di una caparra della quale è data quietanza dell’atto, così da conferire al contratto il valore di documento comprovante l’operazione di riscossione della quale deve essere assicurata la conservazione.

Il fatto che la norma faccia riferimento alle scritture richieste dalla natura dell’impresa ha consentito alla giudice di ritenere obbligato alla custodia l’agente immobiliare che consegue il diritto alla provvigione con la conclusione dell’affare cioè con la stipula del contratto preliminare e non per effetto della conclusione del rogito notarile, con la conseguenza che per l’agente immobiliare la provvigione conseguita costituisce un ricavo imponibile.

 

Una trattoria non banale a Ferrara

Un amico fidato ci segnala un locale del centro storico in cui si sta davvero bene. Potrebbe sembrare una banalità, ma chi gira un pochino sa bene quanto sia complicato trovare un valido indirizzo dentro le mura cittadine. La cucina in salsa siculo-ferrarese del Sorpasso è la risposta alle vostre domande. Piatti semplici, fatti come si deve, senza sconti sulla materia prima. Qualche schizzo di personalità, quel pizzico che distingue il cuoco banale dal cuoco vero. Fanno quello che sanno fare, senza esagerazioni, e lo fanno bene. Una ricetta tanto semplice quanto rara.  Carta che spazia allegramente tra la città estense e la Trinacria. Menu tradizionale a 20 euro che odora di miracolo, straordinaria la scelta di dedicare una parte della carta ai cosiddetti “improponibili”: la lingua, la crema d’aglio, il fegato in rete di maiale, le sarde in saòr… Fossero queste le cose improponibili… Anche l’ambiente è specchio della proposta: allegro e di carattere. I tavoli con le piastrelle decorate, le sedie dipinte da Beatrice Piva ispirate ai canti dell’Orlando Furioso: tutto fa colore e tutto aiuta ad allietare la sosta. Vini pochi, ma non banali, con qualche bella chicca bio come il nostro Litrozzo Bianco 2010 dell’Azienda Agricola Le Coste di Gradoli, un toccasana in una calda domenica di giugno. Questo vino, semplicemente, finisce in un baleno. Un vulcano, nel vero senso del termine. Stagionalità, attenzione ai prodotti, semplicità. Non la tecnica dello stellato, ma l’attenzione e la passione per il proprio lavoro di un bravo ristoratore che cucina con le mani e con il cuore. Ecco la ricetta per la Trattoria che vuole fare la Trattoria e non ama travestirsi.
Trattoria Sorpasso Via Saraceno, 118 Ferrara Tel.+39.0532.790289 Prezzo Medio alla carta: 35 euro Menu “Ferrara Mia!” (tradizionale ferrarese): euro 20 con calice di vino Chiuso tutto martedì e sabato a pranzo

Successioni . L’azione di petizione ereditaria comporta l’accettazione tacita dell’eredità

Cassazione civile Sentenza 18/11/2011, n. 24332

La Suprema Corte conferma, nell’ambito di una singolare e complessa vicenda successoria, che la proposizione dell’azione di petizione ereditaria determina l’acquisizione definitiva della qualità di erede operando come accettazione tacita.

  A seguito del decesso di un facoltoso cittadino italiano, che però risultava titolare di molteplici proprietà anche in Venezuela, si apre una successione testamentaria che, secondo le ultime volontà dello stesso, avrebbe dovuto beneficiare esclusivamente due cittadini del paese sudamericano.

  In realtà, però, alcuni potenziali eredi legittimi, un fratello e due nipoti di figli di fratelli premorti, contestano la validità del  testamento .

  La vicenda, però, ha un esito abbreviato in quanto i due nipoti concludono con gli eredi testamentari una transazione, che porta all’estinzione di tutti e due i giudizi in essere (uno promosso davanti a giudice italianio ed uno nanti ad autorità venezuelana), con cui i cittadini sudamericani rinunciano alla loro condizione di eredi testamentari e i nipoti stessi dichiarano di trasferire ai primi, dietro corrispettivo, determinati beni immobili e mobili.

    A questo punto, si inserisce nella vicenda un avvocato italiano che, dichiarandosi beneficiato dal fratello del de cuius di un legato testamentario avente per oggetto tutte le proprie partecipazioni societarie, pretende che fra queste ve ne siano anche alcune in relazione alla successione apertasi all’inizio di questa vicenda.

     Questi promuove un giudizio nei confronti dei nipoti che hanno concluso la transazione e della società che è stata oggetto di accordi in essa contenuti sostenendo che, pur non avendo il suo dante causa partecipato all’accordo transattivo, deve comunque considerarsi destinatario di una quota di eredità.

      I giudici della  Suprema Corte  non possono far altro che osservare che gli eredi testamentari avevano, a tutti gli effetti della legge italiana, accettato tacitamente l’eredità nel momento in cui avevano promosso azione di petizione ereditaria ex art. 533 cod. civ. davanti al giudice italiano e che, come noto, una volta conseguito il titolo di erede lo stesso non può più venir meno.  Il principio è pacifico tant’è che i giudici richiamano  “ex multis” un precedente di legittimità (Cass. 4 maggio 1999, n. 4414), ribadendo in maniera inequivoca che, la rinuncia di cui alla più volte richiamata transazione, aveva chiaramente avuto come corrispettivo il trasferimento di alcuni beni immobili e mobili in virtù dell’esclusivo consenso dei nipoti ex fratre del de cuius e che quindi nessun ruolo aveva in essa svolto il fratello rimasto inerte.

Vendita. Garanzia di buon funzionamento. Utilizzo del bene prima dell’integrale montaggio. Danno irrisarcibile

Cassazione Civ.  11.06.11 n. 9467

Nella fattispecie Tizio, titolare di un’officina meccanica, ordinava alla società Alfa S.p.A. un ponte sollevatore per autoveicoli, che, in seguito della consegna effettuata direttamente dalla società costruttrice, veniva poi installato dal tecnico specializzato incaricato dalla venditrice stessa.  In seguito ad un sinistro occorso per un’improvvisa inclinazione del ponte, Tizio, che  aveva riportato gravi lesioni,  instaurava  una causa per la risoluzione del contratto e le conseguenti statuizioni risarcitorie e restitutorie.

La Corte d’appello di Milano rigettava il gravame, e confermava la sentenza di primo grado, ritenendo l’incidente ascrivibile all’esclusiva colpa dell’infortunato, il quale, benché messo a conoscenza della provvisorietà del montaggio del macchinario, ancora necessitante di alcuni elementi e della necessità di un secondo intervento per la definitiva messa in opera, aveva imprudentemente ritenuto di metterlo in funzione pur essendo lo stesso non ancora idoneo all’uso.

La Corte di Cassazione respingendo il ricorso confermava le precedenti decisioni affermando che non sussiste responsabilità per vizi della cosa venduta o per difettoso funzionamento se l’acquirente imprudente utilizza il macchinario acquistato prima del suo definitivo montaggio.

Societario. Maggioranza fraudolenta a verbale, illecito penale

Cassazione penale Sentenza 12/01/2012, n. 555

Integra il reato ex art. 2636 c.c. l’adozione di provvedimenti da parte dell’assemblea sociale, la cui regolare costituzione sia stata fraudolentemente attestata nel verbale.

Interessante decisione della Suprema Corte in relazione al delitto di influenza illecita sull’assemblea.

 Questo il caso sottoposto al vaglio dei giudici di legittimità: la Corte di appello di Palermo confermava la sentenza di prime cure, la quale aveva affermato la penale responsabilità dell’imputato in ordine al reato di cui all’art. 2636 c.c., perché, quale amministratore unico di una s.r.l., aveva ripetutamente determinato le maggioranze nelle assemblee sociali con atti fraudolenti, di fatto impedendo a due delle tre socie di parteciparvi, condotte poste in essere con finalità di conseguimento di un ingiusto profitto. In particolare, si era appurato che l’imputato – marito di una delle tre socie della s.r.l. – a causa di perdite di esercizio che non voleva, nella sua veste, far emergere, aveva convocato le assemblee sociali del 2004 e del 2006, nel primo caso facendo figurare a verbale la presenza di una socia, che invece non era stata neppure convocata; nel seconda, attribuendo alla moglie la titolarità di quote sufficienti per la valida costituzione della assemblea, nonostante così non fosse. In entrambe le assemblee erano state prese determinazioni funzionali all’intento preso di mira dall’imputato, quali l’approvazione del bilancio del 2003 e la rinnovazione della carica di amministratore. Nel ricorrere per cassazione, tra i motivi di ricorso la difesa censurava la motivazione della sentenza d’appello, che, a suo avviso, confermato la sentenza di primo grado nonostante l’assenza di prova circa: la falsificazione di documentazione sottoposta ai soci, le interferenze sulla regolare formazione delle delibere assembleari, il ricorso ad artifici, la sussistenza dell’elemento soggettivo del reato. La Cassazione ha respinto il ricorso prendendo le mosse dal dato normativo: nel prevedere il reato di “illecita influenza sull’assemblea” l’art. 2636 c.c., «punisce la condotta di chiunque compia qualsiasi atto di natura fraudolenta che di fatto determini in maniera alterata la maggioranza della assemblea dei soci, quando tale condotta è finalizzata al conseguimento di un ingiusto profitto». Sotto il profilo oggettivo, il reato è perciò integrato da «qualsiasi operazione che artificiosamente permetta di alterare la formazione delle maggioranze assemblea, rendendo così di fatto possibile il conseguimento di risultati vietati dalla legge o non consentiti dallo statuto della società» (in senso conforme, Cass., Sez. I, 3 marzo 2009) . Nel caso di specie, la Corte ha evidenziato come l’attività fraudolenta fosse consistita – come esattamente affermato dai giudici di merito – nella falsa rappresentazione della presenza della maggioranza dei soci alle assemblee, in una’occasione facendo figurare come presente, con la falsificazione della relativa firma sul verbale, una socia invece assente; nell’altra attestando la titolarità in capo alla socia, nonché moglie dell’imputato, di un numero di quote sufficiente a costituire la maggioranza, ciò che non corrispondeva alla titolarità reale. Quanto, poi, all’elemento soggettivo, il dolo in capo all’imputato era stato esattamente desunto dalle modalità dalla la condotta dell’imputato, la quale non trovava altra spiegazione se non in quella di poter agire indisturbato, senza, cioè, dover subire il controllo dei soci, che avrebbero potuto esautorarlo, e senza, soprattutto, rendere conto delle perdite subite. Proprio il non dovere sottoporsi al giudizio negativo dei soci comportava, per l’imputato, il vantaggio di continuare ad esercitare una carica altrimenti destinata ad essere revocata, carica che gli consentiva invece di controllare un’attività commerciale in cui egli aveva interesse, anche quale marito di una socia al 33 % del capitale sociale.

Il possesso della cambiale non vale titolo

Cassazione Civile, Sez. III, 10 gennaio 2012, n. 63

Con sentenza n. 63 del 10 gennaio 2012, n. 63, la III^ Sezione Civile della Corte di Cassazioni afferma il principio secondo cui il mero possessore di una cambiale che non risulti prenditore (né giratario) della stessa, difettando sul titolo l’indicazione del beneficiario, non può considerarsi legittimato a pretendere il pagamento del credito documentato, se non dimostri l’esistenza del rapporto giuridico da cui deriva tale credito. Ciò in quanto il semplice possesso della cartula non ha significato univoco, ai fini della legittimazione, non potendo escludersi che essa sia pervenuta al possessore abusivamente.

In siffatta ipotesi il documento non può neppure valere come promessa di pagamento, ai sensi dell’art. 1988 cod. civ., atteso che l’inversione dell’onere della prova, prevista da tale disposizione, opera solo nei confronti di colui al quale la promessa sia stata realmente fatta.   Ne deriva che il mero possessore di un titolo all’ordine, privo di valore cartolare, e dal quale perciò stesso non risulti che la promessa di pagamento è stata fatta in favore di chi lo possiede, deve fornire la prova dei fatti costitutivi del suo diritto.

 

Indicazioni geografiche e denominazioni d’origine dei prodotti agricoli ed alimentari – Uso della denominazione “parmesan”

 

Corte di Giustizia – Grande Sezione, Sentenza 26 febbraio 2008

 

 

La Corte di Giustizia, con questa storica sentenza, si è pronunciata sul ricorso con il quale la Commissione ha chiesto di dichiarare che la Germania, rifiutando formalmente di perseguire come illecito l’impiego nel suo territorio della denominazione «parmesan» nell’etichettatura di prodotti non corrispondenti al disciplinare della denominazione d’origine protetta «Parmigiano Reggiano», favorendo così l’usurpazione da parte di terzi della notorietà di cui gode il prodotto autentico, tutelato a livello comunitario, è venuta meno agli obblighi che le incombono in forza dell’art. 13, n. 1, lett. b), del regolamento (CEE) del Consiglio 14 luglio 1992, n. 2081, relativo alla protezione delle indicazioni geografiche e delle denominazioni d’origine dei prodotti agricoli ed alimentari. La Germania ha sempre sostenuto che – “l’uso del termine «parmesan» non costituisce una violazione dell’art. 13, n. 1, lett. b), del regolamento n. 2081/92 dato che, già secondo la Commissione, rappresenterebbe solo la traduzione della parola «Parmigiano» che è una denominazione generica, come dimostrano la situazione in Italia e in altri Stati membri nonché le normative nazionali e comunitaria. Tale termine, in quanto denominazione generica, non potrebbe beneficiare della tutela del detto regolamento”; – “anche supponendo che il termine «Parmigiano» non sia una denominazione generica e che, pertanto, non si applichino a tale elemento costitutivo le disposizioni dell’art. 13, n. 1, secondo comma, del regolamento n. 2081/92, l’uso del termine «parmesan» non integra una violazione delle disposizioni relative alla tutela della denominazione d’origine «Parmigiano Reggiano». Il nome «parmesan» avrebbe subito un’evoluzione secolare a sé stante e sarebbe divenuto, in Germania, come pure in altri Stati membri, una denominazione generica. Il suo uso non costituirebbe dunque né un’usurpazione né un’evocazione della DOP «Parmigiano Reggiano»”. Viceversa, secondo la Corte di Giustizia oltre “sapere se la denominazione «parmesan» sia la traduzione della DOP «Parmigiano Reggiano» è irrilevante ai fini dell’esame del presente ricorso”. Infatti, “si deve tener conto anche della somiglianza concettuale tra tali due termini, pur di lingue diverse, testimoniata dal dibattito dinanzi alla Corte. Tale somiglianza, come già le somiglianze fonetiche e ottiche rilevate al punto 46 della presente sentenza, è idonea ad indurre il consumatore a prendere come immagine di riferimento il formaggio recante la DOP «Parmigiano Reggiano» quando si trova dinanzi ad un formaggio a pasta duro, grattugiato o da grattugiare, recante la denominazione «parmesan». In tale contesto, l’uso della denominazione «parmesan» dev’essere considerato un’evocazione della DOP «Parmigiano Reggiano» ai sensi dell’art. 13, n. 1, lett. b), del regolamento n. 2081/92”. La Germania – secondo la Corte – non ha dimostrato la fondatezza della propria tesi della presunta genericità della denominazione «parmesan». In particolare, “la Germania si è limitata a produrre citazioni tratte da dizionari e da letteratura specializzata che non offrono un quadro completo del modo in cui il termine «parmesan» è percepito dai consumatori in Germania e in altri Stati membri, e non ha presentato neppure dati relativi alla produzione o al consumo del formaggio commercializzato con la denominazione «parmesan» in Germania o in altri Stati membri. Inoltre, dalla documentazione sottoposta alla Corte risulta che in Germania alcuni produttori di formaggio recante la denominazione «parmesan» commercializzano tale prodotto con etichette che richiamano tradizioni culturali e paesaggi italiani. È legittimo dedurne che i consumatori in tale Stato membro percepiscono il formaggio «parmesan» come un formaggio associato all’Italia anche se, in realtà, è stato prodotto in un altro Stato membro”. In definitiva, e qui sta la pronuncia di grande rilievo, la Corte ha affermato che “non avendo la Repubblica federale di Germania dimostrato che la denominazione «parmesan» riveste carattere generico, l’utilizzazione del termine «parmesan» per formaggi che non sono conformi al disciplinare della DOP «Parmigiano Reggiano» deve essere considerata, nella fattispecie, lesiva della tutela riconosciuta dall’art. 13, n. 1, lett. b), del regolamento n. 2081/92”. Tuttavia, la Corte di Giustizia ha ritenuto che la Commissione, a propria volta, “non ha dimostrato che la Germania, rifiutando formalmente di perseguire come illecito l’impiego nel suo territorio della denominazione «parmesan» nell’etichettatura di prodotti non corrispondenti al disciplinare della DOP «Parmigiano Reggiano», è venuta meno agli obblighi che le incombono in forza dell’art. 13, n. 1, lett. b), del regolamento n. 2081/92”. E’ vero infatti, secondo la Commissione che “non è in discussione che l’ordinamento giuridico tedesco dispone di strumenti giuridici, come le disposizioni legislative menzionate al punto 63 della presente sentenza, per assicurare una tutela effettiva dei diritti che i singoli traggono dal regolamento n. 2081/92. Non è in discussione neppure che la possibilità di impugnare ogni comportamento idoneo a ledere i diritti derivanti da una DOP non è riservata al solo utilizzatore legittimo della stessa, ma è, al contrario, aperta ai concorrenti, alle associazioni di imprese e alle associazioni di consumatori”.

 

Corte di Giustizia CE
Sentenza 26/02/2008 La denominazione Parmesan vale solo per i prodotti DOP Inadempimento di uno Stato – Regolamento (CEE) n. 2081/92 – Protezione delle indicazioni geografiche e delle denominazioni d’origine dei prodotti agricoli ed alimentari – Formaggio “Parmigiano Reggiano” – Uso della denominazione “parmesan” – Obbligo di uno Stato membro di sanzionare d’ufficio l’uso illegittimo di una denominazione d’origine protetta

 

Grande Sezione Nella causa C‑132/05, avente ad oggetto un ricorso per inadempimento ai sensi dell’art. 226 CE, proposto il 21 marzo 2005, Commissione delle Comunità europee, rappresentata dal sig. E. de March, dalla sig.ra S. Grünheid e dal sig. B. Martenczuk, in qualità di agenti, con domicilio eletto in Lussemburgo, ricorrente, sostenuta da: Repubblica ceca, rappresentata dal sig. T. Boček, in qualità di agente, Repubblica italiana, rappresentata dal sig. I.M. Braguglia, in qualità di agente, assistito dal sig. G. Aiello, avvocato dello Stato, con domicilio eletto in Lussemburgo, intervenienti, contro Repubblica federale di Germania, rappresentata dai sigg. M. Lumma e A. Dittrich, in qualità di agenti, assistiti dall’avv. M. Loschelder, Rechtsanwalt, convenuta, sostenuta da: Regno di Danimarca, rappresentato dal sig. J. Molde, in qualità di agente, con domicilio eletto in Lussemburgo, Repubblica d’Austria, rappresentata dal sig. E. Riedl, in qualità di agente, con domicilio eletto in Lussemburgo, intervenienti, LA CORTE (Grande Sezione), composta dal sig. V. Skouris, presidente, dai sigg. C.W.A. Timmermans, A. Rosas, K. Lenaerts e U. Lõhmus, presidenti di sezione, dai sigg. J.N. Cunha Rodrigues (relatore), K. Schiemann, P. Kūris, E. Juhász, E. Levits e A. Ó Caoimh, giudici, avvocato generale: sig. J. Mazák cancelliere: sig. B. Fülöp, amministratore vista la fase scritta del procedimento e in seguito alla trattazione orale del 13 febbraio 2007, sentite le conclusioni dell’avvocato generale, presentate all’udienza del 28 giugno 2007, ha pronunciato la seguente Sentenza 1 Con il ricorso in esame la Commissione delle Comunità europee chiede alla Corte di dichiarare che la Repubblica federale di Germania, rifiutando formalmente di perseguire come illecito l’impiego nel suo territorio della denominazione «parmesan» nell’etichettatura di prodotti non corrispondenti al disciplinare della denominazione d’origine protetta (in prosieguo: la «DOP») «Parmigiano Reggiano», favorendo così l’usurpazione da parte di terzi della notorietà di cui gode il prodotto autentico, tutelato a livello comunitario, è venuta meno agli obblighi che le incombono in forza dell’art. 13, n. 1, lett. b), del regolamento (CEE) del Consiglio 14 luglio 1992, n. 2081, relativo alla protezione delle indicazioni geografiche e delle denominazioni d’origine dei prodotti agricoli ed alimentari (GU L 208, pag. 1). Contesto normativo 2 Il regolamento n. 2081/92 istituisce una protezione comunitaria delle denominazioni d’origine e delle indicazioni geografiche dei prodotti agricoli ed alimentari. 3 L’art. 2 del regolamento n. 2081/92 dispone quanto segue: «1. La protezione comunitaria delle denominazioni d’origine e delle indicazioni geografiche dei prodotti agricoli ed alimentari è ottenuta conformemente al presente regolamento. 2. Ai fini del presente regolamento si intende per: a) “denominazione d’origine”: il nome di una regione, di un luogo determinato o, in casi eccezionali, di un paese che serve a designare un prodotto agricolo o alimentare – originario di tale regione, di tale luogo determinato o di tale paese e – la cui qualità o le cui caratteristiche siano dovute essenzialmente o esclusivamente all’ambiente geografico comprensivo dei fattori naturali ed umani e la cui produzione, trasformazione ed elaborazione avvengano nell’area geografica delimitata; (…)». 4 L’art. 3, n. 1, di tale regolamento è così formulato: «Le denominazioni divenute generiche non possono essere registrate. Ai fini del presente regolamento, si intende per “denominazione divenuta generica” il nome di un prodotto agricolo o alimentare che, pur collegato col nome del luogo o della regione in cui il prodotto agricolo o alimentare è stato inizialmente ottenuto o commercializzato, è divenuto, nel linguaggio corrente, il nome comune di un prodotto agricolo o alimentare. Per determinare se una denominazione sia divenuta generica o meno, si tiene conto di tutti i fattori, in particolare: – della situazione esistente nello Stato membro in cui il nome ha la sua origine e nelle zone di consumo, – della situazione esistente in altri Stati membri, – delle pertinenti legislazioni nazionali o comunitarie. (…)». 5 Ai sensi dell’art. 4, n. 2, lett. g), del regolamento n. 2081/92, il disciplinare comprende almeno «i riferimenti relativi alle strutture di controllo previste all’articolo 10». 6 L’art. 5, nn. 3 e 4, di tale regolamento recita: «3. La domanda di registrazione include segnatamente il disciplinare di cui all’articolo 4. 4. La domanda di registrazione è inviata allo Stato membro sul cui territorio è situata l’area geografica». 7 L’art. 10 del detto regolamento così dispone: «1. Gli Stati membri provvedono a che entro sei mesi dall’entrata in vigore del presente regolamento vi siano strutture di controllo aventi il compito di garantire che i prodotti agricoli e alimentari recanti una denominazione protetta rispondano ai requisiti del disciplinare. 2. La struttura di controllo può essere composta da una o più autorità di controllo designate e/o da uno o più organismi privati autorizzati a tal fine dallo Stato membro. Gli Stati membri comunicano alla Commissione l’elenco delle autorità e/o degli organismi autorizzati, nonché le loro rispettive competenze. La Commissione pubblica queste informazioni nella Gazzetta ufficiale delle Comunità europee. 3. Le autorità di controllo designate e/o gli organismi privati devono offrire garanzie sufficienti di obiettività e di imparzialità nei confronti di ogni produttore o trasformatore soggetto al controllo e disporre permanentemente degli esperti e dei mezzi necessari per assicurare i controlli dei prodotti agricoli e dei prodotti alimentari recanti una denominazione protetta. Se la struttura di controllo si avvale, per taluni controlli, di un organismo terzo, quest’ultimo deve offrire le stesse garanzie. Tuttavia, le autorità di controllo designate e/o gli organismi privati autorizzati sono […] responsabili, nei confronti dello Stato membro, della totalità dei controlli. A decorrere dal 1° gennaio 1998, per ottenere l’autorizzazione dello Stato membro ai fini del presente regolamento, gli organismi devono adempiere le condizioni stabilite nella norma EN 45011, del 26 giugno 1989. 4. Qualora constatino che un prodotto agricolo o alimentare recante una denominazione protetta originaria del suo Stato membro non risponde ai requisiti del disciplinare, le autorità di controllo designate e/o gli organismi privati di uno Stato membro prendono i necessari provvedimenti per assicurare il rispetto del presente regolamento. (…) 5. Qualora le condizioni di cui ai paragrafi 2 e 3 non siano più soddisfatte, lo Stato membro revoca l’autorizzazione dell’organismo di controllo. Esso ne informa la Commissione che pubblica nella Gazzetta ufficiale delle Comunità europee un elenco riveduto degli organismi autorizzati. 6. Gli Stati membri adottano le misure necessarie per garantire che il produttore che rispetta il presente regolamento abbia accesso al sistema di controllo. 7. I costi dei controlli previsti dal presente regolamento sono sostenuti dai produttori che utilizzano la denominazione protetta». 8 Ai sensi dell’art. 13 del medesimo regolamento: «1. Le denominazioni registrate sono tutelate contro: (…) b) qualsiasi usurpazione, imitazione o evocazione, anche se l’origine vera del prodotto è indicata o se la denominazione protetta è una traduzione o è accompagnata da espressioni quali “genere”, “tipo”, “metodo”, “alla maniera”, “imitazione” o simili; (…) Se una denominazione registrata contiene la denominazione di un prodotto agricolo o alimentare che è considerata generica, l’uso di questa denominazione generica per il prodotto agricolo o alimentare appropriato non è contrario al primo comma, lettera a) o b). (…) 3. Le denominazioni protette non possono diventare generiche». 9 Ai sensi dell’art. 2 del regolamento (CE) della Commissione 12 giugno 1996, n. 1107, relativo alla registrazione delle indicazioni geografiche e delle denominazioni di origine nel quadro della procedura di cui all’articolo 17 del regolamento (…) n. 2081/92 (GU L 148, pag. 1), nonché della parte A dell’allegato di tale regolamento, la denominazione «Parmigiano Reggiano» costituisce una DOP a decorrere dal 21 giugno 1996. Fase precontenziosa 10 In seguito alla denuncia sporta da vari operatori economici, la Commissione chiedeva alle autorità tedesche, con lettera 15 aprile 2003, di impartire chiare istruzioni agli organismi pubblici incaricati di perseguire le frodi affinché ponessero fine alla commercializzazione nel territorio tedesco di prodotti denominati «parmesan» non conformi al disciplinare della DOP «Parmigiano Reggiano». Secondo la Commissione, il termine «parmesan» era la traduzione della DOP «Parmigiano Reggiano» e il suo uso costituiva perciò una violazione dell’art. 13, n. 1, lett. b), del regolamento n. 2081/92. 11 La Repubblica federale di Germania rispondeva, con lettera 13 maggio 2003, che il termine «parmesan», se pure storicamente legato alla regione di Parma, era divenuto una denominazione generica per formaggi a pasta dura di varia provenienza geografica, grattugiati o da grattugiare, distinguendosi dalla DOP «Parmigiano Reggiano». Pertanto, l’uso di tale termine non integrerebbe una violazione del regolamento n. 2081/92. 12 Il 17 ottobre 2003 la Commissione inviava una lettera di diffida alla Repubblica federale di Germania cui quest’ultima rispondeva con lettera del 17 dicembre 2003. 13 La Commissione, non essendo soddisfatta delle spiegazioni ricevute dalla Repubblica federale di Germania, il 30 marzo 2004 emetteva un parere motivato, invitando tale Stato membro ad adottare le misure necessarie a conformarvisi entro due mesi dalla notifica. 14 Con lettera 15 giugno 2004 la Repubblica federale di Germania comunicava alla Commissione di voler mantenere la posizione precedentemente espressa. 15 In tale contesto, la Commissione ha deciso di proporre il presente ricorso. Sul ricorso 16 Con ordinanza del presidente della Corte 6 settembre 2005 la Repubblica italiana, da un lato, e il Regno di Danimarca nonché la Repubblica d’Austria, dall’altro, sono stati ammessi ad intervenire a sostegno delle conclusioni, rispettivamente, della Commissione e della Repubblica federale di Germania. 17 Con ordinanza del presidente della Corte 15 maggio 2006 la Repubblica ceca è stata ammessa ad intervenire a sostegno delle conclusioni della Commissione. 18 A sostegno del ricorso la Commissione deduce una sola censura, relativa al rifiuto, da parte della Repubblica federale di Germania, di perseguire come illecito l’impiego nel suo territorio della denominazione «parmesan» nell’etichettatura di prodotti non corrispondenti al disciplinare della DOP «Parmigiano Reggiano». 19 La Repubblica federale di Germania contesta l’inadempimento sulla base di tre ordini di motivi: – in primo luogo, una denominazione d’origine è protetta ai sensi dell’art. 13 del regolamento n. 2081/92 solo nella forma precisa in cui è registrata; – in secondo luogo, l’uso della parola «parmesan» non è in contrasto con la tutela garantita alla denominazione d’origine «Parmigiano Reggiano» e – in terzo luogo, essa non è tenuta a perseguire d’ufficio le violazioni del detto art. 13. Quanto alla protezione delle denominazioni composte 20 La Commissione sostiene che il sistema di tutela comunitaria è retto dal principio secondo cui la registrazione di una denominazione contenente più termini conferisce la tutela del diritto comunitario sia ai singoli elementi costitutivi della denominazione composta sia all’intera denominazione composta. L’effettiva tutela delle denominazioni composte implicherebbe, quindi, che, in linea di principio, tutti gli elementi costitutivi di una denominazione composta siano protetti contro utilizzazioni abusive. La Commissione ritiene che, per garantire tale tutela, il regolamento n. 2081/92 non richieda la registrazione di ognuno dei singoli elementi di una denominazione composta suscettibili di tutela, ma presupponga che ogni singolo elemento sia intrinsecamente protetto. Un’interpretazione del genere avrebbe trovato riscontro nella sentenza della Corte 9 giugno 1998, cause riunite C‑129/97 e C‑130/97, Chiciak e Fol (Racc. pag. I‑3315). 21 La Commissione osserva che il principio della protezione di tutti gli elementi costitutivi di una denominazione composta ammette un’unica eccezione, prevista all’art. 13, n. 1, secondo comma, del regolamento n. 2081/92: l’utilizzazione di un singolo elemento di una denominazione composta non è contraria all’art. 13, n. 1, lett. a) e b), del detto regolamento, quando tale elemento è la denominazione di un prodotto agricolo o alimentare considerata denominazione generica. Orbene, questa disposizione sarebbe superflua se si dovesse ritenere che i singoli elementi costitutivi di denominazioni registrate unicamente come denominazioni composte non siano in alcun modo tutelati. 22 Un elemento costitutivo di una denominazione utilizzato isolatamente non beneficerebbe della protezione concessa dal regolamento n. 2081/92 anche qualora gli Stati membri interessati, nel comunicare la denominazione composta in oggetto, abbiano dichiarato di non richiedere la tutela per certe parti di tale denominazione. 23 La Commissione avrebbe tenuto conto [di tale dichiarazione] al momento dell’adozione del regolamento n. 1107/96 precisando, eventualmente, in una nota a piè di pagina, che non era richiesta tutela per una parte della denominazione composta. 24 Nel caso della denominazione «Parmigiano Reggiano» nessuno dei due elementi costitutivi sarebbe stato menzionato in una nota a piè di pagina. 25 La Repubblica federale di Germania replica che una DOP beneficia della tutela ex art. 13 del regolamento n. 2081/92 solo nella forma precisa in cui è registrata. Contrariamente a quanto sostenuto dalla Commissione, non si può trarre una conclusione di segno opposto dalla citata sentenza Chiciak e Fol. 26 Inoltre, nell’ambito della controversia decisa con sentenza 25 giugno 2002, causa C‑66/00, Bigi (Racc. pag. I‑5917), la stessa Repubblica italiana avrebbe espressamente confermato di aver rinunciato alla registrazione della denominazione «Parmigiano». In tale contesto, in mancanza di registrazione, tale denominazione non rientrerebbe nell’ambito di tutela del diritto comunitario. 27 A tale proposito, dall’ottavo ‘considerando’ del regolamento n. 1107/96 risulta «che alcuni Stati membri hanno fatto presente che per talune parti delle denominazioni la protezione non era richiesta e che è opportuno tenerne conto». 28 Il regolamento n. 1107/96 precisa, rinviando alle note a piè di pagina del suo allegato, in quali casi non è stata richiesta la tutela di una parte della denominazione considerata. 29 Si deve osservare, tuttavia, che l’inesistenza di una dichiarazione nel senso che, per talune componenti di una denominazione, la tutela conferita dall’art. 13 del regolamento n. 2081/92 non è stata richiesta non può costituire un argomento sufficiente per determinare l’ampiezza di tale protezione (v., in tal senso, sentenza Chiciak e Fol, cit., punto 37). 30 Nel sistema di protezione istituito mediante il regolamento n. 2081/92 le questioni relative alla protezione da accordare ai singoli elementi di una denominazione, e segnatamente quelle relative all’eventualità che si tratti di un nome generico o di un elemento protetto contro le prassi oggetto dell’art. 13 del detto regolamento, rientrano nella competenza del giudice nazionale, che le risolverà in base ad un’analisi approfondita del contesto fattuale quale ricostruito ed illustrato dagli interessati (sentenza Chiciak e Fol, cit., punto 38). 31 In tale contesto non può avere fortuna l’argomento della Repubblica federale di Germania secondo cui una DOP beneficia della tutela ex art. 13 del regolamento n. 2081/92 solo nella forma precisa in cui è registrata. Quanto al pregiudizio arrecato alla DOP «Parmigiano Reggiano» 32 Secondo la Commissione, la commercializzazione di formaggi denominati «parmesan» non conformi al disciplinare della DOP «Parmigiano Reggiano» costituisce una violazione dell’art. 13, n. 1, lett. b), del regolamento n. 2081/92 perché il termine «parmesan» è la traduzione esatta della DOP «Parmigiano Reggiano». La traduzione, al pari della DOP nella lingua dello Stato membro che ne ha ottenuto la registrazione, sarebbe riservata esclusivamente ai prodotti conformi al disciplinare. 33 La Commissione aggiunge che, come dimostra lo stretto legame, attestato dagli sviluppi storici, tra la particolare regione geografica d’Italia dalla quale proviene tale tipo di formaggio e il termine «parmesan», quest’ultimo non è una denominazione generica distinguibile dalla DOP «Parmigiano Reggiano». 34 In ogni caso, l’uso della denominazione «parmesan» per un formaggio non conforme al disciplinare della DOP «Parmigiano Reggiano» costituirebbe un’evocazione di tale denominazione, vietata dall’art. 13, n. 1, lett. b), del regolamento n. 2081/92. 35 La Commissione afferma altresì che il termine «parmesan» non è divenuto una denominazione generica. 36 Naturalmente, una denominazione geografica potrebbe, nel tempo e attraverso l’uso, diventare una denominazione generica, nel senso che il consumatore potrebbe giungere a considerarla indicazione di un certo tipo di prodotto piuttosto che dell’origine geografica del prodotto stesso. Tale slittamento di senso si sarebbe verificato in particolare nel caso delle denominazioni «Camembert» e «Brie». 37 La Commissione prosegue affermando che il termine «parmesan» non ha mai perso la sua connotazione geografica. Infatti, se «parmesan» fosse realmente un termine neutro privo di tale connotazione, non vi sarebbero spiegazioni plausibili all’ostinazione dei produttori di imitazioni a stabilire con parole o con immagini un nesso tra i loro prodotti e l’Italia. 38 Inoltre, secondo la Commissione, il fatto che fino al 2000 venisse prodotto sul territorio italiano un formaggio denominato «parmesan» non conforme al disciplinare della DOP «Parmigiano Reggiano» non significa che il termine costituisca una denominazione generica, in Italia, per formaggi a pasta dura di origine diversa, dato che quel formaggio era destinato unicamente all’esportazione verso paesi in cui il termine «parmesan» non fruiva di alcuna protezione particolare, conformemente al principio di territorialità. D’altronde, la denominazione d’origine «Parmigiano Reggiano» è stata protetta a livello comunitario solo a partire dal 21 giugno 1996, data in cui è entrato in vigore il regolamento n. 1107/96. 39 La Repubblica federale di Germania afferma che l’uso del termine «parmesan» non costituisce una violazione dell’art. 13, n. 1, lett. b), del regolamento n. 2081/92 dato che, già secondo la Commissione, rappresenterebbe solo la traduzione della parola «Parmigiano» che è una denominazione generica, come dimostrano la situazione in Italia e in altri Stati membri nonché le normative nazionali e comunitaria. Tale termine, in quanto denominazione generica, non potrebbe beneficiare della tutela del detto regolamento. 40 In subordine, la Repubblica federale di Germania sostiene che, anche supponendo che il termine «Parmigiano» non sia una denominazione generica e che, pertanto, non si applichino a tale elemento costitutivo le disposizioni dell’art. 13, n. 1, secondo comma, del regolamento n. 2081/92, l’uso del termine «parmesan» non integra una violazione delle disposizioni relative alla tutela della denominazione d’origine «Parmigiano Reggiano». Il nome «parmesan» avrebbe subito un’evoluzione secolare a sé stante e sarebbe divenuto, in Germania, come pure in altri Stati membri, una denominazione generica. Il suo uso non costituirebbe dunque né un’usurpazione né un’evocazione della DOP «Parmigiano Reggiano». 41 A suffragio di tale tesi la Repubblica federale di Germania invoca, in primo luogo, il paragrafo 35 delle conclusioni dell’avvocato generale Ruiz-Jarabo Colomer nella causa C‑317/95, definita dall’ordinanza 8 agosto 1997, Canadane Cheese Trading e Kouri (Racc. pag. I‑4681); in secondo luogo, la citata sentenza Bigi, dove la Corte ha espressamente lasciato insoluta la questione se il termine «parmesan» costituisca un nome generico, e, in terzo luogo, il fatto che non è sufficiente constatare che il nome di un prodotto è la traduzione di una denominazione di origine. Occorrerebbe verificare di volta in volta se tale traduzione evochi effettivamente la denominazione di cui trattasi. Non la evocherebbe nell’ipotesi in cui la denominazione controversa, pur essendo inizialmente una traduzione, abbia assunto col tempo un altro significato nell’accezione corrente dei consumatori, divenendo in tal modo una denominazione generica. In quarto luogo, il detto Stato membro si appella al fatto che in Germania, unico Stato membro in cui la valutazione della genericità del termine «parmesan» è decisiva, visto il presente procedimento per inadempimento, il termine «parmesan» è considerato da sempre la denominazione generica di un formaggio a pasta dura grattugiato o da grattugiare. Ciò varrebbe, del resto, anche in altri Stati membri, Italia compresa. 42 Occorre anzitutto stabilire se, rispetto alla DOP «Parmigiano Reggiano», l’uso della denominazione «parmesan» rientri in uno dei casi contemplati dall’art. 13, n. 1, del regolamento n. 2081/92. 43 A tale proposito giova ricordare che, in forza dell’art. 13, n. 1, lett. b), del detto regolamento, le denominazioni registrate sono tutelate, in particolare, contro qualsiasi usurpazione, imitazione o evocazione, anche se l’origine vera del prodotto è indicata o se la denominazione protetta è una traduzione. 44 In merito all’evocazione di una DOP, la Corte ha stabilito che tale nozione si riferisce all’ipotesi in cui il termine utilizzato per designare un prodotto incorpori una parte di una denominazione protetta, di modo che il consumatore, in presenza del nome del prodotto, sia indotto ad aver in mente, come immagine di riferimento, la merce che fruisce della denominazione (sentenza 4 marzo 1999, causa C‑87/97, Consorzio per la tutela del formaggio Gorgonzola, Racc. pag. I‑1301, punto 25). 45 La Corte ha precisato che può esservi evocazione di una DOP in mancanza di qualunque rischio di confusione tra i prodotti di cui è causa e anche quando nessuna tutela comunitaria si applichi agli elementi della denominazione di riferimento ripresi dalla terminologia controversa (sentenza Consorzio per la tutela del formaggio Gorgonzola, cit., punto 26). 46 Nella presente causa sussistono analogie fonetiche ed ottiche fra le denominazioni «parmesan» e «Parmigiano Reggiano» in un contesto in cui i prodotti di cui è causa sono formaggi a pasta dura, grattugiati o da grattugiare, cioè simili nel loro aspetto esterno (v., in tal senso, sentenza Consorzio per la tutela del formaggio Gorgonzola, cit., punto 27). 47 Peraltro, che la denominazione «parmesan» sia o meno la traduzione esatta della DOP «Parmigiano Reggiano» o del termine «Parmigiano», si deve tener conto anche della somiglianza concettuale tra tali due termini, pur di lingue diverse, testimoniata dal dibattito dinanzi alla Corte. 48 Tale somiglianza, come già le somiglianze fonetiche e ottiche rilevate al punto 46 della presente sentenza, è idonea ad indurre il consumatore a prendere come immagine di riferimento il formaggio recante la DOP «Parmigiano Reggiano» quando si trova dinanzi ad un formaggio a pasta duro, grattugiato o da grattugiare, recante la denominazione «parmesan». 49 In tale contesto, l’uso della denominazione «parmesan» dev’essere considerato un’evocazione della DOP «Parmigiano Reggiano» ai sensi dell’art. 13, n. 1, lett. b), del regolamento n. 2081/92. 50 Sapere se la denominazione «parmesan» sia la traduzione della DOP «Parmigiano Reggiano» è quindi irrilevante ai fini dell’esame del presente ricorso. 51 La Repubblica federale di Germania sostiene, tuttavia, che, siccome la denominazione «parmesan» è divenuta una denominazione generica, utilizzarla non equivale ad evocare illecitamente la DOP «Parmigiano Reggiano». 52 Spettava alla Repubblica federale di Germania dimostrare la fondatezza di tale argomento, tanto più che la Corte ha già affermato che è tutt’altro che evidente che la denominazione «parmesan» sia divenuta generica (sentenza Bigi, cit., punto 20). 53 Nel valutare la genericità di una denominazione occorre prendere in considerazione, conformemente all’art. 3, n. 1, del regolamento n. 2081/92, i luoghi di produzione del prodotto considerato sia all’interno sia al di fuori dello Stato membro che ha ottenuto la registrazione della denominazione in oggetto, il consumo di tale prodotto e il modo in cui viene percepita dai consumatori la sua denominazione all’interno e al di fuori del detto Stato membro, l’esistenza di una normativa nazionale specifica relativa al detto prodotto, nonché il modo in cui la detta denominazione è stata utilizzata nella legislazione comunitaria (v. sentenza 25 ottobre 2005, cause riunite C‑465/02 e C‑466/02, Germania e Danimarca/Commissione, Racc. pag. I‑9115, punti 76‑99). 54 Orbene, come ha rilevato l’avvocato generale ai paragrafi 63 e 64 delle conclusioni, la Repubblica federale di Germania si è limitata a produrre citazioni tratte da dizionari e da letteratura specializzata che non offrono un quadro completo del modo in cui il termine «parmesan» è percepito dai consumatori in Germania e in altri Stati membri, e non ha presentato neppure dati relativi alla produzione o al consumo del formaggio commercializzato con la denominazione «parmesan» in Germania o in altri Stati membri. 55 Inoltre, dalla documentazione sottoposta alla Corte risulta che in Germania alcuni produttori di formaggio recante la denominazione «parmesan» commercializzano tale prodotto con etichette che richiamano tradizioni culturali e paesaggi italiani. È legittimo dedurne che i consumatori in tale Stato membro percepiscono il formaggio «parmesan» come un formaggio associato all’Italia anche se, in realtà, è stato prodotto in un altro Stato membro (v., in tal senso, sentenza Germania e Danimarca/Commissione, cit., punto 87). 56 All’udienza, infine, la Repubblica federale di Germania non ha fornito informazioni neppure sulle quantità di formaggio prodotto in Italia con la DOP «Parmigiano Reggiano» importate in Germania, non permettendo così alla Corte di avvalersi dei dati relativi al consumo di tale formaggio per concludere in ordine alla genericità o meno della denominazione «parmesan» (v., in tal senso, sentenza Germania e Danimarca/Commissione, cit., punto 88). 57 Ne consegue che, non avendo la Repubblica federale di Germania dimostrato che la denominazione «parmesan» riveste carattere generico, l’utilizzazione del termine «parmesan» per formaggi che non sono conformi al disciplinare della DOP «Parmigiano Reggiano» deve essere considerata, nella fattispecie, lesiva della tutela riconosciuta dall’art. 13, n. 1, lett. b), del regolamento n. 2081/92. Quanto all’obbligo della Repubblica federale di Germania di perseguire le violazioni dell’art. 13, n. 1, del regolamento n. 2081/92 58 La Commissione fa valere che la Repubblica federale di Germania è tenuta, ai sensi degli artt. 10 e 13 del regolamento n. 2081/92, a prendere d’ufficio le misure necessarie per reprimere i comportamenti lesivi delle DOP. A suo avviso, l’intervento degli Stati membri comprende, sui piani amministrativo e penale, misure atte a permettere la realizzazione degli obiettivi di tale regolamento in materia di protezione delle denominazioni d’origine. I prodotti non conformi alle prescrizioni del regolamento non potrebbero essere messi in circolazione. 59 La Commissione precisa che le sue censure non riguardano né la normativa tedesca né una qualsivoglia impossibilità di ricorso dinanzi ai tribunali nazionali, bensì la prassi amministrativa delle autorità tedesche in contrasto con la legislazione comunitaria. Se gli Stati membri fossero sollevati dal loro obbligo di intervento e se, quindi, i singoli operatori economici dovessero agire in giudizio ogniqualvolta venga violato il loro diritto d’uso esclusivo della DOP sull’intero territorio dell’Unione europea, gli obiettivi del regolamento n. 2081/92 non potrebbero essere raggiunti. 60 Sempre secondo la Commissione, in una causa che oppone operatori economici privati, il punto centrale è che siano rispettati i diritti di proprietà intellettuale di cui godono i produttori stabiliti nella regione d’origine del prodotto in questione, laddove la repressione da parte dei poteri pubblici delle infrazioni all’art. 13 del regolamento n. 2081/92 è volta a tutelare non interessi economici privati, bensì i consumatori, le cui aspettative quanto a qualità e ad origine geografica del prodotto non devono essere deluse. La tutela dei consumatori perseguita dal regolamento sarebbe compromessa se l’attuazione dei divieti previsti dallo stesso fosse rimessa integralmente all’iniziativa processuale degli operatori economici privati. 61 La Commissione conclude che il comportamento della Repubblica federale di Germania deve essere assimilato ad una violazione per omissione del diritto comunitario. 62 Da parte sua, la Repubblica federale di Germania sostiene che l’art. 13 del regolamento n. 2081/92 definisce l’ambito d’applicazione della protezione delle indicazioni geografiche e delle denominazioni d’origine registrate. Dato l’effetto diretto del regolamento, tale articolo sarebbe idoneo a conferire ai titolari o agli utilizzatori legittimi delle DOP diritti che le giurisdizioni nazionali hanno l’obbligo di tutelare. 63 L’applicabilità diretta del regolamento n. 2081/92 non dispenserebbe gli Stati membri dall’obbligo di adottare misure nazionali che permettano di assicurare la sua attuazione. La Repubblica federale di Germania avrebbe adottato, in ogni caso, numerose disposizioni legislative atte a contrastare l’uso illecito delle DOP, in particolare la legge sulla lotta alla concorrenza sleale (Gesetz gegen den unlauteren Wettbewerb), del 7 giugno 1909, e la legge relativa alla tutela dei marchi e di altri segni distintivi (Gesetz über den Schutz von Marken und sonstigen Kennzeichen), del 25 ottobre 1994 (BGBl. 1994 I, pag. 3085). 64 Non solo. La possibilità di impugnare ogni comportamento lesivo dei diritti derivanti da una DOP non sarebbe riservata al solo titolare della medesima. Al contrario, essa sarebbe aperta ai concorrenti, alle associazioni d’imprese e alle associazioni dei consumatori. L’ampia cerchia di soggetti legittimati a proporre ricorso già basterebbe a mostrare che le disposizioni in vigore nella Repubblica federale di Germania non si limitano ad offrire una tutela dei diritti di proprietà intellettuale propri dei produttori stabiliti nella regione d’origine del prodotto in questione. Esse creerebbero un sistema generale ed efficace atto ad impedire violazioni dell’art. 13 del regolamento n. 2081/92 e a sanzionarle efficacemente per via giudiziaria. 65 Riconoscendo questi diritti civili, la Repubblica federale di Germania avrebbe preso tutte le dovute misure per assicurare la piena e completa applicazione dell’art. 13, n. 1, del regolamento n. 2081/92. Non sarebbe necessario che le autorità pubbliche sanzionino d’ufficio, con misure di polizia amministrativa, le violazioni di tale disposizione, né lo imporrebbero gli artt. 10 e 13 del medesimo regolamento. Secondo la Repubblica federale di Germania, dal confronto tra le varie versioni linguistiche dell’art. 10, n. 4, del regolamento n. 2081/92 emerge che, data l’origine italiana della DOP «Parmigiano Reggiano», spetta al Consorzio del Formaggio Parmigiano Reggiano, e non agli organi di controllo tedeschi, verificare che la denominazione venga utilizzata in maniera conforme al disciplinare. 66 Se è vero – come considera la Commissione – che la sanzione inflitta dallo Stato membro interessato per le violazioni dell’art. 13 del regolamento n. 2081/92 deve assicurare la tutela non soltanto degli interessi economici privati, ma anche dei consumatori, nulla nel regolamento lascerebbe ritenere che, contrariamente a quanto accade per altri diritti di proprietà intellettuale o per disposizioni di tutela della concorrenza, per la protezione delle denominazioni d’origine i rimedi giurisdizionali non siano sufficienti. 67 La Repubblica federale di Germania fa valere, infine, che se, in Germania, l’uso della denominazione «parmesan» per prodotti non corrispondenti al disciplinare della DOP «Parmigiano Reggiano» non è oggetto di procedimenti d’ufficio né di sanzioni penali, ammesso che tale utilizzo integri una violazione dell’art. 13, n. 1, del regolamento n. 2081/92, è semplicemente perché essa ha rinunciato a modalità sanzionatorie che gli Stati membri possono, sì, prevedere, ma che allo stato attuale del diritto comunitario non sono tenute ad adottare. 68 A tale proposito occorre ricordare che la facoltà di cui godono i cittadini di far valere le disposizioni di un regolamento dinanzi ai giudici nazionali non dispensa gli Stati membri dall’adottare le misure interne che permettano di assicurarne la piena e completa applicazione qualora ciò si renda necessario (v., in particolare, sentenza 20 marzo 1986, causa 72/85, Commissione/Paesi Bassi, Racc. pag. 1219, punto 20). 69 Non è in discussione che l’ordinamento giuridico tedesco dispone di strumenti giuridici, come le disposizioni legislative menzionate al punto 63 della presente sentenza, per assicurare una tutela effettiva dei diritti che i singoli traggono dal regolamento n. 2081/92. Non è in discussione neppure che la possibilità di impugnare ogni comportamento idoneo a ledere i diritti derivanti da una DOP non è riservata al solo utilizzatore legittimo della stessa, ma è, al contrario, aperta ai concorrenti, alle associazioni di imprese e alle associazioni di consumatori. 70 Se ne desume che una normativa siffatta è idonea a garantire la tutela di interessi diversi da quelli dei produttori dei beni protetti da una DOP, segnatamente: gli interessi dei consumatori. 71 All’udienza, la Repubblica federale di Germania ha del resto indicato che a quella data erano in corso dinanzi ai giudici tedeschi procedimenti relativi all’uso in Germania della denominazione «parmesan», uno dei quali avviato dal Consorzio del Formaggio Parmigiano Reggiano. 72 Per quanto riguarda la censura della Commissione vertente sull’obbligo degli Stati membri di adottare d’ufficio le misure necessarie a perseguire la violazione dell’art. 13, n. 1, del detto regolamento, occorre considerare quanto segue. 73 Innanzi tutto, un obbligo del genere non deriva dall’art. 10 del regolamento n. 2081/92. 74 Vero è che, per assicurare l’efficacia delle disposizioni del regolamento n. 2081/92, l’art. 10, n. 1, prevede che gli Stati membri provvedano a che entro sei mesi dall’entrata in vigore del regolamento siano predisposte strutture di controllo. Essi sono dunque tenuti a creare tali strutture. 75 Tuttavia, l’art. 10, n. 4, del regolamento n. 2081/92, disponendo che «[q]ualora constatino che un prodotto agricolo o alimentare recante una denominazione protetta originaria del suo Stato membro non risponde ai requisiti del disciplinare, le autorità di controllo designate e/o gli organismi privati di uno Stato membro prendono i necessari provvedimenti per assicurare il rispetto del presente regolamento (…)», indica che le autorità di controllo designate e/o gli organismi privati di uno Stato membro sono quelli dello Stato membro di provenienza della DOP. 76 Il fatto che, al n. 3, parli di «produttore o trasformatore soggetto al controllo», al n. 6, del diritto dei produttori all’accesso al sistema di controllo e, al n. 7, dell’obbligo dei produttori di sostenere i costi dei controlli, conferma che l’art. 10 del regolamento n. 2081/92 riguarda obblighi degli Stati membri da cui proviene la DOP. 77 Tale interpretazione è ulteriormente confortata dal combinato disposto degli artt. 4, n. 2, lett. g), e 5, nn. 3 e 4, del regolamento n. 2081/92 dal quale emerge che la domanda di registrazione deve includere il disciplinare, che tale domanda deve essere inviata allo Stato membro sul cui territorio è situata l’area geografica interessata e che il detto disciplinare deve contenere «i riferimenti relativi alle strutture di controllo previste all’articolo 10». 78 Ne consegue che gli organi di controllo cui incombe l’obbligo di assicurare il rispetto del disciplinare delle DOP sono quelli dello Stato membro da cui proviene la DOP medesima. Il controllo sul rispetto del disciplinare nell’uso della DOP «Parmigiano Reggiano» non compete quindi alle autorità di controllo tedesche. 79 È vero che l’art. 13, n. 1, lett. b), del regolamento n. 2081/92 prescrive la protezione delle denominazioni registrate contro qualsiasi «usurpazione, imitazione o evocazione, anche se l’origine vera del prodotto è indicata o se la denominazione protetta è una traduzione o è accompagnata da espressioni quali “genere”, “tipo”, “metodo”, “alla maniera”, “imitazione” o simili». 80 Nondimeno, da un lato, la Commissione non ha dimostrato che la Repubblica federale di Germania ha disatteso gli obblighi derivanti dal regolamento n. 2081/92 e, dall’altro, non ha presentato elementi nel senso che misure come quelle menzionate al punto 63 della presente sentenza non siano state adottate o non fossero idonee a tutelare la DOP «Parmigiano Reggiano». 81 Tutto ciò considerato, occorre dichiarare che la Commissione non ha dimostrato che la Repubblica federale di Germania, rifiutando formalmente di perseguire come illecito l’impiego nel suo territorio della denominazione «parmesan» nell’etichettatura di prodotti non corrispondenti al disciplinare della DOP «Parmigiano Reggiano», è venuta meno agli obblighi che le incombono in forza dell’art. 13, n. 1, lett. b), del regolamento n. 2081/92. 82 Pertanto, il ricorso della Commissione deve essere respinto. Sulle spese 83 A norma dell’art. 69, n. 2, del regolamento di procedura, la parte soccombente è condannata alle spese se ne è stata fatta domanda. Poiché la Repubblica federale di Germania ne ha fatto domanda, la Commissione, rimasta soccombente, deve essere condannata alle spese. Ai sensi del n. 4 del detto articolo, la Repubblica ceca, il Regno di Danimarca, la Repubblica italiana nonché la Repubblica d’Austria sopporteranno ciascuna le proprie spese. Per questi motivi, la Corte (Grande Sezione) dichiara e statuisce: 1) Il ricorso è respinto. 2) La Commissione delle Comunità europee è condannata alle spese. 3) La Repubblica ceca, il Regno di Danimarca, la Repubblica italiana nonché la Repubblica d’Austria sopporteranno ciascuna le proprie spese.